di Simone Scaffidi Lallaro
[Questo è il primo di una serie di cinque racconti ispirati al mondiale brasiliano che comincia oggi e diventa un pretesto per narrare quattro storie intorno ad altrettanti personaggi. I racconti hanno come sfondo le città di San Paolo, Brasilia, Manaus e Salvador e i quattro personaggi per un motivo o per l’altro si ritroveranno tutti/e a Rio de Janeiro per la finale del 13 luglio al Maracanà]
Brasile-Croazia, 12 giugno 2014
«Almeno abbiamo un carcere in meno. Ti sembra poco?» erano le ultime parole che Olavo Cuadros aveva rivolto al Babalaò in una notte che avrebbe ricordato come una delle più gelide della sua esistenza. Il serpente di carne ed ectoplasma guidato dallo spirito di Oshumare aveva appena raso al suolo Sepultura – il carcere di massima sicurezza di San Paolo – mentre Olavo dalla collina si godeva compiaciuto lo spettacolo. Non poteva augurarsi di meglio: insieme si sgretolavano le mura di un’istituzione che non aveva mai tollerato e le colonne vertebrali di ribelli senza patria che disgustava. Le carceri non gli erano mai andate a genio, il problema andava estirpato alla radice. Torture e privazioni di libertà fortificavano i ribelli, bisognava farli sparire come in Argentina, quello sì che era un metodo che funzionava. Puf! E il problema svaniva.
Se no poi – e lo gridava continuamente alle sue reclute durante le esercitazioni – accadevano spiacevoli episodi come quello di Carandiru nel ’92 e di Sepultura nel ’98: i detenuti si organizzavano, si ribellavano e a quel punto si era costretti a sparare, e dopo lo scandalo internazionale a cambiare addirittura nome al carcere. Così era successo per Carandiru rinominato Sepultura, e per Sepultura oggi intitolato alla stella più osannata del firmamento calcistico brasiliano. Ma, sebbene il suo nome originale sia “Casa de detenção Edson Arantes do Nascimento Pelé”, fin dai primi giorni dalla sua inaugurazione – avvenuta nel 2004 – il penitenziario è stato ribattezzato con uno dei soprannomi di Pelé: “La Perla Nera”. Olavo sorride pensando alla curiosa coincidenza semantica: la popolazione carceraria de “La Perla Nera” è per il 90% afro-discendente.
A “La Perla Nera” i metodi di Sepultura li hanno ereditati e perfezionati: un terzo dei detenuti ha infatti le gambe immerse in una soluzione di colla ciano-acrilica resa ancora più efficace dall’aggiunta di un composito fibroso di colore bluastro: la crocidolite. L’elasticità e la resistenza agli acidi di questo minerale garantisce una maggiore coibentazione tra le terminazioni nervose degli arti inferiori e l’atmosfera rendendo pressoché impossibile l’evasione del detenuto. A seguito del processo di pacificazione delle favelas di Rio de Janeiro – avviato nel 2008 – si è potuto usufruire di questo minerale in grande quantità. I resti delle baracche rase al suolo dai carri armati dell’esercito – e in particolare le lamiere ondulate che insieme al mattone colorano di grigio-rosso i morros carioca – hanno reso disponibile la crocidolite in larga scala, tanto che il sistema di detenzione a immersione si è esteso a tutti i grandi penitenziari brasiliani.
Sono passati sedici anni da quella notte di riti ancestrali e incendi magnetici, da quel flusso di carne e volontà che rase al suolo il Padiglione Nove di Sepultura. Eppure Olavo fatica a dimenticare la brezza densa di palpitazioni che trasformò una notte tranquilla in una madrugada insonne. Da quando si era unito agli Eliminatori di Erbacce, lasciandosi alle spalle il salario da fame di poliziotto semplice, aveva perso il conto dei bambini e delle bambine uccisi nelle favelas di Sao Paulo e Rio de Janeiro, come dei negri falciati e insacchettati nelle missioni straordinarie a Salvador, quando – nei primi mesi del 2012 – quei pezzenti della polizia scioperavano e lo stato di Bahia reclamava a gran voce l’intervento degli Eliminatori. Di fango in vent’anni di addestramento ne aveva mangiato e le mazzate i suoi superiori non gliele avevano mai risparmiate. Era negro e se ne meritava di più. Ma ora era lui a dettare legge all’interno del reparto: il primo negro della storia al comando di una squadra di Eliminatori di Erbacce. Stampato tra le sopracciglia un solo obiettivo: estirpare la piaga della povertà con qualsiasi mezzo. Così lo stato di diritto avrebbe finalmente trionfato e Olavo non sarebbe più stato costretto a vedere le strade gremite di gente sporca e negri vestiti di stracci. Parassiti capaci solo di ubriacarsi di Caninha da Roça, fumare colla e giocare a fútbol. Negri diversi da lui.
Il 2012 e il 2013 erano state annate intense per Olavo e il suo reparto. All’operazione nella capitale baiana si era aggiunta la grana della comunità di Pinheirinho: quasi diecimila persone sfollate a lacrimogeni e mitragliate, ree di essersi costruite una casa su un suolo che ora veniva rivendicato dallo stato federale. Alle cinque del mattino la cagnaccia di Olavo aveva aperto la macabra danza delle membra trafitte dal metallo e la Polícia Militar aveva continuato l’opera di espropriazione per giorni. Il mese successivo gli Eliminatori avevano nuovamente preceduto la polizia militare nell’irruzione alla USP, l’Universidade de Sao Paulo, in un’azione che per modalità e violenza ricordava l’invasione della PUC, la Pontifica Universidade Católica, del 1977, quando la dittatura militare ordinò di dissolvere nel sangue l’União Nacional dos Estudantes. Olavo era stanco ma soddisfatto, aveva svolto tutte azioni propedeutiche al mantenimento di quell’ordine che la bandiera della sua nazione si ostinava ad evocare insieme alla parola progresso. Ordem-e-progresso: l’antidoto giusto da sillabare prima di dormire, quando il ricordo di quella notte sopraggiungeva con la stessa violenza di uno spasmo mioclonico.
Il momento era lì, bastava coglierlo, il Brasile doveva finalmente staccare gli avversari: non più lasciarsi trascinare dalla corrente su galee straniere ma divenire padrone delle rotte per dominare finalmente gli oceani del capitalismo mondiale. Olavo lo sapeva, la metamorfosi da Pachiderma inerte a feroce Leviatano era in atto. Solo l’idra dalle molte teste che infestava la Baia di Guanabara e il porto di Santos poteva frenare l’avanzata del gigante. Da buon Eliminatore Olavo non aveva dubbi: le teste dovevano cadere il prima possibile, una dopo l’altra e sulla pubblica piazza, proprio come al tempo di Madama Ghigliottina.
Migliaia di teste protestavano contro i supposti motori del progresso, manifestavano contro la Confederation’s Cup e benedivano con bestemmie la venuta in terra di Papa Francesco. Olavo era a a Rio per la Giornata Mondiale della Gioventù, ce l’avevano spedito con il compito di tenere a bada le teste calde della favela Pavao-Pavaozinho situata a poche centinaia di metri da Copacabana. Rio era una città che non amava, nella quale andava di malavoglia, irritato dall’irregolarità morfologica e sociale di quell’ammasso urbano confuso. Sapeva però che proprio a Rio si sarebbero giocate le partire decisive per la metamorfosi di un’intera nazione. Se voleva essere protagonista del cambiamento doveva abituarsi all’idea: l’ago della bussola puntava dritto su Rio de Janeiro.
***
San Paolo freme. Mancano pochi minuti al calcio di inizio della partita inaugurale del Mundial 2014. Gli uomini di Olavo hanno fatto un bel lavoro con gli ultras paulisti più incazzati: alcuni dei capi della torcida corinthiana sono morti in tragici incidenti, altri sono finiti dritti-dritti a “La Perla Nera”, chi non è morto è schedato, chi non è schedato sa di avere il fiato sul collo e non farà cazzate. I croati – le poche teste di cazzo che si presenteranno a San Paolo – non impensieriscono. A fine partita s’infileranno le bandiere da tavola calda su per il culo e se ne torneranno nei loro alberghi pulciosi senza fare tanti casini.
Olavo è in piedi e aspetta. Il ventre del gigante sputa il profilo spigoloso di Luka Modrić seguito dai tatuaggi di Dani Alves. Fábio Luiz Pereira, Ronaldo Oliveira dos Santos e Fábio Hamilton sono nomi dimenticati sotto le macerie di uno stadio, l’Itaquerao, che ora esplode in un fragoroso boato. Tutto è pronto per l’inizio del Mundial. Il direttore di gara porta il fischietto alla bocca. Difficile percepire il suono in mezzo a quel delirio di grida e canti. Un pensiero sopraggiunge inaspettato nella mente di Olavo: i corpi maciullati dei tre operai. Nello stesso istante il serpente di carne ed ectoplasma riappare d’improvviso. Olavo ne scaccia il ricordo. Tutto procede come aveva previsto. Il suo volto non tradisce insicurezza. Eppure quella visione insperata lo scuote. Tre vite come le loro non valgono un Mondiale. Lo stesso Pelé lo ha ribadito. Le labbra si muovono mute a ripetere il mantra di una vita: ordem-e-progresso-ordem-e-progresso-ordem-e-progresso. Continua…
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