di Giuseppe Genna
Dovrei scrivere una recensione a Pazza da uccidere di Jean-Patrick Manchette, uscito per Einaudi Stile Libero Noir. Perché uno deve scrivere una recensione? Per fare vendere il libro? Per smarchettare? Perché non ha meglio da fare? Le recensioni non esistono, questa è la verità. Il genere critico della recensione non è più tale. Le recensioni, come ormai afferma la dilagante opinione tra gli addetti ai lavori, “non spostano più copie”. E’ vero. Ed è tanto più vero se si considera il profondo mutamento di specie che ha colto la comunità dei recensori. Costoro non si sporgono più sul testo, non rischiano il tutto per tutto, non rasentano più la partigianeria, la cecità, l’errore. Spesso le recensioni sono patetiche varianze sulle quarte di copertina, le quali a loro volta sono la più patetica tra le patetiche componenti della filiera che dà alla luce un libro. E perché, ai bei tempi, una recensione era efficace? Semplicemente perché, a quei tempi andati, belli o brutti che fossero, la recensione era un atto di spesa emotiva: un atto d’amore, così come la stroncatura era un atto di odio. Il che significa, restando allo hic et nunc, che qui non mi passa minimamente per la capa l’idea di compitare un temino a proposito di Pazza da uccidere. Sarebbe inutile. In calce a questo pezzo, pubblico a vostro vantaggio direttamente la quarta del romanzo. Sono invece qui a scrivere e a vivere un atto di profondo amore per Jean-Patrick Manchette. Lo ha fatto anche Valerio Evangelisti. E’ diverso. E’ meglio.
Non conto molti autori che, nella mia trascurabile esistenza, abbiano sortito su di me un effetto tanto devastante dal punto di vista del sommovimento delle passioni. Ci sono, è vero, passioni e passioni. Spesso vivo passioni cerebrali. I miei rapporti con certe scritture, soprattutto novecentesche, fioriscono grazie a logiche di passione intellettuale. Stiamo ai francesi contemporanei: Houellebecq l’adoro, ma secondo una relazione cerebrale. Le viscere non sono lambite e ristanno pigre e intatte, mai sfiorate dalla lettura di Houellebecq. E sto alludendo a uno degli autori che più amo, che più mi convincono. L’ultima esperienza di viscere l’ho fatta incontrando Ellroy. E’ stato un crescendo, un’esperienza personalmente decisiva: arriva uno, mi spalanca il cranio, si infila dentro il teschio e mi scende nelle coratelle. Stile, immaginario, costruzione, ambiguità: una specie di discesa libera per nevi esaltanti e brucianti.
Jean-Patrick Manchette è l’altro autore che, insieme a Ellroy, mi ha devastato nell’intimo negli ultimi dieci anni di esistenza. Da NADA in poi, è stato un progressivo squartamento delle mie carni che l’autore francese, già deceduto quando ne ho incontrato la scrittura, ha operato con l’arma della diversità. Io non sono nulla di ciò che è Manchette. Non scrivo in quel modo, non ho quelle fantasmagorie, il suo sistema etico generalmente mi ributta. E’ diverso da me. E’ forse per questo motivo che tanto mi conquista e mi scanna la sua lingua nitida, cristallina. Non si tratta di letteratura, ma di autopsia: un’autopsia condotta sul reale, su una storia che non soltanto mi precede, ma che arriva fino a me. L’occidente dissezionato da Jean-Patrick Manchette è dove io sono cresciuto, dove mi sono formato. Il suo stile è una modulazione dell’empietà. E’ talmente rischioso ciò che compie Manchette sul piano linguistico che bisogna faticare per comprenderne la grandezza – e infatti si tratta di uno scrittore amato oltremodo anzitutto da scrittori. Un passo più indietro, Jean-Patrick Manchette scriverebbe un rapporto da caramba. Un passo oltre, si tratterebbe di arcadia o di stilismo. Invece riesce in questo miracolo di rarefazione, di vitrea circospezione. Secchissimo, il suo narrare è testimoniale della totalità dell’emotivo che si scatena o, più spesso, è sul limite di scatenarsi. Una scrittura veracemente aristotelica: energica, proprio nel senso aristotelico – da un momento all’altro può sprigionarsi da questa prosa qualunque possibilità.
La costruzione del personaggio è, di pari passo, nitida e fulminea. Come si riesce a risultare fulminei senza enfasi? In effetti il fulmineo è semplice, ma rappresentarlo in scrittura senza ricorrere ad artifici retorici è di una sovrumana difficoltà. Potremmo considerare la storia universale della letteratura, nel suo dicotomizzarsi in barocchismo o classicità, come difesa da questo buco nero che è la rappresentazione del semplice, del fulmineo. Manchette, dunque, non è un classico (e tantomeno uno scrittore barocco), perché esprime un’autentica vocazione alla riuscita di un simile miracolo: fulmineo essendo semplice. La strutturazione dei personaggi potrebbe suggerire una strategia petrarchesca condotta su un piano non meramente linguistico, ma strutturale. Non è così. Non si tratta nemmeno di impressionismo. Simenon è un grande impressionista: pochi tratti soggettivi e il personaggio è delineato, in una forma di memorabilità che ha fatto la fama del creatore di Maigret. Jean-Patrick Manchette sta a una latitudine distante e quasi ineffabile rispetto alle lande in cui scorrazzava felicemente Simenon. E’, per l’appunto, una sorta di anticomplessità ineffabile che caratterizza la costruzione dei personaggi di Manchette. Mentre infatti la traccia impressionistica dei personaggi di Simenon, in quanto è soggettiva, permette un’identificazione forte, una proiezione potente del lettore sull’oggetto letterario, non così accade per gli indimenticabili personaggi di Manchette. Qui siamo nei territori della magia di cui così raramente la letteratura è veicolo. Se uno si legge Posizione di tiro si identifica in qualche modo in Terrier? Lo approva? Lo odia? Nulla di tutto ciò. Mentre Simenon rappresenta aspetti dell’umano, di cui i suoi personaggi sono emblematici (e, in realtà, si tratta di un’operazione letteraria che ne presuppone una morale: sotto Simenon, è accesa la brace di una teoria delle virtù e dei vizi), Manchette rappresenta in ogni personaggio una totalità umana. Ne enfatizza la totalità, non l’umanità. Quale persona conosciamo che sia buona, cattiva, invidiosa, cazzuta? Conosciamo molti che in dati momenti appaiono tali, ma nella loro totalità questi individui ci appaiono come un’ineffabile esperienza di totalità umana. Così in Manchette. Simenon rappresenta personaggi (come il 98% delle letteratura mondiale), Manchette rappresenta persone. Meglio: personalità.
Le trame, semplici e lineari, si contorcono. La linearità non è sempre retta, tanto più per gli a-moralisti come Manchette. La spirale è comunque lineare. La magrezza delle trame di Un mucchio di cadaveri o dello stesso NADA, per non dire di Fatale, è esemplare di un’economia narrativa che esprime un sentore spirituale. Non si tratta di efficienza. Prendiamo NADA. Riassumiamolo: un sequestro va male. E’ qui tutta la trama. E’ possibile tirare in lungo una struttura simile, se si è impressionisti. Bene, Jean-Patrick Manchette non è impressionistico. Usa l’impressione nel senso che fa impressione. Fa talmente impressione che uno arriva impressionato alla fine del libro e compulsivamente ne desidera un altro da leggere. Cosa impressiona? Impressiona il caso, la deità tragica all’opera in questi capolavori brevi e folgoranti. Si tratta, sempre, di tragedie. Manchette è un tragico contemporaneo. Sta al noir come Eschilo alla fantascienza. Solo un pazzo può pensare che quella di Manchette è un’operazione di genere. Queste sono cavolate con cui i contemporanei cercano di rendersi familiare ciò che non può esserlo. Essendo sempre familiare ai lettori di ogni luogo e ogni tempo, il capolavoro non può essere familiare nello specifico. E’ soltanto un passaggio critico-storiografico, quello che confina Manchette nel polar. Se in un’opera appare la totalità di un’epoca (e in Manchette appare), si tocca un apice così universale che è calor bianco per ogni umano che incappi nelle pagine di quell’opera. Freddissimo, Manchette sortisce su di me, per esempio, l’effetto di un calore così sconvolgente da piegarmi la mente, il cuore, il polso. Il ghiaccio brucia.
Non sono incline a mitologizzare le biografie degli scrittori. E’ una chance che si concede a chiunque, in ogni caso. Chi si informi sulla vita di Jean-Patrick Manchette difficilmente saprà sottrarsi al fascino di un personaggio che stava oltre ogni definizione di bohème contemporanea. Provo troppa irritazione, e per motivi per nulla borghesi, nei confronti dei tossici, avendo annoverato tra i miei migliori amici straordinari drop out che hanno sperimentato ogni dipendenza, per farmi irretire dal fascino che promana da questo Serge Gainsbourg della scrittura. Lo considero come Shakespeare: poco mi frega che fosse omosessuale, cortigiano, teatrante o stitico. E’ Shakespeare e basta. Per me, Manchette è Manchette. Spero lo diventi anche per voi.
JEAN-PATRICK MANCHETTE
PAZZA DA UCCIDERE
Un thriller perfetto, il romanzo che ha consacrato Manchette maestro definitivo del poliziesco francese.
È davvero guarita Julie? È guarita abbastanza per sopravvivere all’orribile macchinazione che le ha orchestrato un uomo senza scrupoli? È guarita abbastanza per scacciare ricordi che non smettono di tormentarla? È guarita abbastanza per salvare la vita del piccolo Peter?
Thompson è un killer professionista, freddo e spietato ma con problemi di ulcera. Qualcuno lo incarica di uccidere un bambino, il mal di stomaco aumenta di pari passo alla determinazione di portare a compimento l’ingaggio. Hartog è a capo di un potente gruppo industriale, ereditato grazie a un incidente aereo che gli ha portato via il fratello e la cognata. Spetta dunque ad Hartog prendersi cura del figlio dei due, Peter, il vero destinatario della fortuna familiare.
Julie ha avuto un’infanzia difficile e un’adolescenza travagliata. Adesso, dopo cinque anni di cure psichiatriche, sembra stare bene. Peter è un marmocchio collerico e viziato.
Hartog ha assunto Julie proprio perché faccia da bambinaia a Peter. E se fosse un’orribile trappola di Hartog per sbarazzarsi del bambino facendo ricadere la colpa proprio su Julie?
Traduzione di Luigi Bernardi
Prima edizione: 2005
Stile libero Noir
EINAUDI
pp. 168
euro 10