di Natalia Ginzburg
[da La Stampa, 6 aprile 1969]
Tempo fa un giornale mi ha chiesto di rispondere alla domanda se credevo che il romanzo fosse in crisi, ma non ho risposto, perché le parole “crisi del romanzo” le trovavo odiosissime, evocando in me il loro suono unicamente romanzi brutti, e già morti e stramorti, il cui destino mi era indifferente. Credo d’aver pensato che non aveva senso ragionare tanto sul romanzo, e meglio era forse tentare di scrivere dei romanzi per seppellirli magari in qualche cassetto nel caso che non fossero vivi, se siamo o siamo stati dei romanzieri.
Poi ho letto Cent’anni di solitudine [ora riedito da Feltrinelli per il cinquantesimo anniversario della casa editrice: vedi qui] di Gabriel García Márquez, colombiano che vive in Spagna. Da tempo non leggevo più nulla che mi colpisse tanto profondamente. Se è vero come dicono che il romanzo è morto, o si prepara a morire, salutiamo allora gli ultimi romanzi che son venuti a rallegrare la terra.
Di Cent’anni di solitudine si è scritto e parlato molto, in ltalia e fuori, ma io lo amo tanto che ho paura che non se ne parli abbastanza, che la gente lo legga poco e che venga confuso fra i mille romanzi nuovi che escono e che ci affollano da ogni parte. Il fatto che escano sempre tanti romanzi nuovi non prova per nulla che il romanzo sia vivo. Se vi fosse ragione di pensare che la specie dei conigli sta per estinguersi, per lunghi anni vedremo ancora forme pallide e stanche di conigli, le quali continuerebbero a congiungersi, a inseguirsi nei prati e a popolare la terra. I segni d’una prossima morte della specie noi potremmo scorgerli in particolari minimi, un pallore o un vago languore nell’aspetto dei nuovi nati, una nostra diffidenza e malinconia nel guardare le loro evoluzioni sull’erba.
Il vedere in alcune di quelle forme la felicità e il desiderio di vivere sarebbe per noi doloroso, non destando in noi né desiderio di vivere né felicità, ma solo un aamaro assentimento e un amaro addio. La stessa cosa avrei pensato dovesse accaderci riguardo al romanzo. La scoperta possibile d’un romanzo vivo, non provando per nulla che la specie sia viva, pensavo dovesse essere per noi dolorosa, perché unita a pensieri di compianto su quanto dicono che sta per sparire.
Ma, quando pensavo così, forse non ricordavo più che cosa fosse un romanzo vivo. Non ricordavo quanta vita porta in noi e come può di colpo, con la sua viva presenza, travolgere insieme le nostre vesti di lutto e la nostra intima lugubre indifferenza.
Ho letto Cent’anni di solitudine per caso, e l’ho cominciato senza voglia e con diffidenza. Come siamo diventati diffidenti. Siamo diventati dei cattivi lettori di romanzi. Inoltre i romanzi a cui tentiamo di avvicinarci spesso ci respingono indietro alle prime righe, oppure ci sembra leggendoli di mangiare pietre, segatura o polvere, oppure ancora li leggiamo distratti e tristi come se fossimo in piedi e, carichi di valigie nella sala d’aspetto di una stazione, pieni di tedio e di freddo.
Se il romanzo muore perché noi abbiamo cessato di amarlo, o se abbiamo cessato di amarlo perché pensiamo che tanto muore, io non lo so. Si è diffusa intorno a noi l’idea che esso è prossimo a estinguersi e questa idea è penetrata in noi come la sottile stanchezza avvelenata da romanzi brutti e da cibi morti. Si è diffusa l’idea che sia una colpa abbandonarsi a romanzi, che il romanzo è evasione e consolazione, e necessario è non evadere e non consolarsi, ma stare fermamente inchiodati nel mezzo della realtà. Siamo oppressi da un senso di colpa nei confronti della realtà. Questo nostro senso di colpa ci induce a temere i romanzi, come qualcosa che possa portarci lontano dalla realtà. E anche quelli di noi che non credono che non sia così, pure una simile idea la respirano, la subiscono e la patiscono, essendo un’idea sottilmente contagiosa e la nostra presente società umana è stranamente soggetta ai contagi, le idee vere e le idee false, si diffondono e si confondono sopra di noi come le nuvole, mescolandosi a incubi e spettricollettivi per cui non sappiamo più distinguere il falso dal vero.
Se tentiamo oggi di scrivere un romanzo abbiamo la sensazione di fare una cosa che nessuno vuole più, che dunque non è destinata a nessuno, e questo rende la nostra mano fiacca e la nostra immaginazione fredda e stanca e se tentiamo di leggere un romanzo abbiamo la sensazione che sia proibito e negato ormai l’abbandono a un mondo immaginario che altri ha creato per noi, e così, troviamo infiniti pretesti per non leggere quel romanzo e lasciarlo cadere: la nostra vita, troppo ansiosa e affollata di incubi e spettri privati e collettivi che ci assediano e ci incalzano da ogni parte.
Torniamo allora a volte ai romanzi del passato, come a una miniera di beni preziosi e vitali che il nostro tempo ha perduto. Ma isolarli nel passato è come averli custoditi sottovetro, come averli imprigionati nei musei della memoria. Abbiamo un estremo desiderio di romanzi nati dal presente, che portino i segni del presente, per mescolarli a quelli di una volta e amarli insieme. E un simile desiderio non sappiamo se sia condiviso da altri o se ormai a sentirlo siamo gli ultimi, se esso sia frutto di una nostra insensatezza di solitari o se sia generato da un’esigenza universale e essenziale.
Leggere Cent’anni di solitudine è stato per me come udire uno squillo di tromba che mi svegliasse dal sonno. L’ho cominciato senza voglia e aspettandomi d’essere sospinta indietro. Qualcosa ha incatenato la mia attenzione e sono andata avanti, avendo la sensazione di procedere in una boscaglia fittissima e verde, piena d’uccelli, di serpenti e d’insetti. Dopo averlo letto m’è parso d’aver seguito un volo d’uccelli rapidissimo e sterminato, in un cielo di sterminate distanze dove non c’era consolazionen non c’era se non l’amara e corroborante coscienza del vero.
Ma non parlerò di questo romanzo e non tenterò di riassumerlo, amandolo troppo per poterlo commentare e chidere in poche righe. Vorrei solo pregare chi non l’avesse ancora letto di leggerlo senza indugio. Io ho passato due giorni senza mai veramente staccare da quelle pagine il mio pensiero, tirando su ogni tanto la testa per guardare i luoghi e i volti che là vivevano, come contempliamo i tratti e ascoltiamo nel nostro cuore le voci delle persone che amiamo.
Dopo ho ancora letto e amato qualche altro romanzo, perché i romanzi veri hanno il prodigio di restituirci l’amore alla vita e la sensazione concreta di quello che dalla vita vogliamo. I romanzi veri hanno il potere di spazzare via da noi la viltà, il torpore e la sottomissione alle idee collettive, ai contagi e agli incubi che respiriamo nell’aria. I romanzi veri hanno il potere di portarci di colpo nel cuore del vero.
Questo romanzo è la storia di una famiglia in un villaggio. Probabilmente nel futuro non ci saranno più famiglie né villaggi, ma ci saranno solo villaggi e collettività. Esso è dunque l’ultimo o uno degli ultimi romanzi dove abbiano vita queste cose e vi si avverte la coscienza e lo strazio di essere fra gli ultimi, e insieme la grande e libera allegria e felicità di avere avuto ancora per esistere un breve istante. Nel futuro non ci saranno più romanzi di sorta, ma dovranno passare secoli, per la lentezza con cui si estingue la specie. Per qualche tempo, i romanzi non saranno che grida rotte e singhiozzi, poi calerà il silenzio.
La gente sarà gonfia di romanzi non scritti e storie sotterranee e segrete circoleranno nella profondità della terra. Per appagare la propria sete segreta, la gente inventerà dei surrogati, come ci saranno compresse e biscotti sintetici per sostituire il pane e l’acqua, così ci saranno dei surrogati dei romanzi, avendo gli uomini una fantasia geniale nel trovare dei surrogati alle cose di cui soffrono la privazione. Così passeranno dei secoli.
Poi un giorno il romanzo, come la fenice, rinascerà dalle sue stesse ceneri. Perché il romanzo è fra le cose del mondo che sono insieme inutili e necessarie, totalmente inutili, perché prive d’ogni visibile ragione d’essere e d’ogni scopo, eppure necessarie alla vita come il pane e l’acqua, ed è fra le cose del mondo che sono spesso minacciate di morte e sono tuttavia immortali.