di Laura Grimaldi
[da Il Sole 24ore]
Terminata la lettura di Tiro mancino di Charles Willeford ci si chiede se un romanzo sbagliato può risultare alla fine un romanzo straordinario e si ha la sensazione di poter rispondere di sì. Dopo aver atteso con impazienza, per molte pagine, che la storia dia un qualche segno di dinamismo o che l’autore fornisca almeno un’indicazione del tipo di trama che intende svolgere, il lettore si lascia intrappolare nella rete di una narrazione ipnotica, dilatata, che gradualmente lo fa sentire interno ai fatti, personaggio fra i personaggi, e scopre che appunto questo il libro di Willeford vuole essere, una galleria di personaggi scrutati con attenzione quasi maniacale. In altri termini, il racconto non solo di ciò che l’uomo è, ma anche di quello che può diventare, malgrado se stesso, se mosso da qualcosa di sufficientemente forte.
È un po’ la scuola di Georges Simenon: “Non occorre trovare una storia, ma semplicemente degli uomini, degli esseri umani, nella loro cornice, nel loro ambiente, la spinta che li mette in moto… E il personaggio di romanzo andrà fino al limite di se stesso. Il ruolo del romanziere è di metterlo in condizioni tali che vi sia costretto”.
È quello che scopre a proprie spese il vecchio Stanley, ultrasettantenne che si gode la meritata pensione seduto su una sedia a dondolo sotto il portico di casa, in Florida, quando una bambina di otto anni gli salta in braccio e lo bacia sulla bocca per poi togliersi le mutandine e chiedere, a pagamento dell’intera operazione, cinque centesimi, la stessa cifra che le danno i vecchini giù al parco per vedere le sue cosette intime. Nel giro di un paio d’ore Stanley si trova sbattuto nella stessa cella di Troy, un giovane rapinatore che gli “strizzacervelli hanno dichiarato psicopatico con tendenze criminali. Troy si prende cura di lui, e a suo modo gli dimostra una certa considerazione.
Quando esce, scagionato dal padre della bambina, Stanley scopre che la moglie l’ha piantato in tronco e si trova in una casa deserta, sperduto nella solitudine, e il giorno in cui Troy, anche lui libero, arriva a proporgli di seguirlo a Miami, accetta senza pensarci sopra due volte. Troy ha raccattato come complici della rapina che ha nella testa — e che arriverà, dirompente- anche una ex spogliarellista dalla faccia sfigurata da un innamorato geloso e un pittore “non rappresentativo” totalmente incapace di dipingere.
Di questa piccola corte dei miracoli Willeford ci racconta tutto, dai vestiti che indossano a ciò che mangiano, dai tic che li contraddistinguono alle virtù, sia pure scarse, che posseggono. E ce lo racconta con quella che le scuole di scrittura definiscono “doppia trama”: i capitoli pari riservati alla raccogliticcia banda capeggiata da Troy e i capitoli dispari a Hoke Moseley, poliziotto quarantacinquenne in crisi d’identità che vorrebbe lasciare la polizia per ritirarsi su un’isola.
Charles Willeford ha conosciuto i favori della critica solo dopo aver scritto sedici romanzi, tre collezioni di poesie e due saggi autobiografici. Nato nel 1919 e rimasto orfano a otto anni, passa l’adolescenza tra l’orfanotrofio e l’abitazione della nonna. Sedicenne, scappa di casa per andare ad arruolarsi, e si toglierà la divisa solo quando sarà avanti con gli anni, per prendere una laurea in letteratura americana che gli aprirà la strada dell’insegnamento, al quale si dedicherà fino al 1998, anno della sua morte. È innegabile che nei suoi libri Willeford esprima un’angst profonda, se non addirittura una sorta di nichilismo, come hanno scritto alcuni critici, ma è altrettanto vero che è capace di un’ironia a tratti bonaria anche quando ci mette di fronte alla follia umana.
Certo che ama descrivere gli psicopatici e che lo fa con grande maestria, perché deve averne incontrati parecchi, se dopo aver passato la maggior parte della vita nell’esercito ha detto: “Una buona metà degli uomini che si incontrano sotto le armi sono psicopatici. Esistono molti punti in comune fra la popolazione carcerarie e quella militare. È così che ho conosciuto tanti uomini come Troy”.
Charles Willeford – Tiro mancino – traduzione di Luca Conti – Marcos y Marcos – 14 euro