di Sandro Moiso
Pier Carlo Masini, Cafiero, BFS Edizioni, Pisa 2014, pp. 280, € 20,00
“Amici, vediamo di affrettare il più presto che possiamo la rivoluzione, imperocché, lo vedete, i nostri amici si lasciano così morire: o in carcere, o in esilio, o pazzi per forti dolori”. Le parole finali, pronunciate con commozione, del discorso tenuto da Carlo Cafiero ai funerali di Giuseppe Fanelli, già compagno del Pisacane, veterano dell’Internazionale e morto pazzo a 49 anni nel 1877, sembrano contenere una premonizione del destino del Cafiero stesso.
Vita e destino che nel loro sviluppo e nella loro drammaticità, costituiscono il nerbo e la forza di quella che costituisce, di fatto, la biografia più importante dell’internazionalista pugliese e, allo stesso tempo, “l’opera nella quale si riassume e si esalta la vicenda umana e intellettuale del suo autore”1.
Pier Carlo Masini (1923 – 1998) può infatti essere considerato uno dei rappresentanti più insigni del lavoro storiografico militante svolto in Italia sul Movimento Operaio e le sue origini.
Amico, sin dalla gioventù, di Gianni Bosio fu da questi invitato ad entrare nel comitato di redazione della rivista “Movimento operaio” fin dalla sua fondazione, ma preferì sempre mantenere la propria autonomia di militante anarchico nei confronti di imprese di carattere più istituzionale, più vicine agli storici di area socialista e comunista.
Questa scelta se, da un lato, ne fece una sorta di “isolato” nel panorama intellettuale italiano del dopoguerra e degli anni successivi, dall’altro gli permise di sviluppare una maggiore attenzione nei confronti di quelle posizioni anarchiche e comuniste che da sempre avevano segnato la specificità del movimento operaio italiano nel suo sviluppo storico. Le “eresie” del movimento operaio, da quelle anarchiche a quelle della Sinistra Comunista Italiana cui avrebbe voluto dedicare uno studio dal titolo “La sinistra dissidente: i gruppi minoritari di sinistra in Italia dal 1926 al 1961”, costituirono infatti, fin quasi al termine dei suoi giorni, il vero campo di indagine dello storico toscano.
Anche se la prima edizione della biografia di Carlo Cafiero uscì nel 1974, gli studi che ne avevano permesso la realizzazione erano iniziati circa 25 anni prima. E se altre furono ancora le opere centrali del lavoro di ricerca di Masini2 , certo il Cafiero costituì un po’ il coronamento di una ricerca durata una vita. E l’attuale riedizione dell’opera è completamente rivista alla luce delle ricerche che l’autore continuò a condurre praticamente fino alla fine dei suoi giorni.
Più volte, nel corso della sua vita, lo studioso si era trovato a ripercorrere fisicamente le orme di Carlo Cafiero; talvolta casualmente e, talaltra, volontariamente come quando, nel 1947, con una comitiva di compagni anarchici aveva percorso il cammino seguito dalla banda del Matese settant’anni prima, nel 1877. Ma quello che avvicina di più lo storico al soggetto del suo studio fu proprio la passione militante che fece sì che molti dei suoi studi facessero spesso la loro prima comparsa nelle riviste militanti di carattere libertario oppure nelle edizioni di Azione Comunista ancor più che in quelle di indirizzo meramente storiografico.
Il motivo di ciò lo si può ben individuare in una lettera, riportata nella postfazione curata da Franco Bertolucci, scritta ad Aldo Venturini, il 23 luglio 1955, dopo che Giangiacomo Feltrinelli aveva allontanato dalla direzione di “Movimento operaio” Bosio per sostituirlo con Armando Saitta.
“Saitta, insieme ad altri storici «puri», ha la fissazione del superamento dei limiti «corporativi» della storia del movimento operaio, nel senso che la storia della classe operaia dovrebbe essere parte di una storia unitaria, e quindi in definitiva «l’altra faccia» della storia della borghesia in quanto classe egemone. Questa impostazione, giusta se si limitasse a postulare l’inquadramento della storia del movimento operaio nella storia generale, civile, della società tutta intera, presenta il pericolo di una interpretazione neutra, non militante, di questa storia, o peggio di una sua interpretazione «borghese»” (pag. 251)
Questa opposizione militante ai dogmi ed alle derive istituzionali legate alla storiografia “di partito” sembra richiamare idealmente lo scontro che accompagnò la breve ed intensa vita politica di Cafiero che, dopo essersi avvicinato alla Prima Internazionale in occasione della Comune di Parigi, ebbe poi, soprattutto con Friedrich Engels, un duro confronto proprio sulle modalità di indirizzo e direzione di quella prima esperienza di organizzazione sovranazionale e partitica dei lavoratori.
Engels che, qui occorre dirlo, proprio sul movimento operaio italiano prese una delle sue maggiori cantonate, finendo col liquidare un’esperienza che si andava sviluppando tra mille difficoltà, ma anche con apporti originali ed interessanti, con supponenza, settarismo e autoritarismo prettamente teutonico. E che ottenne come unico risultato quello di fare approdare Carlo Cafiero e il nascente movimento operaio italiano sulle sponde dell’anarchismo bakuniniano.
Brevissima e intensa fu la stagione vissuta politicamente da Cafiero prima che la follia, forse già in lui latente, lo trascinasse fuori dal mondo e lo immettesse nel circuito dei manicomi e dell’interdizione. Poco più di dieci anni, tra il 1871 e il 1883.
Un ex-leader del Movimento Studentesco, anni fa, scrisse un libro di memorie sul ’68 intitolandolo presuntuosamente “Formidabili quegli anni”. Come si sarebbe potuta intitolare, allora, un’opera dedicata alla vita del militante anarchico ottocentesco?
Dalla adesione alla Prima Internazionale alla prima traduzione italiana del primo libro del Capitale di Marx in compendio; dalla promozione delle assemblee internazionali di lavoratori da cui sarebbe scaturita l’Alleanza Internazionale dei Lavoratori e dal primo esperimento guerrigliero-insurrezionale in chiave socialista sulle montagne del Matese fino alla formazione del primo raggruppamento politico socialista degli operai in Italia.
Questo lo straordinario percorso di un rivoluzionario che, proveniente da una famiglia agiata e ricca del Sud, spese fini all’ultimo quattrino per favorire la causa rivoluzionaria, riducendosi in miseria. Come testimonia un rapporto della questura di Milano del 1882: “Pel trionfo del suo programma e della lotta internazionale ha sciupato tutto il suo patrimonio di qualche centinaio di migliaia di lire, sussidiando i compagni e somministrando loro i mezzi per la distruzione della proprietà e dell’ordine attuale e per la guerra fra le classi sociali” (pag. 3).
Un’esperienza che, al contrario di quanto pensato da Engels, proiettò il nascente movimento operaio italiano in un ambito internazionale rendendolo da subito protagonista centrale delle lotte dell’ultimo quarto del XIX secolo. Accanto ai terroristi e ai populisti russi che all’epoca avevano iniziato a scuotere il modo ad Oriente come ad Occidente e di cui Cafiero finì con lo sposare, con esiti deludenti per entrambi, una delle rappresentanti più sconosciute, Olimpiada Kutuzova, che aveva percorso a piedi migliaia di verste nella steppa russa per fuggire dalla prigionia siberiana.
Ma molti altri nomi entrano nella sua biografia: da Michail Bakunin, con cui fu legato da un autentico rapporto di collaborazione e, talvolta, di amore-odio dovuto alla spendaccioneria del secondo, a Errico Malatesta con cui condivise la militanza e, anche, la partecipazione al fallito moto insurrezionale del Matese. Dalla bellissima Anna Kuliscioff, donna intelligente e indipendente di cui sicuramente si innamorò, ad Andrea Costa da cui fu separato sia a causa dell’amore per la stessa Kuliscioff sia, soprattutto, per le scelte politiche che questi avrebbe fatto a favore dello strumento partitico e parlamentare. Ma in cui, alla fine, lo stesso Cafiero, rassegnandosi un attimo prima della follia, riconobbe l’inevitabile passaggio verso la maturità politica del movimento.
Nato il 1° settembre del 1846 da una famiglia benestante di Barletta, “ben accetta a Dio, al re, alle banche e perfino agli elettori” (pag. 2), e dopo aver lasciato gli studi presso il seminario vescovile di Molfetta per seguire gli studi in Legge presso l’Università di Napoli, Cafiero fu, fino ai 24 anni, un giovane di bell’aspetto e dai modi elegantissimi, amante della vita mondana, del teatro e delle donne. Che nel 1870 si trovava a Parigi, ma che alle prima avvisaglie della guerra franco-prussiana lasciò per recarsi a Londra.
Qui, proprio in occasione della Comune di Parigi entrò in contatto con Marx ed Engels da cui “venne incaricato di recarsi subito in Italia per accertare lo stato del movimento e imprimergli un orientamento rispondente all’indirizzo del Consiglio Generale” dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (pag. 11).
Da quel momento Carlo sarebbe diventato non solo la pecora nera della sua famiglia che, come riferiva ancoro lo stesso rapporto della Questura di Milano, “non condivide ma deplora i suoi principi di condotta”, ma anche uno degli uomini su di cui si concentrò maggiormente l’attività di indagine e repressione delle Questure d’Italia. E fu la Comune, più ancora che la teoria del nascente socialismo scientifico, l’impulso decisivo per Cafiero, così come per tanti altri giovani italiani, a incamminarsi dietro le bandiere dell’Internazionale3 .
A partire da questo punto, con tutte le rotture e le scelte che ne seguiranno, ebbe origine una vita intensa (conclusasi a 46 anni nel 1892), una militanza quasi unica che portava in sé già tutti i germi dell’anomalia o dell’eresia italiana all’interno del Movimento Operaio. Una specificità che si sarebbe manifestata negli anni a venire non solo nella diffusione del movimento anarchico, ma, anche, nella formazione di un socialismo che sarebbe poi sfociato, con la nascita del PC d’I di Amadeo Bordiga, in una delle esperienze più radicali del comunismo novecentesco e di cui il pensiero di Gramsci avrebbe costituito soltanto uno smorto riflesso.
Un percorso che dagli ideali risorgimentali e democratico-borghesi avrebbe portato, già nello stesso Cafiero, all’intuizione di una società altra e che ebbe nel Sud d’Italia e, soprattutto a Napoli vista alla fine dell’ottocento come la polveriera d’Italia, uno dei suoi centri principali di evoluzione.
In cui il comunismo a venire non sarebbe più stato frutto dell’Utopia, ma ben radicato nelle lotte dei lavoratori, nella loro autonomia politica, nel contributo degli intellettuali che tradivano la loro classe d’appartenenza e nello sviluppo delle conoscenze tecnico-scientifiche. Un sogno dirompente che, forse inconsapevolmente, anche Lenin avrebbe fatto in seguito suo quando, nelle pagine del Che Fare?, avrebbe affermato che bisogna sognare!4
E’, dunque, quella di Masini un’opera da leggere e da studiare, pagina dopo pagina, per chiunque sia interessato alla storia del movimento operaio. Di cui non costituisce soltanto un’analisi delle origini, ma che proietta già il lettore in tutte le problematiche che questo ha dovuto e deve ancora affrontare nel suo percorso di liberazione dalla schiavitù salariale e dallo sfruttamento coatto dell’umanità.
Un testo che costituisce un autentico modello di indagine e di storiografia militante ed è davvero con orgoglio che la Biblioteca Franco Serantini di Pisa può rivendicarne la pubblicazione della nuova edizione ampliata.
Per finire, un libro appassionante, anche per la scelta operata dell’autore che, in una lettera del 1973, rivelava, in questi termini, di essere ben conscio della sua struttura espositiva: ”Devo precisarti che da vent’anni a questa parte i miei interessi si sono spostati da una angolazione storico-politica a quella storico-socio-psicologica. Insomma di Cafiero mi ha interessato e mi interessa molto di più delle sue vicende avventurose ed esterne (alle quali ho dato peraltro il dovuto spazio), la sua vicenda umana, la sua personalità, le ragioni della sua pazzia. Ma tutto questo giova ad una trascrizione drammatica e rende più moderna una interpretazione della figura” (pag. 268)
Franco Bertolucci, Postfazione. Pier Carlo Masini, gli studi su Cafiero e la Prima Internazionale, pag. 233 ↩
Pier Carlo Masini, Storia degli anarchici italiani. Da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, 1969; Storia degli anarchici italiani nell’epoca degli attentati, Rizzoli 1981 e, ancora, Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978 ↩
Si veda anche a tal proposito Maria Grazia Meriggi, La Comune di Parigi e il movimento rivoluzionario e socialista in Italia (1871 – 1885), La Pietra, Milano 1980 ↩
Ecco che cosa bisogna sognare!
“Bisogna sognare!”. Scrivendo queste parole sono stato preso dalla paura. Mi è sembrato di trovarmi al Congresso di unificazione e di avere in faccia a me i redattori ed i collaboratori del Raboceie Dielo. Ed ecco il compagno Martynov alzarsi ed esclamare minacciosamente: “Scusate! Una redazione autonoma ha il diritto di ‘sognare’ senza l’autorizzazione preventiva dei comitati del partito?”. Poi si alza il compagno Kricevski, il quale (approfondendo filosoficamente il compagno Martynov che ha da molto tempo approfondito il compagno Plekhanov) continua ancora più minaccioso: “Dirò di più. Vi domando: ha un marxista il diritto di sognare se non ha dimenticato che, secondo Marx, l’umanità si pone sempre degli obiettivi realizzabili e che la tattica è il processo di sviluppo degli obiettivi che si sviluppano insieme con il partito stesso?”.
La sola idea di queste domande minacciose mi fa venire la pelle d’oca, e non penso che a trovare un nascondiglio. Cerchiamo di nasconderci dietro Pisariev.
“C’è contrasto e contrasto – scriveva Pisariev a proposito del contrasto fra il sogno e la realtà. – Il mio sogno può precorrere il corso naturale degli avvenimenti, ma anche deviare in una direzione verso la quale il corso naturale degli avvenimenti non può mai condurre. Nella prima ipotesi, non reca alcun danno; anzi, può incoraggiare e rafforzare l’energia del lavoratore… In quei sogni non c’è nulla che possa pervertire o paralizzare la forza operaia; tutt’al contrario. Se l’uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l’immaginazione il quadro compiuto dell’opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l’indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell’arte, nella scienza e nella vita pratica?… Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede sul serio al suo sogno, se osserva attentamente la realtà, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente per attuare il suo sogno. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio”. Di sogni di questo genere, disgraziatamente, ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento. La colpa è soprattutto dei rappresentanti della critica legale e del codismo clandestino, tronfi della loro lucidità e del loro senso del concreto. (Lenin, Che fare?, Einaudi 1971, pp.196 – 197) ↩