di Mauro Baldrati
Un uomo, a bordo della sua auto, un SUV BMW. Un’autostrada inglese, di notte. Lo schermo di un navigatore, col display del telefono. Il telefono che squilla quasi in continuazione. Qui c’è tutto il film. E’ giusto saperlo, per essere preparati. Non c’è una sola inquadratura, a parte qualche rapida panoramica dell’autostrada, o del cruscotto dell’auto, che esca dai primi e primissimi piani dell’attore. C’è qualcosa di estremo in Locke, il secondo film di un ottimo sceneggiatore passato alla regia, Steven Knight. La luce notturna, il rigore militare delle inquadrature. Anche la calma dell’unico attore in scena (Tom Hardy), mentre tutto sembra andare in pezzi, è estrema. Così come la rabbia violenta che sembra travolgerlo quando dialoga col fantasma invisibile del padre seduto sul sedile posteriore. Il padre verso il quale si ribella, per non essere come lui: un debole, un vile, un buono a nulla. Forse è proprio questa la guerra di Locke? Contro la maledizione dei padri che si trasmette ai figli, l’eredità negativa che ne pregiudica – o addirittura rovina – l’esistenza.
Ivan Locke, capo cantiere edile, è un uomo “normale”. Il massimo del godimento l’ottiene in famiglia, seduto sul divano coi figli, una birra, la partita di calcio e la moglie Kat che cuoce le salsicce. E’ un tipo preciso, addirittura “pignolo”. Circa sette mesi prima, durante un lavoro fuori sede, ha avuto una storia con una collaboratrice, l’unica extra coniugale da quando è sposato con Kat. E noi gli crediamo, perché Locke è granitico, anzi, di calcestruzzo; impariamo a conoscerlo, a fidarci di lui. Perché è uno di parola. Se prende una decisione, va fino in fondo. A qualunque costo. E la sua è una decisione estrema.
L’indomani lo aspetta il lavoro più importante della sua carriera: un’immensa colata di calcestruzzo per le fondamenta del palazzo di 55 piani che sta per nascere, “rubando un pezzo di cielo”, a Birmingham. Ma riceve una telefonata di Betham, la donna. Il figlio che sta aspettando, il figlio di Locke, che ha deciso di tenere, sta per nascere in anticipo. E’ una donna sola, indifesa, debole. Così la considera Locke. Una donna che ha bisogno di lui. Quindi anche suo figlio ha bisogno di lui. Così parte, all’improvviso, per Londra, dove Beth è ricoverata in ospedale. Non importa se tra poche ore dovrà soprassedere alla gettata del calcestruzzo. Non importa se il suo capo è furioso. Non importa se sta per essere licenziato in tronco dai padroni americani. Ha deciso che vuole, che “deve” essere vicino a Beth, anche se non la ama, non la conosce, perché è il suo dovere. E’ “la cosa giusta” da fare. Lui ama Kat, adora i figli, e sta per perdere anche la sua famiglia, perché la moglie, con una scelta estrema, decide di lasciarlo. La casa non è più casa sua, non deve farsi più vedere. Ma lui va avanti. “Deve” farlo. Tutto può esplodere, ma non si tirerà indietro.
E’ questa etica del dovere assoluto il nucleo duro del film. In fondo è l’etica dell’eroe romantico, in versione materialista, avanti a tutti i costi, contro qualsiasi nemico, anche se si tratta di un gigante orribile (la perdita del lavoro, della famiglia). E in questo riesce ad essere un film curiosamente avvincente, senza cadute, mentre la storia, portata avanti come un testo teatrale, coi dialoghi e qualche breve riflessione, si sviluppa come una ragnatela doppia: quella degli eventi, della rovina materiale, ma anche la sua: tesse una ragnatela implacabile che tutto abbraccia, gli affetti, la carriera, il futuro. Dal suo rifugio, l’abitacolo del SUV, organizza la gettata, affidando le operazioni a un operaio che non ha alcuna pratica di capo cantiere, nonostante la diffida del suo capo, che gli ordina di farsi da parte, perché lui non è più nulla, è un disoccupato ormai. Ma Locke “deve” terminare il lavoro, anche a spese sue (pagherà di tasca propria una squadra di operai per risolvere un imprevisto).
Locke è un guerriero che non rispetta gli enunciati del Sun Tzu. Combatte ad ogni costo, anche in campo nemico, in territorio ostile, anche in posizione di svantaggio. Non concepisce la ritirata strategica, per esempio trovare una persona che stia vicino a Beth per la sola giornata della gettata, poi raggiungerla e riconoscere il figlio. Oppure, come gli suggerisce addirittura il capo, darsi malato. Un malore improvviso non si discute, probabilmente salverebbe anche la famiglia, oltre al lavoro. Sarebbe la scelta più sensata. Ma non la scelta del guerriero estremo.
E forse nessuno di noi, in quest’epoca di opportunisti, può restare insensibile di fronte a un cavaliere errante che sfida apertamente i mostri.