di Giuseppe Genna
[Poiché i Miserabili stanno progressivamente trapassando, è soltanto su Carmilla che, saltuariamente, pubblicherò recensioni o interventi su testi che mi sembrano estremamente interessanti]
Mentre Stephen King, con Colorado Kid (ne riparleremo…), passa a stravolgere il genere hard boiled, puntando alla gola del lettore l’arma bianca dell’unica poetica che perforerà questo nostro tempo narrativo, Bret Easton Ellis fornisce la testimonianza decisiva che l’universo King è la narrativa totale di questi decenni. Questa poetica che avrà rappresentato il nostro tempo è una mitopoiesi. Essendo la mitopoiesi un’organizzazione in forma di epos di nuclei tragici, noi disponiamo di un parametro certo per comprendere quando un libro appartiene o meno a questo cerchio magico. Lunar Park di Bret Easton Ellis vi appartiene.
Bret Easton Ellis è disperato. E’ disperato da decenni e la sua disperazione viene declinata in forma di un disgusto che si percepisce come cinismo, come mimesi disincantata di un occidente che stravolge se stesso e marcia trionfale verso la sua fine. L’accoglienza che hanno avuto Less than zero, American Psycho e Glamorama costituisce un filtraggio che non ha permesso, secondo uno sguardo critico all’altezza della mitopoiesi di cui quest’autore era ed è formidabile cantore, di osservare fino a che punto covasse tragedia sotto la sua scrittura, ovvero sotto il suo “io”. L’affermazione proditoria – volontariamente proditoria – che Patrick Bateman, il serial killer di American Psycho, era una messa in scena della sagoma potente e magnetica di suo padre, ha permesso un’esternalizzazione del fenomeno Ellis almeno pari allo tsunami di glam da cui è stato investito. Questo ragazzo triturato dal sistema di un divismo editoriale che mima goffamente le modalità dello showbiz più stellare, non ha soltanto prodotto dei danni in personaggi come Ellis, ma ha esercitato un effetto salutare: quello di due unghie che fanno fuoriuscire il pus dal foruncolo. Perché Ellis è strapieno di pus psichico e American Psycho non era semplicemente un’analisi sociologica in forma narrativa o una profezia a brevissimo termine sulla decadenza dell’Impero: era il grido disperato di aiuto che veniva lanciato da un uomo che si stava stravolgendo nonostante il suo talento, nonostante la percezione della profondità di quanto fosse tragica la vita di tutti, la sua vita, la vita in sé.
Al culmine della disperazione, Bret Easton Ellis allestisce una strategia che soltanto cinque anni fa sarebbe risultata impensabile per un autore del suo calibro: copia Stephen King. O, almeno, così pare, leggendo Lunar Park. La verità è che Ellis elabora una sorta di risposta devastante al complesso di Edipo, lui che si ritrova Laio già bell’e che morto, senza possibilità di scopare a sua insaputa niente di materno, bensì solo modelline seriali durante le orgiastiche nottate del Bret Pack insieme all’amico di sempre, Jay McInerney. Ellis formula una strategia del piacere e dell’incanto, e sceglie Stephen King perché è King l’uomo che sta raccontando la tragedia con la grammatica dell’incanto, uno spettro tonale assoluto, che va da quell’irrefrenabile magia per cui non si può fare a meno di andare avanti nella lettura dei suoi romanzi fino all’horror più scontato e al lirismo più inedito.
Ellis è un grande scrittore e, se elabora una strategia di questo tipo, la elabora in grande stile. E dunque, ammesso che si ispiri a King, decide di copiare tutto King. A partire dal King più pazzesco e stravolgente, quello delle pagine autobiografiche di On writing. Le prime quaranta pagine di Lunar Park sono esattamente questo sconvolgente realismo della deriva umana di un soggetto patologico che immagina e pensa e scrive, nel momento (un lungo momento storico) in cui si fa trascinare lontano dalla scrittura e cade nella trappola del Lete che separerebbe l’esistenza dalla letteratura. Sono pagine impressionanti, di un lirismo equipollente al naturalismo, laddove il naturalismo di Ellis (come quello di King in On writing) non ha nulla a che vedere con la rappresentazione speculare del mondo (interno ed esterno), bensì con la costruzione di una narrazione di sé nel mondo sotto specie di cosmogonia. Siamo nel nucleo a fusione fredda, in cui “io” ed epos si contorcono in un abbraccio laocoonteo. Il racconto delle notti folli, della china stupefacente presa da un soggetto capitato in un occidente che sembra marzianità pura, della struttura di business editoriale, del marketing e dei tour in stato catatonico, delle psicosomatosi devastanti usate come scusa per l’assenza alle presentazioni, fino al momento dell’agnizione (che in OW in King è rappresentato dalla foratura del timpano auricolare per fare uscire pus), la morte del padre così odiato, così negazionisticamente amato – la tragedia innesca una normalizzazione, Ellis esplode, non ce la fa più.
Inizia una vita normale. Inizia la fiction.
Lunar Park è due romanzi e il secondo, che sembra ancora autobiografico ed è invece allegoria, comincia a pagina 36. Il primo romanzo, un’accelerazione irresistibile, termina con una frase sibillina: “E ora è arrivato il momento di tornare nel passato”. Ellis si appresta così, evidentemente, a narrare una bolla temporale, che non è il presente in cui ha narrato un passato che viene prima del passato che sta per raccontare. E’ già nel futuro. Destruttura il racconto senza farlo percepire, adottando un uso laico dello stratagemma ucronico.
Troviamo infatti Bret Easton Ellis ripulito e – incredibile – sposato. L’attrice Jayne Dennis, dalla quale aveva avuto un figlio non riconosciuto nel periodo della starship tremenda narrato nella prima parte (“Gli Inizi”), lo ha preso per mano, lo ha portato via dalla città cattiva e tentatrice. Ora Bret vive in provincia, una villa che condivide con Jayne, con il figlio Robby, e con la seconda figlia di Jayne, la piccola Sarah, il cui padre è totalmente assente. E’ la buona provincia americana. La narrazione di Ellis fa sporadici riferimenti ad attacchi terroristici sul suolo americano che non coincidono perfettamente con l’11/9. La storia che il nuovo Bret sta per vivere è quella dell’ultimo uomo medio: un uomo medio miliardario sposato a un’attrice miliardaria. Questa discrasia, nemmeno sussurata, è indicativa dello stato di irrealtà psicotica in cui Bret scivola per la seconda volta, ma al tempo stesso non fa perdere un grammo del peso politico di un libro che mette il disfacimento di un Impero con le spalle al muro.
Non diremo una parola di più sulla trama, se non esprimendo suggestioni: accadono sparizioni di bambini, fenomeni paranormali. Accade che vada a puttane tutto. Va tutto a puttane come potrebbe andare a puttane non in King, ma in Ellis.
Il secondo romanzo, che costruisce questa dilogia compressa che è Lunar Park, esercita sul lettore la medesima magia di cui King è magistrale evocatore. Ellis gioca di atmosfera, di sarcasmo, di sociologia. I bambini sovradeterminati dall’assunzione psicofarmacologica, il sesso venuto male, l’ipocrisia della neoborghesia che, ormai, per essere tale, deve disporre di capitali elevatissimi – tutto ciò è secondario rispetto al flusso incantatorio che la scrittura di Ellis emana di pagina in pagina.
C’è però un elemento della trama che va rilevato. Nello stato di psicosi autentica e storica che la famiglia di Ellis si trova a vivere, è la letteratura di Bret Easton Ellis a ribaltarsi in forza demonica, sono i suoi libri a spalancare le porte di un inferno che era il passato, è il presente e forse sarà il futuro – a meno di redenzioni. L’odio che Ellis proclama (senza esclamarlo mai puntualmente) per la “voce della finzione”, per il “romanzo finto”, è l’agente del male che colpisce, stravolge e distrugge una seconda volta l’uomo e lo scrittore Ellis, che progressivamente vanno distanziandosi reciprocamente (lo scrittore suggerisce soluzioni in corsivo, tra parentesi, all’uomo Ellis), mentre il gorgo accelera la velocità centrifuga delle sue acque oscure e Bret Easton Ellis finisce per trovarsi nell’occhio immoto: luogo solitario, abbandonato dal padre, dove finalmente quel padre si può piangerlo, tentare la redenzione postuma di un affetto mai espresso o, più precisamente, mai detto o linguificato in scrittura, per quanto sinceramente Ellis ci avesse provato con i libri precedenti.
Forse Lunar Park è la fine di uno scrittore per come l’abbiamo conosciuto. Forse Bret Easton Ellis non sarà sommerso, con questa pubblicazione, dal successo planetario e dal glam stellare a cui lo avevano abituato tempi marci, marci non soltanto per lui. Certo lo scrittore di Lunar Park è un’acquisizione importante delle lettere non patrie, ma internazionale. E’, a fianco di King, uno dei soldati nell’assalto all’arma bianca della mitopoiesi, per la conquista della rappresentazione in forma di leggenda del nostro tempo tutto.
Bret Easton Ellis – Lunar Park – Einaudi – 18 euro