Un romanzo di Federica Vicino
Nel panico generale, ha perfino trovato il tempo di gridarmi:
– Scappa! Gli io ho obbedito. E adesso scappo, spinta da non so quale disperata forza interiore, nella direzione che lui mi ha indicato.
– Scappa, e non fermarti finchè non trovi l’acqua!
Messaggio ricevuto: corro – corro e corro finchè non mi ritrovo con i piedi a mollo. Sono sulla riva del fiume che taglia la città da parte a parte – lo chiamo “fiume”, ma il termine più consono sarebbe “rigagnolo”, e dato il rancido olezzo che emanano le sue acque marroni, direi che sarebbe già un bel complimento chiamarlo “fogna”. Ma tant’è: mi infilo nel canneto, e lì provo a raccapezzare le idee.
Ci ho messo un bel po’ a riprendere fiato, e molto di più a capire cos’è successo veramente. In ogni caso ho aspettato, perché uno che ti salva il culo in quel modo non si può non aspettarlo. Nemmeno i superblindati della Polizia mi hanno dissuasa dall’attenderlo: continuo a sentirli correre a sirene spiegate, su e giù per il boulevard, e tutt’attorno nel raggio più vasto dell’Urban 16. Eppure aspetto. Fiduciosa.
La bravata del perbene giovinotto benvestito mi ha catapultato automaticamente nel fourth level, ma questo non mi importa, adesso. Ora sono un ricercato terminale: se finisco nelle grinfie della Polizia Sanitaria vengo eliminata. Sono carne da macello per boia staminale. Non importa. Ho altro per la testa, altri crucci…
A Kerrer, per esempio, sulle prime davvero non so che dire. Lui ha quest’aria imbronciata, questo vizio di guardare dritto negli occhi… E’ spuntato all’improvviso dal fitto del canneto, col fiato grosso e tutta la furia della corsa ancora appiccicata addosso. Ha ancora la pistola in mano, e così la prima frase che riesco a mettere in fila (e la meno stupida che mi viene in mente) è:
– Dov’è che la tenevi quella là?
Nel verde del canneto, la pistola continua a riflettere lampi di luce; la indico con un cenno e riformulo la domanda.
– Suppongo che dovrei ringraziarti. – aggiungo.
– Dovresti tacere – taglia corto lui – Non siamo ancora fuori dai casini.
E questo è Kerrer.
IV.
E’ vero: non siamo ancora fuori dai casini. Le strade, di sopra, sono bloccate; la Polizia Sanitaria ha piantato pattuglie a ogni angolo; anche gli agenti speciali dei corpi AC sono stati mobilitati — ed è questa forse la più preoccupante delle novità degli ultimi minuti… ma lontana, molto lontana da me e Kerrer. Tutto quel che succede, succede almeno una spanna al di sopra delle nostre teste. Per fortuna. La riva del fiume è sufficientemente malsana da tenere lontano perfino i sospetti dei perbene signori tutori dell’ordine & della sicurezza in divisa. Composti di scarico di primissima scelta, dal putrescente al radioattivo senza soluzione di continuità, tutto ben mescolato in un ammasso fangoso dal colore marroncino e dall’odore indescrivibile; fluisce molle nelle canalette di scolo: nessun essere pensante penserebbe mai nemmeno di accostarcisi. Il rischio di contagio qui è altissimo.
Ma queste sono sottigliezze che io e il mio supereroe non possiamo permetterci: ci siamo tuffati nel vomitevole melmoso letto della suburbana fogna a cielo aperto senza la minima esitazione. E ora ci sguazziamo dentro con suina disinvoltura. Dev’essere che siamo fatti l’uno per l’altra. Nemmeno il tempo di accorgermene, che già il liquame putrido mi tocca alla vita; i piedi affondano sempre di più, il fango risucchia gli scarponi. Kerrer mi precede senza voltarsi mai. L’insana vegetazione s’infittisce e questo dovrebbe essere di buon auspicio, credo. Invece il tutto ci complica ulteriormente la vita: ora bisogna fare attenzione anche a non far oscillare i fusti delle canne. Un fremito di troppo fra le spighe, su in cima, rivelerebbe la nostra presenza ai mastini in divisa che affollano il boulevard, di sopra.
Ormai affondo i piedi in un magma indistinto, che sembra capace di inghiottirmi, e che — soprattutto – si fa sempre più scuro e compatto: ora è impossibile scorgere fra i gorghi e le plaghe del rigurgito fognario persino le ombre della vegetazione lacustre. Fantastic – Kerrer è nettamente più abile di me: sa fare tutto, ha un espediente per ogni cosa, sa sempre tutto, e ha un fisico ligneo che asseconda gli sforzi senza problemi; scivola nel canneto come una biscia e, apparentemente, persino senza sforzo. Non so più tenergli dietro. Anzi, a pensarci bene, non so più perché gli tengo dietro. Non so perché ho seguito le sue istruzioni per questa assurda fuga, che mi porterà dritta nelle grinfie della Guardia Speciale AC; non so perché sono scappata davanti ai poliziotti agonizzanti, dal momento che è stato lui a sparare — lui! — e non io! Nessuno avrebbe mai potuto incriminare me per quel delitto. C’erano decine di testimoni. Magari me la sarei cavata. Me la sarei cavata pur essendo un third level. Magari sì.
Sono confusa: i pensieri mi si accavallano nella testa senza più ordine. Ma, quel che è peggio, continuo a perdere terreno. Sono allo stremo delle forze: o mi curo di evitare i fusti delle canne o mi affanno a stringermi alle costole del superman trendy-vestito; ed entrambe le operazioni divorano le ultime forze che avevo a disposizione. Per muovere un solo passo devo tirar su la gamba dal fango con tutta l’energia che mi rimane, e quel solo passo mi è fatale. Giù, nel liquame, il tronco ben solido di una canna si dirama in modo strano dalle radici: impossibile vederlo nella melma, impossibile accorgermene. Inciampo.
Il lungo fusto verdognolo vibra come un tondino d’acciaio, ululando minacciosamente; la vibrazione risale fino alla cima dell’arbusto lacustre, dal quale immediata piove giù la fitta nebbia bianca dei semi divelti dalle spighe. Nello stesso istante altre canne si trasmettono di rimbalzo un moto tremulo e infausto. E quel che tutto ciò provoca su, nella baraonda del boulevard, è facilmente immaginabile: un improvviso silenzio, una moltitudine di occhi che si volgono sbalorditi verso il turbinìo del fogliame giallastro, e poi un nuovo irrompere di ordini gridati in malo modo, sentinelle guida che annaspano verso il rigagnolo… In un lungo attimo, forse, ho perfino scorto le ombre delle prime divise nere che si affacciavano dalla balaustra. Ma non ne sono certa.
Incespico, vado giù, nelle acque torbide, scivolo, annego, non so… non vedo più nulla, né canne, né ombre, non sento più nulla, se non melma che mi scivola addosso; riemergo a fatica e solo grazie alla mano ruvida di Kerrer, che mi agguanta da sotto le ascelle e mi tira su. Adesso ci guardiamo negli occhi. Di nuovo per un lungo e muto istante.
Adesso sì che questa storia comincia a darmi sui nervi. Provo a divincolarmi dalla presa; naturalmente senza successo. La presa si fa ancora più salda, e la mia rabbia pure. Provo ad accennare una protesta:
– Perché non…
– Zitta!
Adesso si distingue bene il tramestìo delle truppe speciali che si spostano in fretta di sopra. Si sentono i latrati sottili delle sentinelle guida, viscide bestiole dal corpo allungato, ultraresistenti, ultraferoci macchine da guerra, frutto di anni di sperimentazione di laboratorio, a metà fra l’iguana, il cane bassotto, la lontra, il coccodrillo e la sanguisuga. Annaspano puntando i loro musi aguzzi verso il fondo del canalone, distendono i corpi squamosi striati di verde, tendono le zampe palmate, già pronte a sfidare l’impatto putrido del magma; sono ottimi nuotatori, oltre che corridori infaticabili e spietati predatori.
Adesso sì che siamo nei guai.
Ne è convinto anche Kerrer, glielo leggo negli occhi.
Improvvisamente ce l’ho con lui.
– Perché non la finiamo qui? — gli sibilo contro.
Ricevo l’ennesima occhiataccia. Dimenticavo che lui è quello che ha sempre tutto sotto controllo. Mi afferra per un polso con una fermezza che non avevo saputo immaginare; mi strattona via, con sé, in una corsa folle e insensata, che ripercorre al contrario tutta la strada che abbiamo fatto finora.
– Ma che fai? — grido.
– Sta’ zitta!
– Stiamo tornando indietro!
Kerrer non mi risponde e io cerco — e trovo — nella disperazione, o forse nel terrore, la forza per riuscire ad allentare la sua presa. Ci fermiamo faccia a faccia, quasi ci fronteggiassimo in una sfida fra predatori. Di colpo recupero le forze: le forze per gridare, per ringhiare; tento di tenergli testa e di nascondere il senso di disagio che la sua possanza mi infonde… E’ strano ammetterlo, ma Kerrer mi fa più paura della Polizia Sanitaria, più paura delle stesse mostruose sentinelle guida. Mentre cerco di recuperare il fiato e raccapezzare i pensieri, stranamente è lui a iniziare a parlare.
– Torniamo indietro perchè loro non se l’aspettano — soffia in fretta — e poi perché mi pare evidente che non ce la fai a risalire il canalone.
– Perché non mi lasci perdere, allora? — ribatto. E solo in questo istante mi accorgo che sto ancora tentando di farmi mollare il polso.
Kerrer è interdetto. Sprofonda in un nuovo silenzio, che si fa immediatamente pieno di echi terrificanti: la sensazione è che Polizia, guardie AC e sentinelle guida siano tutti molto, molto più vicini di quanto credessimo. La sensazione forte e reale è di essere finiti in una trappola. Per questo sento di avercela con Kerrer. Oppure è solo questione di salute: il mio polso è ancora saldamente incastrato fra le sue dita; la sua forza fisica è un dato di fatto incontestabile; e io non posso che invidiare un simile stato di forma. Mi sento crollare.
– C’è un’altra via d’uscita. — fa lui, accostandosi un po’ al mio volto disfatto — Ma mi devi star dietro senza fiatare, chiaro?
Chiarissimo. Facciamo dietrofront che già le sentinelle guida saettano minacciose nel fitto del canneto, non molto distante da dove sorge la canna maledetta dalle radici diseguali. Tenere il passo di Kerrer mi è praticamente impossibile, così finisce che è lui a trascinarmi tirandomi sempre per lo stesso braccio, aiutato solo in minima parte dalle acque molli del rigagnolo che appena mi tengono a galla. Le canne, urtate ora senza alcun riguardo, stridono al nostro passaggio, rilasciando un ululato lentissimo e sinistro; più morbidamente, come fossero solo sfiorate da qualcosa di estremamente sinuoso nella struttura e nel movimento, continuano a piegarsi da un lato e dall’altro anche alle nostre spalle.
In una qualsiasi altra situazione avrei realizzato subito il pericolo imminente; ma come ho detto sono in uno stato confusionale che mi blocca anche il pensiero. Quando riesco a liberare gli occhi dal fango vedo le canne oscillare e i candidi ciuffetti dei semi precipitare giù morbidamente in una pioggia leggerissima e ininterrotta. Troppo insistente e marcato, quest’ondeggiamento, per essere solo un effetto del nostro passaggio… ci rifletto un attimo su, ma è tardi. Dalla mota gelatinosa si erge all’improvviso un muso appuntito e violaceo: con un sibilo infernale la sentinella guida spalanca le fauci e mi si getta addosso. I denti aguzzi mi penetrano solo in parte nel piede: in realtà solo un canino riesce a forare lo scarpone e infilarsi nella carne. Urlo con quanto fiato ho in gola; un assurdo istinto di sopravvivenza mi fa scalciare disperatamente; col piede rimasto libero cerco di colpire il mostro sul muso, sugli occhi, alla cieca, dovunque posso… ma invano. Le fauci dell’animale sono come pinze. Nell’aria si levano grida e sibili, segno che altre sentinelle guida si stanno precipitando da noi, e poi c’è la voce di Kerrer, anch’essa furibonda, che solo ora mi riesce di sentire, dopo una lunghissima manciata di secondi:
– Sta’ ferma! Ferma! — mi intima.
Torco gli occhi e scopro che sta prendendo la mira. Allora punto come posso il piede ancora libero sotto la gola del mostruoso predatore e spingo in su, facendo emergere dalla melma tutta la testa. Un istante di calma permette a Kerrer di fulminarlo con un solo colpo dritto fra gli occhi. Una macchia oleosa di sangue nerissimo si spande attorno al mostro che si contrae in un rantolo disumano. La fuga riprende, che ancora tento disperatamente di allentare la presa delle fauci della sentinella guida, nemmeno in parte attutita dalla morte. E mentre armeggio con la spaventosa dentatura, altre bestie spuntano dal canneto lanciando i loro gutturali sibili di trionfo. Una si afferra alla coda dell’animale morto, e squarciandone la pelle risale lungo il suo corpo esanime per arrivare ad aggredire me.
– Ehi! — urlo con quanto fiato ho in gola, ma in fondo inutilmente.
Kerrer è già voltato: la canna traslucida della pistola già puntata verso il basso; fuoco, un solo colpo e anche la seconda sentinella esala il suo ultimo dannato respiro. La terza si rivolta pancia all’aria con un sussulto dopo un paio di colpi andati a vuoto, quindi Kerrer scarica nella mota il resto del caricatore. Due corpi lividi rimangono a dibattersi fra le canne, mentre la melma, tutt’attorno, si tinge di un nero impenetrabile.
– Fottetevi. — soffia loro contro Kerrer, osservando la scena con una ferocia animalesca dipinta sul viso.
Da qualche minuto c’è qualcos’altro di cambiato, attorno a me. Avverto la presenza di acque più fredde: una sordida corrente sembra risucchiare i piedi dal basso, andando in una direzione differente, rispetto al molle fluire della fogna. E c’è di più: l’eco di uno scroscio, che confonde tutto il resto dei suoni, compresi il trambusto delle azioni di caccia all’uomo, che proseguono vorticosamente in alto, sul boulevard. C’è un’immensa confusione, che trae in inganno persino il resto della squadra di sentinelle guida.
Con un balzo improvviso Kerrer si ritrae, addossandosi alla parete viscida del canalone; con gli occhi mi invita a fare lo stesso. Così, mentre lo scroscio delle acque reflue si fa ancora più energico, possiamo osservare immobili e in silenzio le sentinelle guida che proseguono il loro pedinamento, nella direzione nella quale io stessa credevo avremmo proseguito la fuga.
Sono esterrefatta. E la mia sorpresa è così evidente, che Kerrer si sente in dovere di spiegare:
– Le valvole di espulsione a pressione le confondono. — con il capo accenna ai corpi viscidi delle sentinelle guida superstiti, che scivolano nel canneto senza accorgersi di noi — Siamo vicini al depuratore di liquidi organici: troppi odori, per le bestiacce. Non riusciranno più a fiutare, almeno per un po’. Ne approfitteremo per squagliarcela.
Nel carosello di sensazioni che ho provato da quando mi sono ritrovata questo bellimbusto di fronte, non si può dire che non vi sia un remoto senso di ammirazione. Eppure non riesco a fidarmi di lui.
– Come fai a sapere tutte queste cose? — chiedo con un candore che non mi appartiene, e senza aspettarmi una risposta.
Di nuovo ci scambiamo un’occhiata, prima di riprendere a correre: stavolta lungo il cordolo della fogna. Raggiungiamo una piccola insenatura, dalla quale provengono una luce biancastra e un fragore di cascata. Dal gorgo della melma, un liquido sorprendentemente limpido defluisce nella stessa direzione, come attratto da una forza magnetica impercettibile. Senza esitare un solo istante, Kerrer si infila proprio lì, e questa — chissà perché – me l’aspettavo. Quel che non potevo aspettarmi è invece lo spettacolo che mi si para davanti agli occhi, non appena anch’io svolto nel cunicolo.
– Dovremo nuotare. – grida Kerrer all’improvviso.
– Che cosa?! – gli grido in faccia di rimando; e così mi riprendo dallo stupore.
Mi scuoto, e scopro che abbiamo dovuto gridare perché dove siamo arrivati c’è un fragore indescrivibile; e scopro che c’è un fragore indescrivibile perché siamo arrivati in prossimità dello scarico suburbano. Qui le acque reflue si tuffano nel collettore, e dal collettore finiscono nel depuratore dei rifiuti organici.
– Ce la fai? – domanda Kerrer.
Ho un moto di stizza, che mi fa venir voglia di strangolarlo con le mie mani. Ma sono attraversata da molti altri dubbi e nuove inaspettate consapevolezze. Tanto per cominciare, sembra che qualcosa o qualcuno mi abbiano condannata a sopravvivere e ad avere ragione a ogni costo di questa assurda fuga… anche se il motivo mi appare oscuro. E’ chiaro che Kerrer gioca un ruolo di primo piano, in questa storia; ma anche la motivazione di questo mi sfugge. Capitolo consapevolezze: tuffata quaggiù, nella melma delle acque reflue, mi sento in trappola come un topo di fogna. Sospiro, digrigno i denti, sorrido, annaspo – non so… Di certo so che i topi di fogna nuotano, e così rispondo che sì, ce la faccio a nuotare, sì.
– Lì dentro? – domanda ancora Kerrer, e punta l’indice proprio sulla bocca del collettore.
– Lì dentro – grido.
V.
L’espressione “lì dentro” indica un condotto di metallo dalle pareti viscide, nel quale due esseri umani, sebbene stretti l’uno all’altra, entrano appena; indica un tubone elicoidale, dalla tenuta e dalla lunghezza non definibili, a guardarlo da qui; indica un fracasso infernale che può essere dato soltanto da un risucchio altrettanto infernale; indica -verosimilmente- la presenza di un “pozzo aspirante con annessa turbina”.
Se avevo avuto difficoltà a farmi un’idea di come fosse fatto il depuratore di liquidi organici, non ho dubbi su come sia fatta —e su come funzioni!- una turbina aspirante.
Un terrore sordo mi attraversa, mentre Kerrer passa alle raccomandazioni del caso.
– Prendi fiato – ordina, – un bel respiro lungo. E tieni le gambe allargate, di modo che gli scarponi facciano attrito sulle pareti del tubo. Io vado per primo: so a che altezza bloccarmi, tu non devi far altro che seguirmi.
– Quella lì è… – blatero più in fretta che posso, ma senza riuscire ad articolare nulla che abbia un senso compiuto — una turbina… è una turbina?
– Sì, e non rimarrà aperta ancora per molto, quindi non perdiamo altro tempo!
– Come faremo a evitare di…
Le mie parole piombano nello schianto del raccordo del subtrasporto. Ce l’abbiamo sopra la testa e nemmeno ce n’eravamo accorti: una lunga striscia semovente oscura il cielo sopra le nostre teste, il fragore dei propulsori inghiotte ogni altro rumore. Per un istante è buio e il condotto è scosso da orribili vibrazioni. Il trasporto scorre via, con la sua miriade di perbene signori adeguatamente e civilmente aerotrasportati, abbandonando dietro sé solo il tanfo orrido della combustione. E’ il momento, non c’è dubbio: è questo il momento per sparire nel collettore.
Guardavo in su, senza sapere perché. Ma Kerrer guarda fisso me, con uno strano senso di attesa. Nella penombra, attraversata dai lampi del convoglio che urta sui binari, il suo volto appare e scompare a intervalli regolari. Esitare ancora sarebbe da matti: dai finestrini del subtrasporto il canalone è ben visibile, e due figure che si muovono a stento come noi difficilmente potrebbero passare inosservate. Senza contare le sentinelle guida che fra poco, una volta richiusa la turbina, torneranno a fiutare la nostra presenza.
Decisamente è il momento. Finalmente ricambio l’occhiata del mio eroe-salvatore. Cerca dentro di me: cerca il bel respiro lungo che mi ha raccomandato. Cerca l’ok, il via al salto. Cerca me. Mi stringe con il solito braccio attorno alla vita e, sempre fissandomi, si lascia cadere. Giù, nel collettore, verso la turbina, verso lo stagno refluo, verso l’ignoto.
(2-continua)