di Federica Vicino
[Qui tutte le puntate del romanzo]
3. SOLUZIONI DI COMODO
– La peste dei sobborghi non è un problema solo suo: la peste dei sobborghi è una minaccia per tutto il regime.
Aleksa Drexter accavallò le gambe di modo che il rigoglio delle cosce risaltasse sul manageriale divanetto ascolta-cazzate, tirato a lucido per l’occasione: non l’aveva mai ammesso nemmeno con se stessa, ma il generale Kozinskij le suscitava un certo formicolio. Più precisamente, la sua perbene aria di ragazzone tutto d’un pezzo stuzzicava in lei un istintivo senso di sfida: le faceva venir voglia di minare la sua strenua resistenza alle tentazioni della carne. Ancor più precisamente, voleva scoparselo. La mossa delle cosce risultò, però, inefficace. Non passò inosservata per nessuno dei presenti, con la sola esclusione del generale. Kozinskij: continuava a parlare del Sistema e dei rischi che si correvano per via della PLA. Grande ardore e grande concitazione, invidiabile energia, mascolinità indiscutibile — ma null’altro. Aleksa si scosse: formicolio a parte, quella conversazione stava diventando noiosa. Le facevano male le scarpe. 30mila kontinental buttati al vento, pensò. Si guardò la punta dei piedi: era impossibile non sedurre un militare, con un paio di scarpe così ai piedi.
– E per giunta il Sistema…
Squadratissime ma scollatissime: evocavano, a vederle, il gusto del proibito.
– Noi abbiamo delle responsabilità, lei ha delle responsabilità…
E naturalmente nere di un nero irrimediabile, e di pelle lucidata.
– Prima o poi qualcuno noterà le inadempienze…
Accessorio pendant fatto apposta per valorizzare gonna nera con spacco mozzafiato e giacchino vilpelle, anch’esso lucido, avvitato sui fianchi. Sotto, biancheria intima extralusso. Tutto si sarebbe potuto dire, tranne che Aleksa Drexter vestisse male.
– Ma guai ad addossare al Sistema…
Aleksa alzò lo sguardo. Trovò che gli occhi di tutti si erano fermati al giacchino e a quel che vi si poteva immaginare sotto. Trovò Kozinskij ancora irremovibile, fermo soprattutto nel suo sproloquio. In un lampo le fu tutto chiaro. L’errore era nella tattica. Scarpe di pelle e gonna con spacco erano armi inadeguate… Kozinskij era un nemico di lusso. Roba per intenditori. La signora-ministro decise di giocare di fino.
Tanto per cominciare, lo interruppe — e il generale non era abituato a essere interrotto.
– Venga al dunque, generale, – fece, ricomponendosi (qualcuno rise sotto i baffi) — qual è il vero problema?
Kozinskij sembrò sul punto di implodere, ma Aleksa non gli badò. Nascose la coscia scoperta sotto il lembo della gonna e le scarpe sotto la punta delle ginocchia, che ora sporgevano in una corretta posizione da signora. Registrò con calma gli effetti della mossa a effetto: Kozinskij invaso da una furia incontenibile, gli altri ufficialoni in divisa divertiti e compìti. Si congratulò con se stessa.
– Prego? — aveva intanto bofonchiato il generale, in un penoso tentativo di recuperare il controllo.
– Cos’è che la preoccupa davvero, generale: la peste dei sobborghi o la gaffe sanitaria del Sistema?
Era davvero troppo.
– Gaffe del Sistema? — abbaiò Kozinskij — Signora Drexter, il Ministro della Sicurezza Sanitaria è lei! Lei aveva il compito di vigilare affinché tutto questo non accadesse! Il Sistema non ha alcuna responsabilità, se non quella di averle affidato una delega così delicata!
– Mi pare evidente, generale, — ribattè tranquilla la signora — che lei sta tralasciando un particolare: il vecchio, caro “Rapporto PLA”, stipulato con gli alti dirigenti del servizio di sicurezza sanitaria intergovernativa prima del mio insediamento al ministero.
Kozinskij impallidì, e con lui molti altri tromboni in divisa.
– E’ quella la gaffe.
Aleksa sorrise. Aveva vinto anche quella battaglia.
Per cominciare, si finse offesa. Chiese una verifica di maggioranza e un incontro privato con i Capi Ideologici del partito di governo: un ufficialotto qualsiasi, anche se capo della Sicurezza Ideologica del Sistema, non poteva mettere in discussione la sua figura e il suo ruolo di Ministro. Minacciò di aprire la crisi. Assieme alla PLA, si ritrovava per le mani due armi potentissime e nessuna preoccupazione sul saperle usare o meno. Le diedero carta bianca. Non le bastò. Le diedero un corpo di militari sceltissimi, agenti segreti da affiancare alla Polizia Sanitaria di Regime, le cosiddette Guardie AC, che passavano nell’occasione dalle competenze del Ministero della Sicurezza Ideologica alle competenze del Ministero della Sicurezza Sanitaria (significava un feroce esercito agli ordini non più di Kozinskij ma della signora Drexter). Nemmeno le bastò. Alla fine le consegnarono Kozinskij in persona. Aleksa aveva preteso scuse formali: per riceverle, lo attese sola nel gabinetto ministeriale in un’orario improponibile. Del summit a notte inoltrata nessuno seppe mai niente; ma il giorno dopo iniziarono i rastrellamenti. Il Piano di Decontaminazione era iniziato.
La filosofia sempre la stessa: non sporcarsi le mani. Il nemico andava battuto con le sue stesse armi. Peste alla peste! Kozinskij non potè che essere d’accordo. D’altronde, rimuginò a lungo, Aleksa Drexter doveva essere una donna dall’intelligenza straordinaria. Una tale fantasia nell’intimità poteva essere opera solo di un genio. E che genio! Con lei a capo del programma di decontaminazione, la PLA aveva i giorni contati. C’era da scommetterci.
Giù nei ranghi del Servizio di Sicurezza Sanitaria volarono occhiatacce cariche di stupore: il generale Kozinskij impartiva ordini non suoi e lo faceva con orgoglio e disinvoltura, come se il Piano di Decontaminazione fosse un parto della sua mente. Fermo, implacabile come non mai, ripeté la lezione a menadito: combattere il nemico con le sue stesse armi. PESTE ALLA PESTE. Una piccola folla di ufficiali lo ascoltava con penosa attenzione: ma tutti gli sguardi, prima o poi, scivolavano sul ministro Drexter, che gli sedeva accanto, in silenzio e senza scollature.
Il Piano di Decontaminazione era diviso in due parti: una chiara e palese, l’altra segretissima. Alla luce del sole c’era il piano A: individuare le zone infette; evacuarle; bonificarle; radere al suolo le baracche laddove necessario, per poi ricostruire; sigillare con nuove colate di cemento i piani bassi, portando al 5° livello di elevazione la soglia di sicurezza (non solo sanitaria).
Piano B: individuare potenziali agenti AC proprio nelle zone a rischio. E qui la genialità di Aleksa aveva dato il meglio di sé. Chi meglio degli stessi abitanti dei sobborghi? Gente che non aveva niente da perdere; abituata a fare i conti con una fine imminente; abituata probabilmente anche alla PLA. Potevano essere individuati, arrestati, addestrati e rimessi in circolazione con il compito di togliere di mezzo tutti gli agenti patogeni per il Sistema. Geniale.
Il Piano A fu affidato alla Polizia di Regime. Il Piano B al Servizio di Sicurezza Sanitaria. Con un tripudio quasi eiaculatorio, il generale Kozinskij annunciò di essere il Coordinatore Generale di entrambe le fasi dell’operazione e di essere stato designato tale per espresso volere del quippresente ministro Aleksa Drexter. Si scambiarono un sorriso.
Qualcuno provò a fare domande. Chi recluterà i nuovi potenziali soldati? Chi addestrerà gli agenti AC? Come si potrà garantire una loro affidabilità? Come si potrà controllarli, una volta rimessi in circolazione?
E, soprattutto, chi — CHI — saranno gli agenti AC?
Kozinskij balbettò qualcosa, si allentò il colletto della divisa, rivolse uno sguardo allarmato alla signora-ministro. La trovò sorridente e tranquilla.
– I cloni. — mormorò Aleksa in tono ovvio.
VIII
Se c’è una storia da raccontare, dovrebbe iniziare dal mio primo ricovero coatto.
Dunque, cerchiamo di raccapezzarci. Innanzi tutto sembra siano trascorse un paio di eternità, e invece è roba freschissima. Nemmeno sapevo dei level. L’istinto mi diceva di stare alla larga dagli umani. E non sbagliava. Poi è successo qualcosa. Qualcuno mi ha guardato e io gli ho sorriso. Oltre il bancone di un bar. Di notte. L’anticamera del pensiero: puro istinto. Un uomo ti piace. Punto. Lo vedi e ti piace, perché è come te; oppure perché è completamente diverso da te. Importa poco. C’è poco altro da elucubrare. Con le occhiate ho disegnato le migliori storie della mia breve vita, le uniche degne di essere rivissute… ed Eric è una di queste.
Purtroppo non c’è tempo…
Mi sono avventurata in pensieri tortuosi, e non è colpa mia. Il bastardo che fa di nome Kerrer, svaccato sotto un pilastro, ha l’aria di un cacciatore di taglie del far west. Ridacchia. O così sembra, nella penombra. Per praticarmi la santa iniezione del santo falso vaccino alla fine mi ha ammanettato a una delle colonne di questa maledetta raffineria in disuso. E io dài a gridargli contro tutto il mio disprezzo. Ipocrita! Ipocrita! Ipocrita tu e la tua merdosissima siringa colma di volgarissimo antivirale, di quart’ordine per giunta. Altro che vaccino! Una come me certe cose le sa. E’ tutta una mistificazione: non c’è nessun vaccino. E forse non c’è nessuna pestilenza. Ma tant’è. Infilato l’ago, scaricato l’antivirale a destinazione, Kerrer si è scostato e adesso mi guarda distrattamente. Di liberarmi non se ne parla nemmeno. Getta la siringa lontano e liquida la conversazione con un laconico:
– Gli ordini sono questi.
Allibisco.
– Ipocrita — è tutto quello che riesco a dire.
– Il protocollo prevede che i fourth level vengano vaccinati prima di essere consegnati alla Polizia Sanitaria — mi sento dire per tutta risposta.
Allibisco ancora.
– Ipocrita — ripeto.
Al diavolo la storia del mio primo ricovero coatto! Non ne parlerei nemmeno sotto tortura, adesso. Non con lui. Non in questo modo, per disperazione. No.
E dire che eravamo la stessa cosa, io e Kerrer! Disadattati terzo/quarto livello: agenti patogeni per il Sistema. Organismi che, peste o non peste, possono mandare in tilt la baracca, sovvertire da capo a piedi. Organismi forti, noi. Se non ci avessero dato da mangiare pane e tivvù adesso saremmo in grado di accorgercene e di reagire. Invece, guarda qua. Kerrer mi salva la vita e rischia la sua vita, e tutto per regalare un nuovo agente AC al suo Sistema dimmerda. Ipocrita. Mi osserva ancora, ed è come se mi leggesse dentro. Non si è fatto scalfire dal mio ringhiante disprezzo; piuttosto se la ride ancora sotto i baffi — mi piacerebbe sapere perché! A conferma di quanto ripeto a me stessa, ignorando il ricovero coatto, e tutto quello che c’è stato prima e durante e dopo, mi chiede dell’unica cosa che l’ha colpito. Mi chiede:
– Com’è che è andata la storia della vecchietta nel supermercato? — e ancora ghigna.
L’ho detto: siamo la stessa cosa.
La storia della vecchietta… non so come m’è venuto in mente di parlarne.
Più mi sforzo di scordarla, più me la vedo riaffiorare accanto… Vedo riaffiorare il cadavere.
Me la ricordo, sì, quella benestante vecchina con la tempia spaccata; e l’impressione che mi faceva vedere la sua pelle grinzosa farsi tutta gialla di un giallo indescrivibile; mi ricordo le labbra contratte e il corpo tutto contratto nel rigor mortis, duro come un sasso. Lo ricordo, sì, lo ricordo alla perfezione, come se davvero l’avessi visto. E ho continuato a sognarlo, ininterrottamente, nottate e nottate di terribili incubi, come se tutta la scena mi fosse passata nel dettaglio sotto il naso. Invece no. La Polizia di Regime non era arrivata mai così alla svelta come quella mattina in quel supermercato. Mi avevano portato via subito. La vecchina forse ancora respirava. Dev’essere così, perché l’ho saputo dopo che si trattava di omicidio e che ormai c’ero dentro fino al collo e che facevo meglio a cominciare a pensare all’esecuzione, eccetera. Meglio così, l’ho meritato — pensavo. Ma poi pensavo anche: esecuzione = addormentarsi. Oddio, addormentarsi! Addormentarsi vuol dire sognare — e dunque continuare a sognare la vecchina stecchita! Vuol dire incubi a non finire! E questa morsa che ancora mi porto dentro, e che mi risale su come un rigurgito ogni volta che ripenso alla maledetta storia del maledetto supermercato e della benestante old lady… maledetta – non so se lei, o la sorte…
Insomma, che diamine ci faceva una benestante, incartapecorita, ingioiellata old lady in un supermercato alle otto e mezzo del mattino?! Non avrebbe potuto mandarci la colf al supermercato e starsene a casa?! Perché diamine spingeva quel maledetto carrello? Perché diamine non ha sentito che già gridavano al ladro? E tutto il trambusto? Perché si è messa sulla mia strada, di traverso, con tanto di carrello, proprio sulla mia strada?
Io correvo. E avrei continuato a correre comunque. Tutto, pur di non farmi beccare. Perché non potevo farmi beccare!
Ero al terzo giorno di digiuno e non ne potevo più. Pensavo: nascondo un pacco di biscotti sotto la maglietta, chi mai mi vedrà? Alle otto e mezzo del mattino in un supermercato dell’Urban 16, nell’Agglomerato Sud chi mai potrà esserci ? E che ci vuole a far sparire un pacchetto di merdosi biscotti sotto la maglietta? E, se anche se ne dovessero accorgere, chi mi correrebbe appresso per un pacchetto di biscotti? Chi chiamerebbe la Polizia per un pacchetto di biscotti?
Questo pensavo. Ma poi, dentro il supermercato, il cuore mi andava all’impazzata. Così all’impazzata che mi passò inosservato un banale specchio autoriflettente che correva lungo tutto il corridoio Prima Colazione; mi passarono inosservati un perbene signore con perbene signora che compravano merendine global-taste; e soprattutto mi passò inosservata la old lady con carrello, che avevo dritta di fronte.
Quando sentii al ladro andai in debito di ossigeno. Corri — corri, mi dissi. Corri e basta. Corri, che non puoi farti beccare. E ho iniziato a correre. Diamine, se ho corso! Come un’ossessa. Una corsa folle – lungo tutto il corridoio — senza più fiato né pensiero, solo istinto di sopravvivenza — e terrore — al ladro! — sorda, cieca e terrorizzata, questo ero — corri, questo pensavo (questo e nient’altro). Salvarmi, devo salvarmi — questo pensavo. E tra me e la salvezza c’era un carrello messo per traverso; c’era una innocente vecchina che controllava le offerte speciali dei biscotti da thè. Fermarmi? Saltare il carrello? Urtarlo? Spingere la vecchia e scaraventarla a terra? Salvarmi – sì, ma come? E soprattutto, quanto tempo mi rimaneva ancora per pensarci su?
Poi lo sguardo mi cade sulle ruote del carrello della spesa. Mi dico: se lo spingo, rotola via sulle sue ruote, e io mi salvo — e la vecchietta pure! Mi sembra un piano perfetto. Ma il perbene signore fa di nuovo — chi sa poi perché, visto che già mi correvano dietro in due! — il signore, dicevo, fa: al ladro! Stavolta l’apparecchio rigenera-timpano della vecchia incredibilmente funziona, e tutto, attorno a me, funziona con un sincronismo perverso e perfetto: la vecchina alza la testa proprio mentre io spingo il carrello; il carrello carambola su se stesso in un giro vorticoso; la tempia della vecchia si pone esattamente sulla sua traiettoria. Urla, schizzi di sangue, un tonfo sordo, che può essere solo il tonfo di un corpo che cade a terra a peso morto, eppoi un rantolo terribile — credo di aver sentito anche quello. Mi giro e vedo che, carrello a parte, sono tutti a terra a soccorrere il corpo esanime della vecchia. E mentre sto voltata a fotografare quell’assurda immagine, finisco dritta nelle braccia nerborute della Guardia Giurata.
Mi scuoto. Kerrer ride di gusto chi sa da quanto. Io sono piena di brividi.
– Sei proprio uno stronzo — sibilo — E non sai nemmeno fare le iniezioni!
Adesso è notte. Forse era notte anche poco fa, ma non me n’ero accorta. Tutto quello che so è che i miei incubi sono ancora tutti lì, nel mio freudiano subconscio. Se non ci sto attenta riemergono; e, se ci sto attenta, riemergono lo stesso. Non so quanto tempo è passato. Nel buio ho visto trascorrere migliaia di volte la salma della vecchina, composta in una perbene bara di pregiatissimo legno riccioluto; ho visto il becchino che le rimetteva a posto la tempia, perché il cadavere non facesse troppa impressione al parentado; e credo di aver visto anche il parentado: tutte vecchiette, solo vecchiette, con capelli raccolti e velette nere sugli occhi e listate di nero al braccio. Ce n’era una fila intera, una schiera a perdita d’occhio di vecchiette listate a lutto. Tutte uguali. Rabbrividisco. Nel buio cerco di nuovo Kerrer: lo trovo che rulla uno spinello. Penso: è proprio uno stronzo. E lui, come se mi avesse sentito, si volta, mi stende il cannone e fa:
– Vuoi?
– Sei proprio uno stronzo.
(5-CONTINUA)