Il mio intervento non mira affatto a fornire una disamina esaustiva e rigorosa del pensiero filosofico di Ipazia e neppure ad esaminare nel dettaglio i caratteri specifici di quella che si suole definire “corrente neoplatonica”.
Vorrei piuttosto focalizzare la mia attenzione sulla frequente definizione di Ipazia come “martire della libertà di pensiero” nonché sull’interpretazione veicolatane dal pensiero di genere, nei suoi evidenti limiti teorici.
Tutta la vita di Ipazia, fu votata al pensiero in senso lato e in senso specifico, settoriale: ciononostante, Ipazia non condusse una puntuale disamina critica delle opere di Platone e Plotino, non ne fu cioè un’esegeta, sebbene ereditò una sorta di “purezza” dal e del platonismo, specificandone perfetto connubio tra scienza e filosofia teorizzato da questa corrente di pensiero.
Di seguito, fornirò solo alcune delle più rilevanti testimonianze tratteggiate su di lei: in un epigramma, Pallade scrive di lei: «[q]uando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, infatti verso il cielo è rivolto ogni tuo atto»1.
Questo passo sottolinea da un lato la sua estrema tensione verso la filosofia, quale trascendenza e aspirazione al “cielo” e dall’altro il suo agire concreto, la pratica. Ipazia si dedicò, infatti, allo studio della filosofia come a quello delle arti pratiche, dell’astronomia e delle matematiche.
Damascio scrive di lei «gettandosi addosso il mantello e uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo»2. Socrate Scolastico rilevava: «la città a buon diritto la amava e la ossequiava, e i capi prima di prendersi carico di questioni pubbliche, erano soliti andare da lei»3.
Damascio precisa peraltro che oltre che nell’arte d’insegnare questa si distinse altresì nella virtù pratica: era, dunque, non solo maestra di chiara fama, ma anche insigne esponente nella vita politica di Alessandria.
Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della sua vita, risiede proprio nella sua inclinazione al pensiero libero e inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta come problematizzazione e interrogazione del circostante. Seguace di un sistema eclettico, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici, che si diffusero dal III al V sec., professavano infatti la fusione di tutte le chiese in un unico organismo, a sfondo più filosofico che teologico, più intellettuale che ecclesiale: la tendenza erudita, che aveva gradualmente conquistato le scuole, era divenuta infatti preponderante, ponendo in secondo piano la speculazione prettamente metafisica.
Formalmente, le possibilità d’intesa col cristianesimo sembravano essere maggiori che altrove, ma proprio la sensazione che questa forma di neoplatonismo potesse costituire un’alternativa valida al cristianesimo, ne faceva dei cristiani i nemici più accesi, poiché quest’ultimi mal digerivano l’accentuato interesse del neoplatonismo per le questioni di carattere scientifico.
Dopo aver introdotto il ruolo storico e contestuale di Ipazia, vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di genere si impadronirono della sua figura, più per il suo dichiarato valore simbolico che per quello squisitamente teorico, impiegandone appunto la summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto “personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile.
Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il pensiero di genere si “impossessa” – nel vero senso della parola – di storiche figure femminili, al precipuo scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile. Ancora oggi, numerose teoriche del pensiero di genere discutono della presenza e dell’accesso delle donne agli spazi pubblici, che, arendtianamente, si interpretano come luoghi dell’agire, in cui ciascuno manifesti il proprio “chi”, “luoghi”, appunto, come la politica, la ricerca, la scienza.
Per tentare di comprendere ciò che induce le teoriche del pensiero di genere a “sfruttare” il pensiero e la biografia di alcune “grandi del passato”, fra cui, appunto la stessa Ipazia, tornerò ad analizzarne ulteriormente, seppur stringatamente, alcuni racconti sulla sua vita, interpretandoli tuttavia alla luce delle categorie specifiche del pensiero di genere.
Socrate Scolastico, come si è visto, ne elogiava la parrhesia, intesa come libertà interiore che, tuttavia, si manifesta costantemente nell’atto, ovvero nella “parola pubblica”. La sua libertà di parola e azione è “sacra”, sia perché corrisponde alla sua determinazione “a parlare secondo verità”, sia perché in tal senso la parola diventa ulteriore e differente autorità, trasgredendo l’ordine imposto dal genere maschile, di tradizione secolare, e che in quegli anni fungeva da modello di riferimento per la costituzione della Chiesa.
Gli impedimenti all’accesso della donna nello spazio pubblico, scaturivano, in quell’epoca, soprattutto dalla definizione elaboratane dall’ordine patriarcale: lo spazio pubblico coinciderebbe infatti, secondo questa prospettiva, con lo spazio riservato esclusivamente agli uomini. L’ostacolo che impedisce l’azione delle donne nello spazio pubblico acquisisce pertanto un carattere marcatamente simbolico e necessita, di conseguenza, di un’opportuna presa di coscienza. Il gesto libero mira a far vacillare la costruzione maschile: come afferma ancora Socrate scolastico, per Ipazia «non era motivo di vergogna […] lo stare in mezzo agli uomini»4 e dunque il suo agire le permette di ridisegnare uno spazio specifico nel quale la donna può muoversi.
La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Ipazia diventa cosi un esempio di come, per dirla con Carla Lonzi, il destino imprevisto del mondo corrisponde ad un ricominciamento del cammino, per percorrerlo nella prospettiva della donna, intesa come soggetto agente. A sua volta, la Zamboni puntualizza che Ipazia rappresenta quella forza femminile capace di rinominare il mondo attraverso i propri sogni e le proprie azioni, cioè, heideggerianamente, riprendendone possesso attraverso la parola.
Ci sono altri episodi della sua vita che sono stati utilizzati per sottolineare l’identità di genere di Ipazia: si narra che, di fronte ad un allievo che si era invaghito di lei, Ipazia lanciò la sua pezza sporca di sangue mestruale e gli disse: «questo, dunque, ami, o giovane, niente di bello»5.
Le femministe, a loro volta, intravedono, in questo gesto, quello della donna capace di “liberarsi” del suo corteggiatore, con creatività, intelligenza e coraggio. Personalmente, sono piuttosto dell’avviso che il gesto in oggetto possa essere interpretato in chiave platonica e comunque squisitamente filosofica: Ipazia intende mostrare la vera natura della bellezza, inducendo il suo allievo a ritrovare il giusto rapporto con la sua maestra e trasformando la sua passione per lei in amore per la verità. Al contrario, il pensiero femminista vi intravede esclusivamente la rivendicazione della propria identità di genere. Mostrare il proprio sangue diviene una sorta di presa di coscienza di ciò che un donna è, di ciò che si da di una donna insieme al suo sesso: né bello né brutto, è un tratto del suo corpo indipendentemente dalla sua volontà. L’essere donna è un dono che, per sua definizione, non si può rifiutare, un dato di fatto che stimola e deve stimolare la conoscenza di sé e del proprio corpo. Quel gesto, che probabilmente fu fatto per mostrare come un filosofo che aspiri alla purezza non possa desiderare l’amor carnale, diventa dunque simbolo della rivendicazione femminista del proprio corpo.
Il sangue mestruale, che nella cultura greca, cristiana ed ebraica, rappresenta la materia che deve essere occultata, perché vile, sporca, fonte di male e dolore, diviene, peraltro, per i cristiani la giustificazione dell’esclusione delle donne dal sacerdozio e da qualsiasi forma di ministero. Di contro, le vergini, per la cultura cristiana, sono donne pure, che impedivano alla lingua qualsiasi parola discordante, agli occhi qualsiasi sguardo sfrontato, alle orecchie suoni sconvenienti, indossando abiti modesti e non lasciando trasparire il riso dal volto, perché create esclusivamente per essere d’aiuto all’uomo6. Per le femministe, Ipazia, con il suo gesto, frantuma quest’ordine, entrando nello spazio pubblico, storicamente maschile, attraverso l’affermazione della razionalità e attraverso la parola, scontrasi con l’ideale femminile del tempo.
Per quanto riguarda la sua morte, le femministe sono tentate dall’intravedere, nella sua uccisione, l’ennesima espressione del crimine perpetuatosi, nel corso della storia, per mano della mentalità patriarcale.
In quest’ottica, il fatto che Ipazia fosse donna costituisce un dato imprescindibile sia per comprendere le modalità concrete della sua morte, sia per spiegare la sua importanza simbolica come martire del pensiero.
In prima istanza, occorre chiarire che, nell’ottica di genere, la definizione di “natura della donna” si radica nel rapporto di dominio e subordinazione fra uomo e donna, che peraltro si traduce in un preciso intento. È dunque per motivi strettamente politici che i Padri della Chiesa avrebbero legittimato un’ideologia oppressiva nei riguardi delle donne, seppur in nome di Dio. Sebbene non ne furono gl’inventori, quest’ultimi assegnarono al patriarcato una dimensione cosmica: la donna che osasse fuorviare dal ruolo assegnatole, per affermare la propria identità, sarebbe stata immediatamente colpita e punita della società patriarcale.
Per il pensiero di genere, il vero potere della donna risiede piuttosto in quello di conoscere il mondo, saper agire in esso, nella piena consapevolezza della propria identità. Così Ipazia, esercitando proprio questo potere e parlandone agli altri, avrebbe confermato ostinatamente il suo ruolo di donna nella società. Questo atteggiamento avrebbe a sua volta atterrito la Chiesa, intendo, soprattutto il fatto che la si ascoltasse e la si amasse.
Ipazia sarebbe dunque stata eliminata perché reputata un elemento di palese disturbo, derivante dalla sua conclamata indipendenza, dall’antagonismo fra poteri – quello imperiale e quello ecclesiastico – che peraltro s’incarnavano nell’esercizio di due uomini, Oreste e Cirillo, impedendo così che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un compromesso per una conveniente alleanza. A ciò si aggiunga un ulteriore senso di rivalità provato dall’allora capo della Chiesa alessandrina nei confronti di quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, esercitava l’autorità di una sacerdotessa. La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorità della loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere politico.
Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad una strega, come definita nel Malleus maleficarum, sebbene, in realtà, non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare l’altro con le sue arti.
Fu Cirillo, vescovo e patriarca di Alessandria, ad ordirne il martirio; Socrate scolastico e Filostorgio raccontano che la sua elevatissima cultura sorgeva, in primo luogo, dalla sua rinomata libertà di pensiero e azione. Fu dunque questa la causa della sua uccisione, la ragione per cui Cirillo la credette un ostacolo al suo potere.
La sua morte fu brutale, si cercò di annullare il suo corpo smembrandolo, come a voler cancellare per sempre la sua figura, il suo pensiero. La mutilazione del suo corpo è per le femministe sinonimo di accanimento contro questa filosofa proprio in quanto donna.
Anche questo è un esempio della tentazione femminista di impossessarsi della figura di Ipazia, come martire non del pensiero in quanto tale, ma del pensiero di genere.
A questa tentazione, una storica italiana della tarda antichità, Silvia Ronchey, ha risposto con un’analisi storica che spiega il crimine in esame nei termini di un’effettiva rivalità tra la figura del vescovo e quella del filosofo in senso lato. La Ronchey nomina Ipazia al maschile.
Interpretare Ipazia sulla scorta delle categorie femministe diventa così, secondo la Ronchey, un’ulteriore conferma della fissità dei ruoli, in quanto, così facendo, si rischierebbe di privilegiare esclusivamente il suo martirio piuttosto che il suo pensiero, come se, cioè, Ipazia fosse importante solo perché “donna martire” e non martire del pensiero tout court, al di là della sua caratterizzazione e differenza di genere.
In questa sede, ho cercato di fornirvi, un esempio di come, spesso l’ideologia femminista utilizzi le proprie categorie per interpretare figure storicamente rilevanti per le proprie scoperte, per il proprio pensiero, per il proprio ruolo nella società, per il loro rapporto tra Chiesa e potere, introducendovi, seppur per grandi linee, la biografia di Ipazia e il suo ruolo nel pensiero di genere.
Al contempo, da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di genere?
Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia, sinora, o perlomeno prima dell’uscita di Agorà in Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla sua carica simbolica.
D’altra parte, la libertà di pensiero non può essere ridotta esclusivamente ad una rivendicazione legata al genere, all’identità sessuale, per quanto quest’ultima occorra pure ad assegnare certe significative differenze: sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia imperante.
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