di Simone Scaffidi Lallaro
Stati Uniti-Portogallo, 22 giugno 2014
Non si torna indietro di un secolo in soli dodici giorni. Quattro partite di calcio, seppur di un Mondiale, non bastano a far rivivere a Manaus il clima del 1912. Gli inglesi sulle carrozze, le nobildonne francesi vestite da catrine messicane, i grandi baroni tedeschi della gomma e i tenori italiani più importanti del tempo da lì a pochi anni si trasformarono in ricordi. Alle spalle si lasciavano le tracce del loro passaggio: la rete tramviaria elettrificata, i bordelli di lusso, i maestosi palazzi privati e una costosissimo teatro dell’opera a dominare la piazza centrale di Manaus. La città, nel cuore della foresta amazzonica, all’epoca contava poco più di 20.000 abitanti ed era come oggi raggiungibile soltanto dal cielo o dopo giorni di navigazione sul Rio delle Amazzoni.
Eppure l’Europa aveva occhi e capitali solo per lei: la donna che alimentava la finanza londinese e allattava con il suo liquido bianco e colloso i conquistadores della gomma. La nutrice che si prendeva cura dei bambini per essere violentata giorno dopo giorno dal padrone. Fino a quando un signore di origini irlandesi non dichiarò al mondo che in Malesia le piantagioni di hevea – la pianta da cui si estrae il caucciù – erano più produttive e convenienti di quelle amazzoniche. E allora il padrone rinnegò la nutrice, la abbandonò e si preoccupò di violentare un ventre fertile all’altro capo del mondo. Ma prima strappò alla nutrice il prezioso seme della gomma e lo impiantò in Asia. Fu allora che il sipario calò, l’Europa si dimenticò di Manaus, Manaus ringraziò e il ciclo della gomma ebbe fine.
Cristiano è seduto accanto a Coentrão sull’aereo che da Salvador porta la nazionale portoghese a Manaus. Come un bimbo si è battuto per avere il posto vicino al finestrino: non vuole perdersi il verde della foresta amazzonica dal cielo. Anche Coentrão è curioso di cosa ci sia là sotto, i due si spingono ridendo, la coscia destra del difensore portoghese sfiora il ginocchio sinistro del Pallone d’oro, Cristiano lo ritrae rapido e si fa serio in un istante. Nonostante il riposo, le infiltrazioni e l’allenamento differenziato una fitta all’altezza della rotula lo sorprende, erano settimane che quella manciata di spilli che trafigge la carne dall’interno verso l’esterno non si ripresentava.
Il dolore svanisce immediatamente, come da copione, ma Cristiano è già lontano con la mente. Coentrão non si accorge della smorfia e ne approfitta per lanciarsi sul finestrino e guadagnarsi la foresta. Riposare, chiudere gli occhi, illudersi che rilassando la mente anche il tendine si allenterà. Riaprirli sopra Manaus e non credere che dalla selva possa spuntare una città di due milioni di abitanti. Un particolare ti colpisce, più dell’immenso stadio in cui giocherai: è una cupola verde-oro come la bandiera del Brasile, una cupola che sovrasta un edificio rosa nella piazza centrale della città.
L’elefante, rosa come i delfini che abitano il Rio delle Amazzoni, è il Teatro Amazonas, una grande opera costruita e arredata con le materie prime più pregiate della terra: marmi di Carrara per le scale, vetri di Murano per i lampadari, mobili francesi per gli interni, acciaio inglese per la struttura e tegole importate dall’Alsazia. Su quelle tegole il tuo sguardo si ferma. Il teatro, inaugurato dalla voce di Enrico Caruso su La Gioconda di Ponchielli, ha funzionato dal 1897 al 1924 per poi cadere in abbandono e ritornare a vivere dopo settantaquattro anni di inattività. Il dito indice di Coentrão davanti al tuo naso ti costringe a distogliere lo sguardo dalle tegole colorate. Ora squadrate insieme il tuo di teatro, il palcoscenico dove puoi recitare solo la parte di attore protagonista, altrimenti il pubblico ti fischierà.
Un nuovo e imponente teatro inaugurato all’alba del 2014 e costruito con materiali e tecnologie di ultima generazione, un’arena calcistica da 40.000 spettatori e 219 milioni di euro. Una balena bianchissima arenata su uno scoglio grigiastro al centro di un mare di alberi verdissimi. Una bianchezza che mantiene sempre fresche le sue rovine e che non ammette il verde della decadenza completa. È proprio lì sotto che dovrai vendicare l’ologramma di te stesso – insieme oberato e svuotato di colori come un pallone mai sporcato – apparso a Salvador.
La fitta al ginocchio sinistro non si presentava da almeno due settimane, contro la Germania solo i fischi riservati al fantasma di Cristiano Ronaldo avrebbero potuto impensierire i tendini rotulei del Cristiano Ronaldo in carne ed ossa. Ora la fascia elastica cosparsa di crema aderisce perfettamente al ginocchio, il medico la applica con cura e la fissa con un nastro adesivo bianco alla coscia e allo stinco del depilatissimo testimonial di Armani. Ogni tre ore dovrà sostituirla con una nuova. Medico e giocatore escono insieme dall’albergo e salgono sul pullman, battute ironiche accolgono il talento di Madeira, lui non se la prende e risponde con un ghigno e un occhiolino. L’autista si perde nel quartiere dei bordelli per poi ritrovare la via del porto. Qui, un battello di medie dimensioni attende la seleção portoghese: a prua è stampato il logo giallo e blu del Banco do Brasil mentre a poppa è dipinta in lettere cubitali la scritta: “Tudo è força, mas sò Deus è poder”.
È prevista una gita in barca di qualche ora, giusto il tempo per vedere i curiosi benzinai galleggianti e arrivare alla confluenza tra Rio Negro, Rio Solimoes e Rio delle Amazzoni, dove le acque dei primi due fiumi si incontrano senza confondersi e si assiste allo scorrere parallelo di un flusso di colore marrone e uno di colore blu scuro. Ventitré cappellini verdi e rossi si sporgono ad ammirare lo strano fenomeno. Pochi minuti dopo Cristiano allunga la gamba sinistra su una sedia vicina alla battagliola, il medico srotola la benda e la appoggia sul tavolino, poi con un gesto rapido afferra il tubetto di crema e la applica al ginocchio, una folata di vento lo sorprende facendo cadere il nastro adesivo bianco mentre la benda sul tavolino vola via, il medico la rincorre senza risultati, Meireles prova a fermare la sua corsa con una gamba, entrambi si sporgono e la vedono capitombolare in acqua. Il medico torna al suo posto e conclude la medicazione senza ulteriori contrattempi.
Mancano pochi giorni alla sfida con gli Stati Uniti e la stampa nordamericana parla solo di lui e del suo nome. Ronaldo si chiama così in onore di Ronald Reagan, attore preferito dal padre e presidente degli Stati Uniti d’America dal 1981 al 1989. L’anno in cui Cristiano nacque il suo omonimo era impegnato a trafficare armi con l’Iran per finanziare le azioni dei Contras contro il governo sandinista in Nicaragua, ma questo i giornali si guardan bene dal ricordarlo e sviolinano chilometri di agiografie e parallelismi tra i due. Ronaldo sa poco di Reagan, si ripromette di leggere la sua autobiografia dal titolo Where’s the rest of me? Ha ancora la gamba sollevata e appoggiata sulla sedia quando estrae il tablet dal marsupio e la compra seduta stante su Amazon. Neppure per un istante pensa che il nome della multinazionale di Seattle gli sta scorrendo sotto il culo.
La benda impregnata di crema non affonda e continua la sua corsa verso est lasciandosi alle spalle i benzinai galleggianti e il cemento armato di Manaus. Un delfino rosa le taglia la strada proprio mentre viene trascinata in un’ansa del fiume chiamata Paranà do Jacaré. Qui, come il nome suggerisce, si spiaggia su una piccola duna di sabbia accanto a una ventina di esemplari di caimano nero, resta immobile e si secca al sole come una squama di coccodrillo. La poca crema che ha addosso riaffiora solidificata tra le maglie elastiche. Ora la benda da bianca assume un colorito giallastro grazie a un mix di sole, sabbia e crema. Dopo qualche ora, l’improvviso movimento della coda di uno dei rettili la rimette in cammino, dapprima scivola lentamente in acqua per poi essere trascinata violentemente dalla corrente sotto un fitto acquazzone equatoriale.
La pagaia di una canoa manovrata da due bambine a torso nudo la sfiora, il movimento oscillante dell’acqua la culla sulla superficie, sembra la giusta quiete dopo la tempesta; e invece no, una batteria di pagaiate la colpisce con violenza, la benda affonda e riaffiora in una danza spasmodica tra aria e acqua. Un fischio grave accompagna la danza, è la sirena di una nave, una grossa imbarcazione si staglia a poche decine di metri dalla benda, è piena zeppa di amache e pullulante di donne, uomini e bambini. È così che la gente arriva a Manaus e attraversa la foresta amazzonica, questo è il mezzo pubblico, basta procurarsi un’amaca magari comprata a Belem nella Casa das Redes e in cinque giorni di navigazione dalla foce delle Rio delle Amazzoni si giunge fino a Manaus. L’aereo è roba da gringos. Qui dormi all’aperto e ti snoccioli albe e tramonti per cinque giorni consecutivi.
Le canoe corrono incontro alla nave e dall’alto piovono sacchi di plastica, due gringos – gli unici di tutta la nave – scattano foto e chiedono il perché di quel gesto, cosa contengono quei sacchi. Le bambine e i bambini più fortunati li issano come reti sulle canoe, i meno fortunati inseguono la scia della nave con foga guardandola sparire tra la selva. Sono regali per i poveri, questi bambini non possiedono nulla. Noi abbiamo di più, noi doniamo, un piccolo gesto per colonizzare il loro immaginario, per regalare loro un desiderio che mai avrebbero, per urlare al mondo che tifiamo pacifismo. E intanto il grande battello ricolmo di amache passa senza fermarsi, senza scambiare una parola ma lanciando un dono e uno sguardo commiserevole. Un po’ come firmare un autografo senza guardarti neppure in faccia: un dono sterile, sarebbe meglio chiacchierare un po’ ma qui non ci sono porti a cui attraccare e i calciatori non si confondono con la gente.
Cristiano è concentrato, deve vendicare il fantasma di una settimana fa, bianchissimo come la bocca della balena che ora lo divora. Ci si perde in quest’arena. Si sono persi Raimundo Nonato Lima Costa (49 anni), Marcleudo de Melo Ferreira (22 anni), José Antonio Nascimento Sousa (50 anni) e Antonio José Pita Martins (55 anni) in questa arena, quando la copertura eco-sostenibile li ha travolti. Lo spogliatoio, il lettino, il rito della benda. Cristiano ha dimenticato quei nomi, c’è stato un tempo in cui ha saputo ma ora ha rimosso, le urla dei manifestanti provano a farglielo ricordare ma lui è troppo concentrato a scrivere la storia del calcio. Fra pochi minuti si affronteranno Portogallo e Stati Uniti, penultimo appuntamento del ciclo del calcio di Manaus che prevede quattro match mondiali. Cosa accadrà dopo è un’incognita già vissuta:gli scettici prevedono settantaquattro anni di inattività, gli ottimisti grandi concerti internazionali che attireranno folle oceaniche e i nostalgici dell’Estadio Nacional del Chile hanno già immaginato per l’arena un futuro da penitenziario.
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