di Alberto Prunetti
Tale era la situazione di abbrutimento che si respirava in quel locale. Capirete che, per tirare avanti, dovevo utilizzare ogni pretesto per aizzare la ciurma contro i proprietari: perciò, alla minima vessazione del boss e della padrona, mi prodigavo ad istillare sentimenti di rivalsa e azioni di rappresaglia: c’erano momenti in cui l’ammutinamento sembrava prossimo, altre volte però la generale indolenza o la necessità del lavoro ricomponevano le tensioni. Pertanto, quando non ero costretto a sudare intorno al forno, mi impegnavo a diffondere idee e voci imbarazzanti per la reputazione del locale.
L’idea mi era venuta leggendo un vecchio libricciolo francese di inizio secolo, che spiegava le varie tecniche con cui i lavoratori potevano dare “pane e rigatino” ai propri padroni. Il sabotaggio, spiegava l’autore, si basa sul concetto di “a cattiva paga, cattivo lavoro” e prende il nome dal francese “sabot”, cioè lo “zoccolo” che gli operai si toglievano dai piedi e lanciavano dentro ai macchinari per ingripparli. Ora, quando spiegai le nuove prospettive a Paco, lui si tolse uno dei suoi zoccoli ortopedici — diffusissimi negli ambienti delle cucine — , sdraiò una grossa pizza, la chiuse a mo’ di calzone sullo zoccolo e stava per infornarla quando tempestivamente lo bloccai. La cosa era simpatica ma sarebbe stato danneggiato solo il malcapitato avventore, mentre i nostri zoccoli dovevano arrivare sul capo di quella zoccola della signora. Per cui tornai alla lettura del suddetto opuscolo e trovai un passaggio che sembrava fatto apposta per me e Paco: descriveva una tecnica di sabotaggio adatta agli ambienti della ristorazione, il cosiddetto sabotaggio “a bocca aperta”. L’autore spiegava che spesso la fortuna indebita di tanti locali si regge sul silenzio dei dipendenti che sono testimoni delle porcate che si nascondono in ogni cucina, ma si rifiutano di farle circolare. Ora il nostro scopo era la guerra ad oltranza per cui decidemmo di riferire ciò che veniva celato e di inventare tutto l’inventabile per sabotare la fiducia degli avventori nel locale. Per cui la parola d’ordine nei giorni successivi fu: “bocca aperta”! — eravamo stanchi di fare i muti. Ci dividemmo i paesi della zona e andavamo in giro giorno e notte diffondendo il verbo. Io poi mi facevo chilometri in motorino, urlando volgarità ai quattro venti con l’aiuto della rapida Fama — mostro mitologico, veloce d’ali e di piedi, nunzio del vero e del falso, come scrive Virgilio: volete sapere com’è la pizza? Buona, e anche arrapante: si allunga il pomodoro con il mestruo ottenuto dalla fermentazione degli assorbenti raccolti nei servizi delle donne; sì, sputo spesso nelle pizze; fa caldo? un po’ ma mi detergo il sudore con fazzolettini di carta che poi faccio bruciare in forno: conferiscono alla pizza un aroma, un retrogusto inebriante. Sì, mi scaccolo molto spesso, e sputo anche, perlopiù nell’impastatrice, per conferire più elasticità all’impasto. Abbiamo un menù di pesce? Ma certo signore, facciamo uno splendido cacciucco con i gusci delle aragoste lasciate il giorno prima sui piatti: raschiamo i gusci per prelevare la polpa residua, poi pestiamo il tutto in un mortaio, lo passiamo attraverso un colino e coloriamo di rosa con del carminio la pasta ottenuta. Il risultato è squisito, signore. Ah, preferisce un menù di terra? Ma che problema c’è, signore? Abbiamo degli splendidi spezzatini di capriolo, ottenuti da carne di bue resa piccantissima e irriconoscibile da una salsa di nostra invenzione! Vuole sapere com’è fatta la salsa? Non importa vero, beh, allora arrivederci, venga a trovarci mi raccomando… Ne avevo di storie come queste da mettere in giro, e a tanti ho rovesciato lo stomaco: tutta gente guadagnata alla mia causa, che mai più sarebbe entrata in quel locale a sbavare sulla solita zuppa.
Se fosse stato sempre a questo modo forse non me la sarei passata malaccio. Ma, per quanto con Paco ogni cosa era un pretesto per fare casino, quel posto era diventato il rimessaggio della mia voglia di vivere. Immaginate i miei patimenti nel momento peggiore della giornata: quando si mangiava. Mangiare coi dipendenti era per i proprietari un rito liturgico, la comunione col corpo mistico degli addetti alla ristorazione, e per questo si faceva in maniera calma e solenne. Il problema era che, nella parodia della funzione religiosa, non mancavano i sermoni. Partiva il boss e con la stessa saccenza di S. Tommaso ci ricordava che il mondo è pieno di ladri e di gente che non lavora. Sentenza: al muro. Lo rincalzava lo chef con un’indipendenza di giudizio degna di un pubblico ministero: tutti al muro, drogati e delinquenti ovunque tranne che nelle cucine. La padrona poi se la prendeva coi finocchi: erano malati e pertanto era meglio che morissero anche loro almeno finivano di patire e di attaccare l’aids sputando nei bicchieri. Il problema era che in questa situazione tutti guardavano me, e si aspettavano di sentire la mia parte di arringa. Ora, voi cari lettori capirete che qualche problemuccio con la giustizia, un po’ in svariati settori del codice penale, ce l’ha anche il sottoscritto e quindi non mi rimaneva che sbrigarmi col mangiare, fingere di avere da fare al forno o, in caso di immobilità coatta, appellarmi al codice sardo di sopravvivenza: silenzio, o come ripiego negare anche ciò che è evidente. Ma le cose peggioravano tremendamente quando al fine settimana arrivava il figlio dei miei datori di lavoro, reduce dai suoi studi universitari in città, unico vanto e solitaria loro speme. Tra lui e i genitori c’era un legame simbiotico: i genitori facevano una vita di merda per permettere al figlio di studiare, lui faceva una vita di merda per non tradire le aspettative dei genitori. Comunque, ritornando al tizio di cui sopra, il fructum ventris della mia datrix laborem — il latino può darsi sia un po’ arrangiato – si chiamava Mario Jr., studiava ingegneria nell’indirizzo grandi impianti e con specializzazione nell’ars infinocchiandi parentum. Quest’ultima specializzazione lo portava ad assumersi tutta una serie di pesanti responsabilità, tra cui spiccava per enormità di sacrificio quella di accedere in continuazione al bancomat del padre. Infatti, conscio dell’origine contadina del genitore, non voleva umiliarlo facendogli sapere che ormai a forza di cagar pizze dal forno anch’egli era un signore, e pertanto si vedeva costretto, per il bene del pater familias e – s’intenda – al solo fine di non aggravarlo con pensieri più grandi di lui, a decurtare dal conto paterno quel tanto che bastava al vecchio perché si sentisse ancora un poveraccio. Effettivamente Mario jr era una nobile persona, ma quello che lo faceva ancora più inclito era il fatto che, quando non si allenava al calcolo matematico sui saldi del conto bancario del padre, era dedito in toto ad una enorme impresa che avrebbe portato onore a lui e gloria imperitura alla sua stirpe. Egli infatti voleva brevettare un nuovo modello di sedia elettrica, la sedia decervellante, che agiva direttamente sui centri nervosi dei condannati a morte. La sua creazione gli avrebbe portato fama indelebile accanto al dr. Joseph Ignace Guillotin, e il suo nome sarebbe stato sulla bocca di tutti, come ancor oggi accade nelle contrade toscane con la Madonna e Pio IX. Però per il momento passava le giornate a studiare, molto di più di quel che gli servisse davvero. Per lo studio del brevetto del nuovo decervellatore Mario Jr. rinunciava a qualunque piacere, non aveva passioni, né amici, un solo compito lo attendeva ogni giorno: la macchina decervellante. E forse era proprio per questo che sognava un mondo dove tutti quelli che facevano le cose a cui lui rinunciava avrebbero un giorno dovuto fare i conti colla sua invenzione. Così, quando il sabato sera veniva a cenare al locale, ci avvertiva tutti che lui era astemio, e quindi gli alcolizzati andavano decercellati, che lui era vergine e quindi i dissoluti andavo decervellati, che lui non fumava, non superava i limiti in auto, non passava col rosso, non dimenticava di pagare il bollo del motorino, tirava lo sciacquone al cesso, faceva la fila alla cassa… con tutto quel che conseguiva per gli eventuali contravventori. Io all’inizio sudavo freddo, temevo che lui si fosse fatto consegnare un mio certificato penale da qualche sbirro, solo in seguito capii che si comportava così in ossequio alla cistifellea guasta che gli spandeva bile per tutta la carcassa. Capirete ben presto che dovevo severamente redarguirlo. Tra l’altro ero disgustato da come si prodigava a instillare dubbi sulla condotta penale del vecchio Mike —“si è ucciso perché tanto lo avrebbero presto arrestato”, diceva – e poi, da vecchia fogna di stampo criminologo-positivista qual era, vedeva tare genetiche a destra e manca. Per cui lo mandai in culo con finezza d’eloquio e competenza linguistica degna d’un Saussure, senza trascurare di fare l’apologia delle due cose che più lui odiava: le equazioni irrisolte e i casi di impunità penale. Insomma, mi liberai di lui con la stessa insofferenza con cui prima di andare a dormire mi strappavo le caccole di farina rinsecchite dai peli degli avambracci.
Tuttavia la situazione cominciava a preoccuparmi. Oltre all’inopinabile culo che mi facevo c’era ormai un’aria da tribunale di provincia che aleggiava per tutto il locale, qualcosa che ricordava le requisitorie di Roy Bean, la legge a sud del Pecos . Bastava non condividere l’acredine dei più verso ladri manigoldi e drogati per diventare subito oggetti d’indagine da parte dei boss e del reparto geriatrico della cucina. Io poi ero sospetto perché facevo male le pulizie, lasciavo perniciosissime impronte sul pavimento con le mie scarpe sporche di farina – ne avevo a chili, anche sulla suola, e potete capire cosa succedeva quando pisciavo, com’ero uso fare, fuori dalla tazza – mi dimenticavo in continuazione avanzi di uova sode nei cassetti dei condimenti, cosa che successe più volte e mi costò la recidiva, oltre che il passaggio dalla negligenza colposa a quella dolosa. In più in sede istruttoria il boss aveva previsto l’aggravante del concorso di colpa, dal momento che nei miei ipotizzati crimini mi avvalevo della complicità di Paco. In cucina si sussurrava che dietro ai miei più efferati reati ci fosse addirittura la premeditazione. Questi erano comunque gli scellerati atti miei, nell’ordine, sulla base della pravità della spinta criminosa: rovesciare l’acqua dei capperi nel frigo, dimenticare pezzi di ferro nella macchina tritamozzarella, far marcire — oh! Malo et nefando dolo! -i filetti di acciughe. Ovviamente da più parte si chiedeva una punizione esemplare, forse addirittura la pena capitale, che il buon Mario jr invocava adesso a vive voce, adducendo la necessità di testare il nuovo prototipo di seggiola decervellante. La padrona invece, attenta alla lezione di Beccaria, considerava la comminazione della pena capitale inefficiente, poco redditizia e non correttiva e voleva commutare l’espiazione penale che dovevasi infliggermi nel lavoro serale forzato e non retribuito in pizzeria, con isolamento diurno e deprivazione sensoriale (quest’ultimo passo ritenutolo necessario perché mi considerava incline a stati di patologia morbosa e a sindromi libidinali, mentre invece ero solo “cortese” con le cameriere). Comunque la situazione era pesantissima, la repressione si stringeva sui pizzaioli e io avevo le prove che il mio armadietto veniva di tanto in tanto perquisito alla ricerca di indizi di reità (il che mi faceva ridere perché per aprire lo sportello del mio armadietto ci voleva un fegato così, dal momento che lì dentro imperversano un paio di scarpette da ginnastica capaci di stendere un bove maremmano, tanto puzzavano).
(2-CONTINUA)