di Federica Vicino
4. IL PIANO DI DECONTAMINAZIONE (antefatto)
Si cominciò con l’idroscalo. E non perché Boris Durkneim fosse andato a contagiarsi con una puttana dell’idroscalo o perché effettivamente si trattava del quartiere col maggior numero di contagi: no. Si cominciò con l’idroscalo per via di Fernando Savio Antigua.
Fernando Savio Antigua era un palazzinaro e il suo curriculum vitae la diceva lunga su quanto e quale rilievo potesse avere in ambienti ministeriali un progetto da lui presentato. Amico personale del sottosegretario all’edilizia urbana residenziale di tipo A, tale colonnello Aristeo Vaime; assiduo frequentatore della casa d’appuntamento di Aleksa Drexter; già responsabile dell’arredo urbano dell’Agglomerato Nord (quello dei vip); già presidente dell’Ordine Professionale dei Costruttori Edili indipendenti (ex costruttori abusivi — ma questo non lo diceva mai nessuno); progettista degli uffici centrali dell’emittente satellitare di Stato, al secolo Interchannel Plus.
Secondo la leggenda, un giorno Fernando Savio Antigua ordinò al suo autista di fermare la superlusso in piena flyway, all’altezza del 28° piano dell’Agglomerato Sud, proprio alle pendici del sobborgo 59 e proprio sopra l’idroscalo. L’autista aveva fermato la vettura senza battere ciglio, perché la prima cosa che gli era stata insegnata era che Fernando Savio Antigua non andava mai contraddetto. Fernando Savio Antigua era addirittura sceso dall’auto e si era affacciato dal lato dell’oceano. Sembra che abbia esclamato:
– Coño!
Va detto, a tal proposito, che Fernando Savio Antigua era ispanico di nascita e andava particolarmente fiero delle sue origini. “Coño” normalmente in spagnolo significa “figa”, o qualcosa di simile; ma detto da Fernando Savio Antigua significava molto di più. Significava che gli era venuta un’idea.
E che idea!
– Babele! Anzi, no: com’è che si chiamava quella città antica con i giardini pensili?
– Babilonia. — aveva risposto il sottosegretario Vaime.
– Proprio così: Babilonia!
Una Babilonia affacciata sull’oceano, era l’idea. Giardini pensili sul mare: brezza finto- mareaperto, niente zanzare e iodio a volontà, stile paradiso del benessere. Appartamenti extralusso sviluppati in altezza, e terrazze-giardino con aggetto sulle magnifiche acque cobalto. Inquinate alla morte, ma pur sempre color cobalto.
Fra l’idea di Fernando Savio Antigua e la sua realizzazione, rilevò il sottosegretario Vaime, c’era un solo piccolo ostacolo, anzi due: due quartieracci popolari. Significava tradotto in cifre, e stando alle stime del Sistema, un milioncino di persone, o giù di lì. Aristeo Vaime aveva tratto un profondo sospiro.
Fernando Savio Antigua aveva pensato che quello non era un problema suo.
Aleksa Drexter, invece, aveva pensato che quello doveva assolutamente essere un problema suo. Innanzi tutto perché le avevano offerto un appartamento esclusivo al 14° piano, e l’idea di trascorrere la vecchiaia in un giardino pensile la allettava. Eppoi rimaneva in sospeso (in itinere, si sarebbe detto parlando pulito) la questione della peste dei sobborghi. Aleksa Drexter non trovò espediente migliore, per chiuderla, che rovesciare una colata di cemento extralusso sulle contagiose baracche dell’idroscalo. La delibera passò all’unanimità.
Sul piano pratico la storia era molto diversa. Non sarebbe stato facile trasformare un’evacuazione di donne, vecchi e bambini, in un’operazione igienicamente ed eticamente corretta. Non agli occhi dell’opinione pubblica.
Aleksa ne era ben conscia. Si dette da fare, e il risultato fu sensazionale.
Behlen, Savio Antigua e Kozinskij si ritrovarono un bel giorno tutti assieme nella stessa stanza, tutti seduti allo stesso tavolo a tu per tu con il ministro Drexter… un summit fantascientifico.
La signora Drexter non era il tipo da lasciarsi impressionare dalle apparenze. In fondo non si trattava che di tre uomini, e gli uomini non erano mai stati un problema per lei, nemmeno in branco. Cionondimeno, volle fare tutto per bene. Li convocò in via ufficiale, per iscritto. E se li ritrovò tutti e tre davanti, addomesticati e cazzuti. Pronti ad azzannare e annichiliti dalla sete di sapere. Fantascientifico. Aleksa se ne rallegrò. Ma ancor di più se ne rallegrò il sottosegretario Vaime, che per la prima volta nella sua vita si ritrovava in una delle vere segrete stanze del potere, a tu per tu con i veri potenti. E tutto grazie ai fottutissimi giardini pensili. L’espressione gongolante del suo viso la diceva lunga su quanto e con quanta determinazione avesse imbrogliato e armeggiato per esserci.
Aleksa sedette a capotavola. Era bella come mai nella sua vita. Fresca di lifting e prosciugata, ma solo nei punti giusti, da una dieta ormonale studiata appositamente per lei. Per questo, forse, si sentiva ancora più forte del solito. Non aveva preso appunti: non le servivano. Tutto quel che le occorreva era centrare l’attenzione su un elemento.
– La pubblicità.
Silenzio assoluto.
– Il Piano di Decontaminazione. — proseguì allora Aleksa, tranquilla – è un’iniziativa ad alto rischio. Inevitabile, ma ad alto rischio. Il popolo dei sobborghi considera quel letamaio casa sua: non si lasceranno allontanare. Opporranno resistenza, con tutte le loro forze, che sono esigue, ma ci sono. Potranno verificarsi situazioni spiacevoli. Situazioni dinanzi alle quali il Sistema non potrà apparire debole né pietoso, ma nemmeno crudele e sanguinario.
Dall’esimia platea si levarono cenni di assenso. Solo allora Aristeo Vaime, che si era tenuto in disparte, a rispettosa distanza, si accorse del sorriso ebete che aveva stampato in faccia e del suo ininterrotto annuire.
– Personalmente non ho alcuna reticenza a dare l’OK al suo progetto — sorrise Aleksa, rivolgendosi direttamente a Fernando Savio Antigua — che trovo molto interessante, e anzi, diciamocelo, decisamente bello.
“Bello” era l’altra parola chiave. Aleksa non attese il sorriso di risposta di Fernando Savio Antigua, che peraltro non giunse, per continuare. Tornò seria e risoluta, di una serietà e risolutezza che potessero far presa sui tre caimani che aveva davanti.
– Ed è questo il punto centrale del discorso, signori. La bellezza. Questi giardini pensili dovranno essere di una bellezza tale da distrarre l’attenzione di chi guarda e annebbiarne i sensi… non so se mi sono spiegata.
Chissa perché, per mettere in fila quest’ultima frase, aveva rivolto gli occhi a Behlen.
– Si dovrà parlare, e molto, dell’eccezionalità del progetto. E soprattutto della sua eccezionale bellezza. Babilonia dovrà diventare una star. Nel frattempo, e più velocemente possibile, si dovranno evacuare il sobborgo 59 e l’idroscalo. Senza troppo clamore.
Behlen aveva un sorriso metallico incastrato fra il sudore e il cubano smozzicato.
– Le nostre ruspe faranno il lavoro sporco — continuò Aleksa, di nuovo fissando negli occhi Fernando Savio Antigua — le sue saranno di scena alla luce del sole in tutto il loro splendore. E questo è quanto.
La signora-ministro tacque, e per un po’ nessuno osò aprir bocca. I caimani si scambiarono occhiate . C’era attesa.
– Bien… — sussurrò Fernando Savio Antigua. E si alzò dal tavolo.
Era un “bien” conclusivo, il suo.
– Diteme quando se puede empiezar la constructione.
Aleksa sorrise di nuovo.
– Signor Savio Antigua — “empiezò” lei — non si può “empiezar” senza la pubblicità.
Behlen fu forse l’unico a comprendere che il bello di quell’incontro doveva ancora venire. E nell’imminenza del corpo a corpo fra la signora-Ministro e il signor-constructione, il suo sorriso si fece d’acciaio inossidabile.
Pubblicità.
Il sottosegretario Vaime si accorse che era giunto il momento, per lui, di infilarsi nella discussione. Stava rischiando di perdere l’unico take-the-chance che la vita gli aveva finora offerto.
Era la prima volta che vedeva Fernando Savio Antigua alle corde. La prima volta che poteva in qualche modo maneggiarlo, sebbene con cautela. Aleksa gli aveva strappato un accordo scritto su campagna pubblicitaria e relativo budget. Si parlava di milioni di kontinental. Pena la non approvazione del progetto “Babilonia” in sede amministrativa locale — làddove la signora-Ministro aveva candidamente fatto notare di non avere margini d’azione. “Puttana” — aveva biascicato in cuor suo Savio Antigua, ma poi aveva firmato. La campagna pubblicitaria era, da quel momento, roba sua. E dei suoi bilanci. Adesso – e solo adesso – ruspe o non ruspe, il sobborgo e l’idroscalo erano per lui terreno edificabile.
Raggiunto l’accordo, la discussione verteva ora sul “come” pubblicizzare la diva-giardinopensile. Occorreva pensare una soluzione originale e per nulla scontata. Una bella fotomodella virtuale, un cartone interattivo con la costruzione che veniva su in 3D… tutta roba già vista. Behlen accennava decisamente di no col capo.
– Un commercial così, anche fatto bene, scompare in un soffio. — spiegò.
Infatti, no – pensava il sottosegretario Vaime — uno spot tridimensionale non farebbe presa.
Bell’incontro, bel summit — pensava Vaime — manca solo una cosa: manca un creativo. E questo era l’unico punto nel quale lui sarebbe potuto intervenire. Il creativo. Sicché ingoiò la saliva un paio di volte, si fece coraggio, e dal suo angolino dimenticato osò mormorare:
– Forse un creativo potrebbe…
5. TAKE — THE — CHANCE
Aleksa Drexter si accomodò meglio sulla poltrona extralusso. Aveva assunto una posa divora-gentecomune per ricevere questo non meglio identificato Gil Vaime, figlio di sottosegretario, col pallino dell’arte, grana di papà in tasca a strafottere, vita bohemienne, studi saltuari ma tutti nei santuari à-gogo del figurativo contemporaneo. Una perbene vita infarcita di viaggi (psichedelici e non); mostre autofinanziate; recensioni idem; eccetera. Raccomandato dal papi per far strada all’ombra di un mafioso eccellente che risponde al nome di Fernando Savio Antigua.
Una vera testa di cazzo, aveva pensato Aleksa. E questo s’era aspettata. E per questo aveva accettato con una certa riluttanza di incontrarlo, il creativo. Non aveva nemmeno sfogliato il catalogo — anche quello autofinanziato — che papà sottosegretario le aveva fatto premurosamente avere. Lei, che di arte era intossicata. Niente: una testa di cazzo è una testa di cazzo anche se dipinge bene. E un artista è un artista anche senza i soldi di papà.
Chissà perché ‘sta storia le aveva preso così male. La corruzione, in realtà, faceva parte del suo vangelo da sempre — ma non per l’arte. Quando si parlava di arte, le cose stavano diversamente. Politica, potere, famiglia, sesso, religione potevano finire infangate nel volgare meccanismo del do ut des; l’arte no. L’arte doveva rimanere pura. O almeno questa era la segreta utopia della signora Aleksa.
E rimuginando sulle utopie di ieri e di oggi, l’ira era salita. E con l’ira il disgusto, e con il disgusto l’antipatia — e Aleksa aveva finito col domandarsi cento volte come le fosse venuto in mente di cedere alle pressioni di Savio Antigua e di Vaime-padre e di acconsentire a ficcare dentro il progetto “Babilonia” un creativo del cazzo di nome Gil Vaime.
S’era fatta aggressiva, modello pit-bull, quand’ecco che il creativo arriva — e tutto cambia. Gil Vaime.
Aleksa si accomodò meglio sulla poltrona extralusso.
– Gil Vaime?
Un ragazzotto dall’aria incazzatissima le aveva risposto di sì.
Gil Vaime.
Più tardi aveva sfogliato il catalogo, con un certo ritrovato interesse. Niente di che: come artista Gil Vaime doveva ancora materializzarsi (opere evanescenti, tematiche retoriche, asservite alla retorica della giungla d’asfalto — e questo sarebbe bastato per assestargli una bella pacca sulla spalla e congedarlo con un meritatissimo arrivedercieggrazie-le faremo sapere); ma come uomo… be’, come uomo Gil Vaime era tutta un’altra storia.
Aleksa aveva sorriso. Il suo senso estetico le suggeriva che le cose belle dovessero essere valorizzate e onorate, e Gil Vaime era senz’altro una cosa bella. Terribilmente imbronciato. Luminosissimo nello sguardo. Un guerriero: sconfitto, ma guerriero. Non aveva nulla dell’asservimento del padre; nessun ossequio, nessuna smanceria. Nemmeno verso il Sistema, che pure è la Grande Madre che tutto crea e tutto distrugge, artisti compresi. Ma lui sembrava non curarsene.
Aleksa pensò che questo probabilmente spiegava il pathos e l’insistenza con i quali il padre aveva caldeggiato il coinvolgimento del figlio nel progetto. D’altronde per mettere le briglie a un cavallo indomito si usa l’arma del cibo. Mangi solo se fai quello che dico io. Poteva essere un buon metodo, sebbene non universale…
Gil Vaime. La verità era che Aleksa ci s’era rivista dentro. Lei, quindicenne ribelle, col sogno segreto di sfondare nel campo dell’arte. E la sua bellezza dirompente: un ostacolo piuttosto che un vantaggio. Un padre miope: miope dentro, nel cuore. E un paradiso chiuso a chiave: puoi guardarlo, ma solo da fuori. Non ci puoi entrare. E non perché sia vietato, ma solo perché non t’hanno dato il passe-partout.
Poi c’era l’istinto. Quel trasporto un po’ inconfessabile un po’ no, che illuminava il ragazzotto impacciato con una luce diversa. A letto dev’essere un treno — aveva pensato la signora-Ministro, mentre lui, Gil, le parlava del suo poco amore per la pubblicità e del suo poco capire la necessità di far quadri su un progetto di palazzine. Guai ad accennare al poco-amore per la grana, però. Aleksa ci fece caso. Ma gliela perdonò. Tutti abbiamo un prezzo, d’altronde.
Lo congedò con un certo rammarico. Lo fece rincorrere dalla sua segretaria e tornare sui suoi passi.
– Il Sistema organizzerà una mostra. — gli disse seccamente, naturalmente mentendo — Prepara i materiali.
– Che materiali?
– I tuoi lavori, i migliori. Al resto penso io: allestimento, promozione, recensioni eccetera.
Lui se ne andò confuso, ma convinto d’aver centrato il suo personale take-the-chance, e quindi felice. Lei si mise a far conti: 26 contro 51. 26 anni lui, 51 lei… Roba da gossip spinto. La cronaca rosa ci avrebbe sguazzato dentro come un fetido maiale per il prossimo lustro. Spinse lo sguardo oltre la vetrata, nel gas nebuloso dei cieli dell’Urban 16; con un lungo sospiro si abbandonò definitivamente all’abbraccio tenero della planetaria poltrona da boss. Sorrise.
IX.
Kerrer no, ma Eric m’è rimasto dentro. Chissà poi perché.
Mi scuoto. E’ notte fonda e io sono ancora al chapter one.
Il capannone in cui mi ha cacciato Kerrer risuona di stranissime eco. O forse è solo il mio cuore che sussulta. Nella penombra di poco fa mi pareva di vedere un nugolo di scarafaggi; mi sembrava di udirne lo zampettìo. La cosa mi dà i brividi. Quest’idea, poi, di non poter in alcun modo sfuggire a un loro ipotetico attacco in massa mi mette nel panico.
– Liberami, stronzo — sibilo.
Kerrer mi risponde con un’occhiataccia, che per un istante mi azzittisce. Lo credevo addormentato. In questa penombra metallica ha un magnifico profilo d’ottone.
– Liberami… – insisto, senza sapere perché.
Adesso mi osserva con uno sguardo asettico di macchinario programmato.
– Non riusciranno a fare di me un agente AC.
Ancora silenzio.
– Non mi farò manipolare il cervello, io. — lo incalzo — Non permetterò che mi trasformino in una bastardissima sentinella guida, pronta a dare la caccia ai suoi simili pur di avere la sua quotidiana miserrima razione di dataneuroni! La tua missione del cazzo è fallita.
Ho finito col gridare, col dimenarmi; ho scalciato e strattonato le manette contro la colonna alla quale Kerrer mi ha legato come un cane, e ora urla e vibrazioni si rincorrono per tutto il capannone con una sinistra eco. Ma ho ottenuto il mio scopo: con un colpo di reni, supertrendyboy è in piedi; mi si avvicina con il solito fare minaccioso … Mi sta a un passo e mi fissa negli occhi.
– La mia missione non è fare di te un agente AC. — soffia — Io dovevo solo catturarti.
Mi aspettavo un ceffone. Mi ritrovo il peso del suo respiro nei polmoni — e tutto brucia, come brucerebbe un rogo, e come bruciano gli sterpi delle baraccopoli rase al suolo, e come bruciano le iniezioni degli eminentissimi doctor, quando ti sparano il microchip sottocutaneo nella spalla destra e iniziano il trattamento.
– Questi erano gli ordini. Non potevo fare diversamente… – blatera Kerrer.
D’istinto si porta la mano sulla spalla destra. Poi, stancamente, torna a sedersi. E io attacco:
– Eric m’è rimasto dentro.
E questo è il capitolo due. Il famoso capitolo due per il quale non c’è tempo.
I dataneuroni sono il pane quotidiano, dal second level in su. Di più: i dataneuroni sono la droga. I dataneuroni sono la vita. Li fabbricano in laboratorio come volgarissimi circuiti autoalimentanti per le cosiddette macchine intelligenti; ma hanno una particolarità: a contatto con i processi biochimici, si modificano secondo i loro stessi principi e istaurano una spontanea mutazione genetica. Diventano vivi.
Un brillante ex ricercatore dell’Università Interfederale di nome Ektor Brauler è la mente perversa che ha ideato il tutto. I dataneuroni sono un’idea sua. La terapia si chiama: processo di retroalimentazione psicomotoria autoindotta. In pratica, un bel mattino doctor Brauler ha pensato che questi microcircuitini pensati per rendere i computer dei congegni semiumani potevano essere iniettati in sistemi biologici complessi: gli organismi viventi. Scopo: controllare le parti “deviate” del Sistema, di modo che queste non divenissero agenti patogeni per il Sistema stesso. Controllare le menti. Questo lo scopo. Una volta entrati in azione, i dataneuroni vanno a sovrapporsi alle sinapsi invadendo alcuni settori centrali del cervello e colonizzandoli. Nessuna materiale eliminazione. Al contrario, moltiplicazione. Questa l’ipotesi dell’eminentissimo studioso. Più sinapsi vuol dire più confusione, alias: incapacità di gestire le risorse di cui la mente dispone. Non nella maniera corretta, almeno. Significa più energia, più forza; ma significa anche iperattività, incapacità di istaurare rapporti interpersonali o affettivi. Significa “creazione di un’anti-mente per un anti-individuo”.
I dataneuroni, semplicemente, regolano le funzioni delle sinapsi in eccesso. Incanalano le energie; annullano le emozioni: creano delle perfette macchine da guerra, gli agenti AC.
Tutto questo sproloquio teorico si è poi trasformato nel Sistema di Controllo della Scurezza Sanitaria Nazionale e Intergovernativa, attraverso il programma dei level. Approvato e sperimentato in tempi record, con il placet della signora — ministro Aleksa Drexter.
– Sperimentato su di te? — chiede Kerrer con un filo di voce. Il chip-sottocute dev’essere stato per lui come una catena stretta attorno al collo.
Stupida domanda. Anche lui è una cavia, e lo sa. Quando il processo è completato e i dataneuroni si sostituiscono completamente al meccanismo biologico, essi diventano gli unici elementi in grado di permettere il nutrimento delle cellule cerebrali. Senza data si muore, e di una morte molto lenta e dolorosa: risucchiati in una specie di interminabile crisi di astinenza. Arrivati a questo punto puoi pensare a te stesso come a un topo preso in trappola o come a un agente AC.
Devo aver fatto centro: supertrendyboy si scuote dal suo angolino polveroso; si leva in piedi e inizia a camminare su e giù, fitto fitto. Improvvisamente si ferma sulle gambe forti e massicce. E’ immerso per metà in un buio compatto. Mi si rivolge roteando appena gli occhi. Li scorgo luccicare.
– Ma tu lo sai che cosa sei? — mi domanda.
Bella domanda. Introduce bene il già ampiamente annunciato chapter two.
Il CAPITOLODDUE… Non so nemmeno da dove inizia, il capitolo due.
Bisognerebbe tornare indietro nel tempo. Tempo… proprio quello che manca.
In questa notte di liquami di fogna io davvero fatico a trovare le parole…
(5-CONTINUA)