di Niall Griffiths
[estratto da Ianto, tradotto da Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, 14 euro]
Tuffato in un campo di segale che gli arriva alle ginocchia e che costringe le ricche fioriture d’erica striate di viola a risalire verso le montagne, Ianto gioca con due piccole pietre, due ciottoli levigati e resi sferici dai continui venti, dalle piogge instancabili e dal quieto infrangersi delle onde del mare interno che in tempi immemori occupava la piccola valle, prima di evaporare per lasciar spazio a questa fresca distesa di terra, prima di ogni sogno, di ogni fantasia, fors’anche di ogni conoscenza.
Le due piccole biglie di pietra sono coperte di microfossili, tracce di esistenze primordiali, quando ancora la vita sguazzava o strisciava nel fango, e Ianto le batte ripetutamente l’una contro l’altra, il continuo e sordo “pok” di quegli scontri portato dal vento fino alle orecchie di sua nonna che lotta contro chili di bucato in mezzo all’orto rigoglioso e inselvatichito, davanti alla vecchia fattoria imbiancata e cadente, mentre le sue mani rugose e coperte di macchie tentano d’appendere al filo di nylon i vestiti svolazzanti, rigonfi, lavati a lungo: calzini con più buchi che lana, camicione pesanti ormai deformi e sdrucite sui gomiti, grandi felpe infeltrite e pantaloni di velluto a coste con cui veste il piccolo Ianto. L’occhio lattiginoso della donna, un tempo azzurro e brillante, ora sbiadito come il suo sangue, si posa placido su di lui. La minuscola figura che gioca alle pendici della montagna sembra un puntino su quello sfondo enorme e scuro, una macchiolina impegnata in una serie ripetuta di “pok”, “pok”, fine pietrisco sulla punta delle sue dita e sul dorso delle mani, “pok”, “pok”, tendini che si contraggono impercettibilmente e controllano il violento e istantaneo schianto fra una pietra e l’altra, fra una pietra e l’altra.
All’improvviso, l’acuto belato di un agnello lo sorprende alle spalle come uno sparo e Ianto si volta appena in tempo per vedere la bestiolina dal pelo candido correre verso di lui su zampe malferme, mentre sopra il suo capo inclinato volteggia la sagoma nera di un corvo, il terribile rapace dagli occhi cerchiati di sangue che popola le cime di queste montagne e che, invariabilmente, si scaglia rapida e feroce sul neonato così come sul cadavere. Ianto s’acquatta in silenzio e aspetta che l’agnello gli venga incontro, sente i belati echeggiati dalle grida di quella che dev’essere sua madre, impietrita e ferma a osservare la scena da una sporgenza rocciosa, là dove la valle comincia la sua discesa precipitosa verso le acque dell’estuario. L’agnello avanza belando tra la segale secca e aggrovigliata, mentre il vento gli scosta gl’innocenti riccioli bianchi dagli occhi e Ianto, tutt’a un tratto, si accorge che il piccolo in realtà non ha occhi, solo buchi, due cavità nere piene di schiuma rossastra dalle quali pendono cordoni di nervo scoperto simili a orribili vermi saprofagi. Come una maschera, uno spesso strato di sangue scuro ricopre le guance e il muso dell’animale che, smarrito e terrorizzato, strilla come un folle davanti al viso di Ianto, mentre i suoi sensi accecati dal dolore e dalla forzata oscurità lo spingono istintivamente a cercare protezione tra le braccia della creatura vivente più vicina. Non vede nulla, non sente nulla all’infuori del fuoco che, dal cielo, gli si è riversato negli occhi. In alto, tra i rami nodosi di un albero spoglio, il corvo schiamazza soddisfatto, le piume del suo petto bluastro rigonfie e mosse dal vento. A bocca aperta, Ianto alza la testa verso quell’uccellaccio e c’è qualcosa nel suo modo di guardarlo che trapassa i suoi occhi, qualcosa che, all’improvviso, muove le sue pupille al suono di promesse impronunciabili e immediatamente tradite. Qualcosa che gli brucia nel petto, ma invisibile all’esterno. Qualcosa che si scaglia contro il suo vecchio mondo con la violenza improvvisa di un turbine di spade. L’agnello continua a strillare con insistenza, le orbite scure e gorgoglianti si dilatano trasformandosi in mostruose cavità che cominciano ad attrarre come vortici il piccolo Ianto, il quale allunga disperato le manine e v’infila in fretta e furia i due ciottoli per colmare quel vuoto con qualcosa, qualsiasi cosa. Le pietre affondano mollemente nelle cavità e per un attimo l’agnello rimane immobile, ma con un movimento rapido e incontrollato Ianto spinge le dita ancor più in profondità, fino a che i suoi pollici paffuti non affondano con un risucchio dentro i tessuti oculari, trapassando la cartilagine e le membrane cerebrali, e l’animale non s’affloscia improvvisamente privo di sensi tra le braccia del ragazzino, che vede la vita svanire in un lampo, un ferocissimo lampo, mentre tenta di liberarsi di quell’orribile fardello agitando freneticamente le braccia, come un burattinaio impazzito. Sul suo ramo, l’uccellaccio nero osserva attentamente la scena starnazzando e allungando il grosso collo, incuriosito dallo strano ibrido che si dimena sotto i suoi occhi: lo Iantagnello. Schiacciato da quel peso, Ianto cade a terra, la testa dell’animale segue i movimenti delle sue braccia come in uno strano incubo sincronizzato e dalle sue mascelle strette bloccate cementate nella tenace presa della morte cominciano a fuoriuscire grida sconnesse, e sua nonna volta di scatto la testa, simile a un’antilope che abbia fiutato un leone. L’anziana donna lascia cadere il bucato, che rotola sul terreno fangoso e irregolare del campo di patate, e si lancia di corsa verso il nipote, incurante delle buche, dei solchi, dell’età. Ianto la vede, ricomincia a gridare e tenta di sollevare le braccia, fino a che riesce faticosamente a scrollarsi di dosso l’agnello morto. Un liquido vischioso gli cola sulla pelle del viso e del corpo, ma se non altro ora riesce a urlare a squarciagola, un lungo, spaventoso latrato sordo e cupo che all’improvviso investe ogni cosa, mischiandosi al soffiare del vento, al frenetico beccare consonantico del corvo sul suo ramo, e al rincorrersi veloce di gruppi di nubi nerastre e cariche di pioggia che si addensano lungo il crinale della montagna e in un attimo ricoprono la scena, questo infinito dramma di piccole esistenze e piccole morti, allestito su un minuscolo palcoscenico tra le montagne.
Ianto tiene l’agnello morto fra le sue giovani mani. L’anziana donna corre, le membra rigide, verso di lui. Ha cinque anni, Ianto.