BOOGEY MAN

di Danilo Arona

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Nel triste caso assurto a cronaca nazionale di un uomo ventottenne di Alessandria che si toglie la vita per colpa di un dialer si agitano ombre che la coscienza collettiva rigetta e non riconosce. Sta per arrivarti una casa una bolletta di 15.000 euro che si è autoprodotta dentro il tuo PC per un sistema mondiale di truffa legalizzata e tu, scrupoloso e promettente veterinario, ti togli la vita con uno di quei pietosi veleni che spengono gli occhi ai nostri amici a quattro zampe quando si giudica che “non devono più soffrire”. Il popolo dei bar avrà già stigmatizzato la fragilità del tuo sistema nervoso e la pruderie di Bassavilla avrà sussurrato sulla natura licenziosa di quel numero maledetto. Altri, invasati dal pragmatismo basso-piemontese, avranno alzato le spalle sbottando: “Bastava non pagare”. In realtà nessuno sa niente di te, se non i tuoi familiari e i tuoi intimi che saranno per sempre sconvolti dal dolore.

Forse però qualcun altro, di cui solo tu eri al corrente, avrebbe libertà di parola sull’ultima scelta della tua breve vita. Ma la sua voce da questa parte non è udibile. Forse, naturalmente, è giusto sottolinearlo due volte.
Lui è il Signor Nascosto, un tipo di cui si dovrebbe liberare una volta superato il confine dell’adolescenza. Ma non capita la stessa cosa a tutti e può succedere a volte che lui cresca con te. Gli psichiatri lo conoscono e ne parlano pomposamente come di “un prodotto derivato”, un fantasma inconscio messo assieme dall’erotismo infantile e dalla Madre Paura, dall’Ombra e dalle esperienze traumatiche dell’infanzia. Il cinema lo usa spesso, ma tranne rari casi preferisce servirsi della buccia: anche fra scrittori e registi fermentano problemi irrisolti.
Da sempre si chiama Uomo Nero, quel Nulla umanoide che nella Bassavilla della mia infanzia s’identificava con lo spazzacamino, lavoratore autonomo e poverello che per tutti gli anni Cinquanta ha funzionato inconsapevolmente da spauracchio perché annerito di fuliggine e curvo sotto il peso del suo sacco degli attrezzi, dentro il quale l’immaginario infantile — fomentato da quello adulto — immaginava agitarsi bambini nudi appena rapiti e orripilanti strumenti di tortura. Così l’Uomo Nero lasciava ad ognuno, adulti compresi, il compito di dargli un volto, quello maggiormente rappresentativo dei timori e dei desideri di ciascuno. Era, ed è tuttora, la parte sconosciuta di noi, quella che per un insieme di ragioni non è connessa ad una visione diretta. E’ l’Ombra che divora, il Signor Nascosto. Quello che nelle biografie di tanti serial killer made in USA è il vero colpevole, colui al quale non si può attribuire la propria identità, ma con cui ci s’identifica nel momento in cui si commettono i delitti. Il Signor Nascosto di David Berkowitz, il “figlio di Sam”, era un demone egizio che abitava il cane nero di un vicino di casa e che gli ordinava di uccidere, quando andava bene a lui. Personalità multiple: il discorso si fa tosto. E che c’entra lo sfortunato veterinario?
Non lo so se c’entra. Ma da qualche parte, nel profondo, sono convinto che in tanti casi di cronaca, anche in quelli che appaiono così tragicamente banali sul proscenio di un mondo che si sta scannando con le bombe a grappolo e le bombe umane, c’entri proprio il Signor Nascosto, quel tipo pauroso che non ti vuol lasciare una volta che le tempeste ormonali hanno messo fatto crescere peli e ingrandito genitali. Quello che, se non ti lascia, c’è qualcosa che non sta funzionando (per il verso giusto, ma qual è il verso giusto?) e allora lui viene chiuso nell’armadio.
Quell’armadio che di notte (non sempre ma spesso) si apre e lui ti guarda, ti spia. E tu ne hai talmente tanta paura che diventi lui, un patto di Norimberga fra te e le tenebre. Diventi lui ogni tanto, quel che basta.
L’immaginario, cinema e letteratura, come dicevamo: ma anche favole, giochi di bambini, sogni e il mondo fittizio di molti pazienti “in terapia”. Lui sta dappertutto, appunto “Nascosto”. Può spingerti a fartela addosso per la paura e può far diventare te personificazione della medesima. Di qui e di là, dentro e fuori l’armadio, perché, se non lo hai “ucciso” quando eri piccolo, non ti resta che “diventare lui” da adulto. Può farti uccidere qualcuno, te stesso compreso. Perché la sua immortalità ha bisogno della tua mortalità.

C’era una volta, ma non molto tempo fa, un mostro che arrivò a Castle Rock, nel Maine. Uccise una cameriera di nome Alma Frechette nel 1970; una donna di nome Pauline Toothaker e una studentessa delle medie superiori di nome Cheryl Moody nel 1971; una graziosa ragazza di nome Carol Dunbarger nel 1974; un’insegnante di nome Etta Ringgold nell’autunno del 1975; e un’alunna delle elementari di nome Mary Kate Hendrasen nell’inverno dello stesso anno.
Non era un lupo mannaro o un vampiro o un mangiacadaveri o qualche innominabile creatura di una foresta incantata o delle nevi eterne. Era solo un agente di polizia che si chiamava Frank Dodd e che aveva disturbi mentali e sessuali. Un uomo buono di nome John Smith scoprì la sua identità con una magia, ma prima d’essere catturato Frank Dodd si uccise e forse fu meglio così.
Ci fu scalpore, naturalmente, ma soprattutto si fece festa nella cittadina, perché il mostro che aveva tormentato tanti sogni era morto, finalmente morto. Gli incubi della popolazione erano sepolti nella tomba di Frank Dodd. Tuttavia, anche in quest’era illuminata, quando tanti genitori conoscono i danni psicologici che si possono arrecare ai propri figli, c’era certamente qualche padre o madre a Castle Rock, o forse qualche nonno, che zittiva i bambini dicendo loro che se non avessero fatto i bravi sarebbe venuto Frank Dodd a prenderli. E si faceva subito un grande silenzio, i bambini guardavano le finestre scure e pensavano a Frank Dodd nel suo lucido impermeabile di plastica nera, Frank Dodd, lo strangolatore…
“E là fuori”, mi par di sentire la nonna bisbigliare nel sibilo del vento giù per il camino e attorno al vecchio coperchio ficcato nel tubo della stufa. “E’ là fuori e se non fate i bravi vedrete la sua faccia alla finestra della vostra camera quando tutti gli altri in casa staranno già domendo, vedrete la sua faccia sorridente che vi guarda da dentro l’armadio nel cuore della notte, perciò sss, bambini… sss… sss.”
Ma in generale si tirò un sospiro di sollievo perché era finita. E il tempo passò. Cinque anni.
Il mostro non c’era più, il mostro era morto. Frank Dodd diventava polvere nella sua bara.
Solo che il mostro non muore mai. Lupo mannaro, vampiro, mangiacadaveri, innominabile creatura di boschi o ghiacciai, il mostro non muore mai.

L’incipit di Cujo funziona ancora, se vogliamo capirne qualcosa. Il Male è dovunque da quando il mondo esiste. E ha caratteristiche precise: professionismo, qualità istrioniche e infide della finzione, dell’illusionismo e della regia, l’adattabilità e la metamorfosi. Ma in più c’è un nero nodo sociale, di cui la famiglia (la nonna) e specchio fedele e nucleo fecondo, dal quale si sviluppano tensioni irrisolte che possano dare origine al Signor Nascosto. Infine un altro nodo, là fuori, nel mondo o a Bassavilla o a Castle Rock. A tutto questo bisogna essere preparati, pronti, con la consapevolezza che, se l’Adulto ha traghettato al di qua della sua vita Mister Hyde, sarà enorme il rischio del passaggio della consegna. Allora? A questa “forma della Paura” si si può accostare solo con l’atto magico della conoscenza, scrittura e/o lettura, esorcismi più potenti dei deboli riti famigliari e che hanno la possibilità di stravolgere la forma in un’altra Forma tenuta sotto il controllo dello Stegone-narratore-lettore.
Rubando il pensiero all’amico Gian Maria Panizza:

Lo scrittore, medium del Male poiché la scrittura è una chiamata di origine ignota e di motivazioni inspiegabili razionalmente, si differenzierà dall’Uomo Nero soltanto grazie a un’estrema giustificazione che non può che essere di ordine extraletterario: una giustificazione di ordine morale, se non addirittura religioso, la necessità per chi, come Adulto, ha conosciuto il Male, di diffonderlo attraverso l’unica forma di predicazione che non sia esplicitamente demoniaca, ovvero quella artistica. L’unica fiaba con un senso compiuto per gli anni attuali è la fiaba del terrore, laddove, in un circolo vizioso ineliminabile, si afferma la necessità di utilizzare un mezzo non morale per eccellenza, quale la forma artistica, per trasmettere contenuti morali”.

Nell’antichissima Sumeria, parafrasando William Peter Blatty al cospetto di Pazuzu, forse avremmo detto: “Il male per combattere il male”. E per sconfiggere il Signor Nascosto forse (ancora una volta, forse) dovremmo diventare come lui e dimenticarcene subito per salvarci la vita. Quanto meno, per non farcela distruggere da un dialer.