di Lothar Komp
La crisi del dollaro è amplificata in particolar modo dalla bolla delle materie prime, un settore che è praticamente finito sotto il controllo completo di interessi privati speculativi. Come conseguenza delle gigantesche iniezioni di liquidità nel sistema finanziario, fatte dalle banche centrali, e del controllo esercitato dai mercati a termine di Londra e New York sulle trattazioni delle commodity, i prezzi di moltissime materie prime, dal greggio al rame ai minerali ferrosi, sono schizzati a livelli stratosferici. L’indice Reuters CRB (Commodity research bureau), che segue le 17 materie prime più importanti, lo scorso 8 marzo ha raggiunto il record degli ultimi 24 anni. Nel solo mese di febbraio l’indice ha registrato un aumento del 7,1%, come non si verificava da 21 anni. Sempre l’8 marzo al London Metal Exchange (LME) il prezzo del rame ha raggiunto il massimo in 19 anni. Lo stesso giorno il petrolio ha sfondato la soglia dei 55 dollari. Solo sei anni fa costava dieci dollari il barile.
Contemporaneamente le monete dei paesi esportatori di materie prime, come Australia, Canada e Sudafrica, si sono considerevolmente rivalutate rispetto al dollaro. Rispetto all’oro il dollaro perde decisamente terreno: l’8 marzo l’oncia ha raggiunto i 440 dollari, con un incremento netto di 6 dollari. Due giorni dopo Paul Keating, ex primo ministro australiano, ha dichiarato che occorre prepararsi ad un “crac catastrofico” del dollaro USA e allo scoppio del “panico”. Ha aggiunto che gli americani sono “debitodipendenti” e che la droga gliela forniscono Giappone e Cina. Ma non è una cosa che può andare avanti tanto a lungo. La disintegrazione del sistema finanziario globale è giunta ad una fase troppo avanzata e le pezze ormai non reggono più; l’impennata dei prezzi delle materie prime lo rende ancor più evidente.
Il settore siderurgico
L’industria siderurgica mondiale è duramente colpita dai rincari dei prezzi del minerale ferroso, del carbon coke e dei rottami ferrosi. In due anni il prezzo del carbon coke è quadruplicato. Un produttore importante di coke come la Germania da qualche tempo ha smantellato le proprie capacità produttive perché le imprese siderurgiche erano convinte che in futuro sarebbe costato meno approvvigionarsi dall’estero. I giacimenti di minerali ferrosi australiani, sudafricani e latinoamericani sono enormi e possono comodamente soddisfare ogni fabbisogno per molti decenni, ma i prezzi continuano a crescere. Il 23 febbraio due dei principali produttori del settore — La brasialiana Companhia Vale do Rio Doce (CVRD), e la britannico-australiana Rio Tinto — hanno fatto sapere che gli aumenti previsti nei prossimi 12 mesi per le forniture di minerale ferroso alle grandi imprese giapponesi, sudcoreane e cinesi non potranno essere inferiori al 71,5%. Le imprese siderurgiche sono state costrette ad accettare il rincaro. Sulla base di questi prezzi vengono definiti gli altri contratti per le forniture di minerale ferroso in tutto il mondo.
Quasi tre quarti della produzione siderurgica mondiale (512 milioni di tonnellate nel 2004) è sotto il controllo di tre compagnie: CVRD (165 milioni di tonnellate), Rio Tinto (128 milioni di tonnellate) e BHP (76 milioni di tonnellate). Esse giustificano l’aumento dei prezzi con il collo di bottiglia venutosi a determinare nelle infrastrutture per i trasporti. Occorrono investimenti notevoli affinché il volume delle consegne possa continuare a crescere: questo riguarda le ferrovie, per il trasporto dalle miniere ai porti, le strutture portuali per i trasbordi, e le navi da carico. Dal 2002 il volume del minerale trasportato sulla rotta atlantica Tubarao-Rotterdam è quintuplicato.
Di conseguenza le imprese siderurgiche saranno costrette ad aumentare i prezzi di un prevedibile 50%. L’associazione degli industriali tedeschi BDI si è riunita lo scorso 8 marzo per discutere la crisi delle materie prime. L’industria tedesca rischia di perdere ancora centinaia di migliaia di posti di lavoro. La situazione è tanto grave che il Cancelliere Schroeder si è sentito in dovere di prendere parte all’incontro, anche non è riuscito a prospettare nessuna soluzione convincente.
Concentrazione monopolitistica
La crisi si estende anche ad altri settori delle materie prime, anch’essi altamente monopolizzati come quello della siderurgia. Una decina di anni fa la rivista EIR produsse uno studio che poneva in risalto come quasi una metà della produzione di materie prime era in mano ad imprese nella sfera dell’ex impero britannico. I cambiamenti da allora sono stati pochi. Le tre principali imprese minerarie oggi sono: la Anglo American, gruppo anglo-sudafricano (fatturato 2004: 20,1 miliardi di dollari), la anglo-australiana BHP Billiton (19,2 miliardi di dollari) e la Rio Tinto, (9,2 miliardi di dollari), anch’essa anglo-australiana. Queste tre imprese hanno grandi partecipazioni in molte attività minerarie in ogni parte del mondo. La Rio Tinto, ad esempio, è la seconda produttrice di minerale ferroso e carbon coke, la terza produttrice di uranio e diamanti, la quarta produttrice di rame e la sesta di alluminio. E’ attiva in Australia, Canada, USA, Sud Africa, Cile, Spagna, Papua Nuova Guinea, Indonesia, Guinea, Brasile, Zimbabwe e Namibia.
La Anglo American, fondata dalla famiglia Oppenheimer del Sud Africa nel 1917, inizialmente si dedicò alla produzione di oro, platino, diamanti e rame nell’Africa meridionale. Dalla metà degli anni Novanta ha esteso le sue attività oltre in confini africani, ad esempio con l’estrazione mineraria di nichel e zinco in Venezuela, di rame in Cile e di carbone in Colombia. Nel 2001 la Anglo American, insieme alla famiglia Oppenheimer, rilevò la quota maggioritaria, il 60%, della famosa compagnia di diamanti De Beers, sborsando 10,3 miliardi di dollari.
Sempre nel 2001 la BHP acquisì l’impresa britannica Billiton pagandola 13,2 miliardi di dollari. La BHP Billiton oggi è attiva in questi settori: rame in Argentina, Perù, Cile e USA; alluminio in Sud Africa, Mozambico, Surinam e Australia; oro in Argentina; piombo in Australia, Canada e Sud Africa; carbone in Colombia, USA, Australia, Indonesia; Nichel in Colombia, Indonesia e Australia; minerali ferrosi in Australia e Brasile; bauxite in Austrialia, Brasile e Surinam; manganese in Australia e Sud Africa; cromo in Sud Africa; diamanti in Canada; cobalto in Austrialia e Colombia; zinco in Australia, Canada e Sud Africa. Il 7 marzo la BHP ha offerto 7,3 miliardi di dollari per l’impresa mineraria australiana WMC Resources. Quest’ultima possiede i diritti sui vasti giacimenti di Olympic Dam in cui si calcola circa un terzo delle riserve minerarie mondiali di uranio. La WMC possiede inoltre giacimenti di rame e di oro al quarto posto mondiale ed è il quinto produttore mondiale di nichel.
Un altro gigante del settore è il gruppo svizzero Xstrata emerso dalla Glencore International, impresa delle materie prime appartenuta a Marc Rich, noto ricercato per truffa e legato alla mafia russa. La Xstrata si è affermata come il principale fornitore mondiale di carbone per le centrali termiche e intende affermarsi nei settori del minerale ferroso, del platino e del manganese in vari paesi: Australia, India, Perù e Filippine. Nel 2003 ha inglobato la MIM australiana, che estrae rame e zinco; costo dell’acquisizione: 3,9 miliardi di dollari. L’anno scorso aveva tentato l’acquisizione ostile della WMC Resources con 6,5 miliardi di dollari, ma la BHP Billiton l’ha spuntata rialzando la posta.
La speculazione finanziaria
La concentrazione delle materie prime in un numero sempre più ristretto di proprietari è senz’altro qualcosa di molto preoccupante, ma il ricorrersi dei prezzi è dovuto anche ad un altro fattore: l’importanza sempre maggiore che acquisiscono i mercati a termine, i futures exchanges, in cui banche, fondi e altri investitori determinano i prezzi futuri delle materie prime in maniera del tutto speculativa.
Ad esempio, il prezzo di due terzi del greggio mondiale è determinato dalle scommesse che si fanno sul Petroleum Exchange di Londra. I prezzi vengono fissati negli spot market, da un gruppo ristretto di operatori, secondo procedure che sfuggono completamente alla comprensione del profano. L’unico petrolio che in qualche modo rientra nella determinazione dei prezzi di questi mercati è il Brent Crude estratto nel Mare del Nord. Questi giacimenti inglesi si stanno impoverendo e il greggio che se ne estrae corrisponde ad una percentuale modestissima del totale mondiale.
Sebbene il vero Brent rappresenti meno dello 0,4% della produzione mondiale, il suo prezzo determina quello del 60% di tutta la produzione petrolifera mondiale.
I mercati non trattano petrolio reale, ma solo “petrolio di carta”, cioè derivati finanziari, il cui volume non ha più alcun rapporto con le quantità della merce trattata. Nel 99,9% di tutti i contratti a termine stipulati al NIMEX, il mercato a termine di New York, nessuna delle due controparti consegna o riceve petrolio reale. Queste transazioni, però, influiscono enormemente sull’andamento dei mercati.
Oltre a fissare il prezzo del petrolio la piazza di Londra è anche il principale mercato mondiale dell’oro. Secondo i dati rilasciati dal International Financial Services London (IFSL), il volume degli scambi ha raggiunto i 5600 miliardi di dollari, gran parte dei quali fuori borsa, cioè accordi stipulati tra circa 50 dealer.
* Collaboratore di “Neue Solidaritaet”, rivista facente parte del network internazionale di Lyndon LaRouche, che in Italia è rappresentato da Movimento Solidarietà (dal cui organo abbiamo tratto questo articolo). Abbiamo più volte utilizzato l’attendibilità delle notizie che, filtrando dalla rete di LaRouche, forniscono dati assai interessanti circa l’economia e la politica internazionali, con particolare riferimento all’intelligence. Si ricorda tuttavia che LaRouche è un politico estremamente controverso, in Italia memorabilmente rappresentato dal neoreazionariato del Partito Operaio Europeo circa venticinque anni orsono e favorevole al nucleare. E’ però da lui e dai suoi collaboratori che sono filtrate le indiscrezioni più compromettenti per la fazione neoconservatrice americana ed è in questa prospettiva che si invita a leggere il testo.