di Serge Quadruppani
Trad. di Maruzza Loria – Da http//quadru.free.fr

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Negli ultimi anni, quando si telefonava a Jean-Patrick Manchette, si incappava immancabilmente nella segreteria telefonica che aveva messo tra sé e il mondo e che diceva :
“ Siamo assenti, o occupati, o addormentati… ” Dopo essere stato il segno del suo stile, il “ ritiro ” era diventato quello della sua vita. La malattia c’entrava certamente qualcosa, ma anche e soprattutto la sua appartenenza a una corrente di critica sociale, nata nella scia dell’Internazionale Situazionista, per la quale lo stile e la vita sono tutt’uno.

Per chi l’ignorasse, l’Internazionale Situazionista, l’IS per gli iniziati, è stata creata dalla fusione più o meno riuscita di una corrente rivoluzionaria marxista antileninista e antistalinista (incarnata in Francia dalla rivista Socialisme ou Barbarie) e della corrente letteraria che va dal Dadaismo al lettrisme passando per il surrealismo. Verso la fine della sua vita, il suo rappresentante più noto, Guy Debord, è stato trasformato dai giornalisti e dai letterati mondani, con la collaborazione, bisogna precisarlo, del diretto interessato, in una specie di altezzoso dandy sprezzante la sua epoca e privo di qualsiasi speranza di trasformazione sociale. Ma ridurre Debord a questo, è dimenticare che i primi paragrafi dell’opera con la quale ha marcato la sua epoca, La società dello spettacolo, sono un détournement (cioè, l’uso di un pezzo di un testo per fini diversi da quelli per cui è stato scritto) delle prime pagine di un libro rivoluzionario, Il Capitale.
Sono il situazionismo e il Debord ancora rivoluzionario degli anni ’70 che occupavano un posto centrale nella testa e nel cuore di Jean-Patrick.
Se parlo di cuore non è caso, perché, paradossalmente per gente che, nella scrittura, apprezza soprattutto la litote e l’ironia sarcastica, la dimensione affettiva era essenziale nelle relazioni che legavano la prima cerchia di situazionisti agli altri, affini, contatti, proseliti e imitatori. In questo giro, l’insulto reciproco seguiva spesso di poco il contatto e l’adesione. Per coloro che non hanno conosciuto questo ambiente, bisogna leggere la corrispondenza di Debord o la sua biografia scritta da Christophe Bourseiller per capire che specie di terrore imponevano Debord e i suoi seguaci, praticando per ragioni spesso futili la scomunica, a immagine dei papi delle avanguardie precedenti, André Breton e Isidore Isou. Manchette ha avuto la sua parte di insulti, e alla moglie, in ragione del suo legame coniugale, era stata perfino rifiutata una traduzione da parte di Lebovici, editore di Debord che si sforzava di diventarne un clone.
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Parlo di cuore, ma è un altro organo che bisognerebbe menzionare, il fegato, messo anch’esso a dura prova dalla pratica dell’alcolismo così diffusa in quegli ambienti. Le più profonde teorizzazioni e le più violente separazioni hanno spesso avuto luogo al banco di un bistrot parigino. La paranoia alcolica spiega in gran parte l’isterizzazione dei rapporti e i delirii nei quali il papa situazionista si è spesso ostinato contro ogni ragione : come alcune sue teorie sul terrorismo di estrema sinistra italiano, interamente manipolato, secondo lui, dai carabinieri, o la sua ostinazione, malgrado le smentite dei suoi vicini, a identificare Manchette con Pierre Georges, un altro vicino ai situazionisti degli anni 70. Malgrado o a causa di questa atmosfera, Manchette, pur essendo capace di vedere i difetti della teoria e le ridicolaggini del personaggio, è rimasto marcato fino alla fine della sua vita da una specie di senso di colpa repressa: nella vulgata radicale situazionista, aver scelto di scrivere dei romanzi commerciali era, in effetti, già, essere passato dalla parte del nemico.
“ Starlette della letteratura ” : così si autodefinì Manchette nella prima lettera che mi scrisse, mentre ero direttore della pubblicazione Mordicus, rivista che si ostinava a difendere delle posizioni anticapitaliste radicali al limitare degli anni 90. Si sarebbe detto che si aspettasse gli rispondessi con la tradizionale lettera d’insulti. Era là nella continuità del testo che aveva pubblicato ne Les Nouvelles littéraires del 30 dicembre 1976, “ Cinque osservazioni sul mio mezzo di sostentamento ”. Dopo aver distinto il romanzo a enigma, romanzo del ripristino del Diritto borghese, dal romanzo noir, per il quale l’ordine del suddetto Diritto non è buono, Manchette descriveva così il posto della lotta di classe nel romanzo noir: non è assente “ nello stesso modo che nel romanzo poliziesco a enigma : semplicemente, qui, gli sfruttati sono stati battuti, sono costretti a subire il regno del Male. Questo regno è il terreno del romanzo noir… ” E nel punto 5, rileviamo : “ La fine della controrivoluzione e la ripresa dell’offensiva proletaria sono, a termine, per le professioni intellettuali, la fine di tutto. Tra le altre cose, il romanzo noir prossimamente sparirà, fenomeno che presenta una notevole quantità d’importanza nulla… ” . Infine concludeva con un P.S. : “ Non ne consegue che aver trascorso, come si dice, il proprio tempo e la propria giovinezza a scrivere dei romanzi noir o ne Les Nouvelles littéraires (elenco non limitativo) siano cose che saranno automaticamente perdonate ”.
Nel 1990, la controrivoluzione non era finita, l’offensiva proletaria si faceva ancora attendere e il romanzo noir, peril nostro più grande piacere, era lontano dall’essere scomparso. Ma in Manchette restava l’atteggiamento auto-denigratorio, tra humor e masochismo, definito dal suo Post Scriptum. Tuttavia lo schematismo, l’arroganza, la cecità volontaria, tutti gli aspetti penosi del situazionismo non devono farci dimenticare che questa corrente ha rappresentato, intorno al 1968, una delle più alte punte del pensiero radicale, espressione particolarmente riuscita di ciò che c’era di più nuovo all’epoca, molto lontano dalle pagliacciate maoiste e dalle banalità trozkiste (dal carattere un pò scontato di queste formule polemiche, si indovinerà come anch’io abbia subito la sua influenza). Puntando il dito con Debord sulla potenza dello Spettacolo nelle società moderne e esigendo, con Vaneigem, che la rivoluzione non fosse un ideale separato dalla vita quotidiana, i situazionisti hanno dato una lingua alla rivolta, per il XX secolo che si concludeva e per quello che sarebbe seguito.
Ornata dei prestigi del francese del Gran Secolo con i suoi periodi, le sue espressioni volentieri desuete, e il suo rispetto maniacale della grammatica (compresi talvolta alcuni congiuntivi nelle loro forme più divertenti), questa lingua superba sembrava a volte uscita dritta dritta dalle memorie del Cardinal de Retz (memorialista abbondantemente citato dai situazionisti): paradosso d’una critica della modernità capitalista che cerca cosa dire nell’idioma degli aristocratici dell’ancien régime. A questo si aggiunge l’influenza dello stile hegeliano del giovane Marx con i suoi rovesciamenti del genitivo (filosofia della miseria e miseria della filosofia), il gusto del détournement non segnalato e un vero senso della formula. Infine, una lingua tagliente, che ebbe tanto più prestigio in quanto si entrava in un’epoca in cui la lingua diventava uno strumento incerto, marcato dalla concorrenza sleale che il vernacolo televisivo faceva al francese d’oltretomba insegnato a scuola. La seduzione e l’intimidazione esercitata dal situazionismo si spiega anche con il suo stile letterario che evocava un tempo in cui le parole non erano passate al frullatore delle mode mercantili.
E’ questa lingua che Manchette ha ripreso per conto suo e lavorato a modo suo. Ma tutto quello che, nel confinamento del bistrot situazionista, prendeva degli accenti d’asprezza, nei racconti di Jean-Patrick diventa gioiello di verità, gioiosa perfidia e allegra provocazione. Così come la famosa notazione che, come en passant, inaugura e chiude Piccolo blues: se, ci dice l’autore, il suo personaggio di quadro dirigente che uccide e rischia di restare ucciso prima di ritornare alla normalità opprimente, se questo personaggio si trova là, in procinto di girare in tondo sui viali della cironvallazione parigina, è “ in virtù della sua posizione nei rapporti di produzione ”.
In teoria, Manchette difendeva una concezione austera della scrittura. In un mondo, spiegava, dove trionfano lo spettacolo e la manipolazione, astenersi dall’entrare nell’interiorità dei personaggi era ancora la pratica meno manipolatrice. “ L’epoca di barbarie in cui siamo entrati si presta meno che mai alle effusioni romantiche ” (J.-P.M, Chroniques, Rivages, p.314). Il suo modello rivendicato era Dashiell Hammett. Ma, rileggendo Piombo e Sangue, si constata quanto il comportamentalismo possa spesso essere efficace (la celebre prima scena dove la semplice descrizione della tenuta di uno sbirro annuncia il marciume che incancrenisce la città) e talvolta ridicolo: invece di dire che un uomo è semplicemente arrabbiato, Hammett descrive una serie di espressioni facciali che potrebbero manifestare altrettanto bene una crisi d’epilessia.
Manchette era immune da questi scivoloni grazie a una qualità che mancava decisamente al suo modello: un finissimo senso dell’autoderisione. Altrove, nel Piccolo blues : “ l’ho ucciso ieri, disse a un tratto Gerfaut. Gli ho fracassato il suo cazzo di cranio, gli ho rotto la testa. E Gerfaut stupefatto si sciolse in lacrime. Piegò le braccia sulla tavola di formica, poggiò la fronte sugli avambracci e singhiozzò nervosamente. Le lacrime si arrestarono subito ma egli restò parecchi minuti a fremere e a inspirare e espirare dell’aria con un rumore da strumenti di musica brasiliana ”. A chi vorrebbe far credere che questi divertenti strumenti di musica brasiliana siano del semplice comportamentalismo ?
Nessun altro meglio (è letteralmente vero : nessun autore di romanzo noir contemporaneo può misurarsi con lui sul terreno del dialogo – su nessun altro terreno d’altronde), nessuno meglio dello sceneggiatore che fu Manchette sapeva rendere la logica delle emozioni attraverso le incoerenze della parola. La sua attenzione maniacale agli oggetti, in particolare la precisione della sua descrizione delle armi (è da una sua critica su Charlie Hebdo che mi sono procurato, per i miei romanzi, le opere dello specialista Dominique Venner, per altro d’estrema destra, ovviamente ), l’esattezza sociologica delle abitudini, tutto ciò tradisce uno sguardo vicino al Perec di Le Cose, libro salutato ai suoi tempi dai situazionisti. In Posizione di tiro, ancora : “ Dietro le vetrine buie, c’erano centianai di abiti vuoti, migliaia di scarpe vuote, migliaia di etichette quadrate di cartone dove figuravano dei prezzi in lire sterline e talvolta in ghinee ”. Questa descrizione, a margine di un paragrafo, svelando come se niente fosse l’assurdità di un mondo di merce, provoca il riso, un riso che si raggela quando scorre l’immagine di altri cumuli di scarpe vuote, verso la fine della seconda guerra mondiale… L’arte di Manchette oltrepassava da tutte le parti il quadro formale dove egli stesso pretendeva di rinchiuderla.
Quando, dopo esserci scritti e telefonati per anni, l’ho incontrato per la prima volta in carne e ossa (di già, non ce n’era rimasta molta di carne), non fu per caso se questo primo incontro si svolse nel mezzo dei tafferugli che animavano il XVIII arrondissement parigino dopo l’uccisione di un giovane nero dentro un commissariato. In questa occasione, in virtù della sua condizione fisica evidentemente così fragile, e anche del suo aspetto elegante, egli poté avvicinarsi ai poliziotti delle BAC Brigate Anti Criminalità che erano allora a una delle prime uscite nelle manifestazioni (in seguito, la loro presenza e la loro tattica di prelevamento, nel bel mezzo della folla, di alcuni manifestanti “ segnalati” sarebbero diventate banali). Le foto di questi sicari astiosi furono in seguito pubblicate qua e là (specialmente su Mordicus). Durante una di quelle perquisizioni con le quali la Madama esprimeva un interesse spropositato per le nostre modeste attività, alcuni compagni ebbero il piacere di ascoltare gli sbirri lamentarsi contro il tipo che aveva preso queste foto. Evidentemente, malgrado le loro pressanti domande, la sua identità era rimasta sconosciuta. Adesso, posso rivelargliela : il fotografo, era quel tizio alto magrissimo che brandiva il suo bocchino nell’aria satura di lacrimogeni mentre posava con cura e senza nascondersi alcune banane ai piedi dei CRS (i celerini francesi NdT). Questo pericoloso agitatore era Manchette, un autore di noir francese dei giorni nostri. In sintonia con la sua critica più radicale, molto lontano dai commercianti di buoni sentimenti e dai micro-Beria che popolano il “ polar ” francese di oggi. Un autore che resta, di gran lunga, e non a caso, il migliore.
Non ignoro con quale ironia egli leggerebbe questa specie di elogio funebre. E l’immagino, il mio caro complice, nella pelle di Griffu, quel personaggio del fumetto che scrisse per Tardi, quel personaggio che, alla fine, quando è morto, ci dice: “ Qui, dove sono, rido ”. Là dove è ancora oggi, cioè imboscato dietro le sue frasi, Manchette ride. Ride alla faccia del mondo intero, e se ne fa beffe. E noi, con il suo aiuto, continueremo a farci beffe del mondo, prima di trasformarlo.