Susan Sontag ha dedicato una parte notevole della sua vita a ricercare la felicità privata nella lettura e nel piacere di condividerla con gli altri. Per lei, l’atto del consumo letterario era il generoso antecedente dell’atto della produzione letteraria. Era rimasta talmente colpita dagli autori che aveva letto, che era quasi timida quando si trattava di offrire al lettore la sua prosa.
Basta un’occhiata ai suoi scritti per constatare che non è stata un’autrice prolifica. Se così non sembra — se cioè si ha l’impressione che sulla carta stampata, da qualche parte, Susan Sontag sia sempre stata presente — è perché ha scelto sempre con grande abilità il momento in cui intervenire. Alla metà degli anni sessanta i vivaci ed empatici saggi della Sontag sulla crisi della cultura “alta” erano opera di una persona che aveva il senso della tradizione e che quella cultura alta la prendeva sul serio.
Oggi la sua acuta analisi dell’importanza della fotografia appare indiscutibile (ed è vista come il segno certo di un talento pionieristico). Quanto alle sue Notes on “Camp”, le dedicò alla memoria di Oscar Wilde, autore di quella fusione fra serietà e sovversivismo che è stata sempre d’ispirazione per Susan Sontag.
In un’epoca decisamente provinciale, Susan Sontag è stata un’internazionalista.
Una volta qualcuno, piuttosto acidamente, l’ha definita in mia presenza “l’usciera ufficiale” della cultura americana, perché introduceva e presentava scrittori provenienti da altre scene e da altre società. Ma fra le tante accuse, quella non era certo un’onta: Susan Sontag — e Philip Roth — hanno fatto moltissimo per far conoscere agli americani le opere di Czeslaw Milosz e di Danilo Kis, di Milan Kundera e di György Konrád.
Nel suo Contro l’interpretazione, uscito nel 1966, Sontag intravide meglio di tanti altri che la sconfitta del comunismo ufficiale era già tutta iscritta nella negazione della letteratura. Non mi viene in mente nessun altro autore o intellettuale americano compianto in modo altrettanto sincero di come sarà compianta Susan, da Berlino a Praga. O a Sarajevo, dove trascorse diverso tempo, affrontando pericoli veri per dare una mano alla resistenza dei cittadini bosniaci contro il nazionalismo serbo.
La sua forza d’animo è apparsa evidente a tutti quelli che la conoscevano e ha instillato forza anche negli altri. Ha lottato a lungo contro i tumori ed è sempre stata in prima fila per provare i trattamenti nuovi e più avanzati. I suoi libri sulla malattia e sul fatalismo e il suo ostinato rifiuto di accettare la sconfitta sono stati di sprone a molti, e ha dedicato tanti giorni a incoraggiare e consigliare gli altri malati.
Ma il momento più alto, a me pare, è stato nel 1989 quando Susan, da presidentessa del Pen Club americano, ha dovuto affrontare il caso Salman Rushdie. A quel tempo molti firmatari abituali di petizioni parvero nervosi ed esitanti, e così anche editori e librai, che sentendosi minacciati cercarono di tirarsi indietro. Susan invece montò una straordinaria campagna di solidarietà che dissipò ogni tendenza al masochismo e alla capitolazione.
Con quella ciocca bianca come una firma sul nero dei capelli, e con il suo stile carismatico da viaggiatrice rotta a ogni fatica, Susan cercava sempre di strafare e pretendeva di far quadrare il cerchio: voleva far tardi per discutere e avere l’ultima parola, poi voleva andare a letto presto, poi voleva restare sveglia per leggere, poi alzarsi di buon’ora. Non sopportava le persone anaffettive, quelle annoiate e quelle ciniche, di qualsiasi età.
Solo quand’era vicina ai sessant’anni si è avventurata nella narrativa di vasto respiro: la scoperta di una nuova vita.
[da Internazionale 573, 13 gennaio 2005]