di Nick Hornby
Ho preso The plot against America , mi sono sentito un po’ come il bravo lettore che coscienziosamente si inoltra nell’elenco del “nuovo e degno di nota”. Ne sapevo abbastanza per organizzare uno di quei dinner party che gli opinionisti inglesi sono soliti deridere. Sulla stampa inglese si fa invariabilmente riferimento a “dinner party a Islington”, perché, si dice, è lì che vive “l’intellighenzia liberal” — detta anche “radical chic” — e si parla del nuovo Roth mangiando focaccia, che è un tipo di pane che, a quanto pare, piace molto ai “radical chic”.
Be’, io vivo a Islington (non c’è un esame di ammissione, ovviamente), non sono mai stato a un dinner party del genere e questo avrebbe potuto essere il mio momento per lanciare un salotto letterario. Avrei potuto comprare focaccia e chiedere alla gente mentre si toglieva il cappotto: “Avete letto l’ultimo Roth?”. E loro avrebbero risposto: “Cazzo hai detto?”, se erano miei amici, oppure “Sì, non è splendido?”, se era gente che non conoscevo. In ogni caso, adesso è troppo tardi.
I libri sono usciti da un sacco di tempo. È tardi per un dinner party e anche per far colpo sui lettori di questa rubrica. Ci ha pensato lo Spree con le sue illustrazioni. Avevo l’opportunità di farmi bello e loro me l’hanno rovinata, come sempre.
La cosa che più mi irrita è che avevo qualcosa da dire su The plot against America, cosa che non succede quasi mai.
Le parole più vere e più sagge mai scritte sull’attività della recensione le ha dette Sarah Vowell nel suo libro Take the canolli. Dovendo recensire un album di Tom Waits per una rivista, conclude scrivendo che “le ballate le piacciono abbastanza”. Quel che le serve sono un altro migliaio di parole che precisino quest’accecante illuminazione. E questo è più o meno quel che provo per un sacco di cose che leggo o ascolto, quindi il rendermi conto di aver davvero qualcosa da dire sul romanzo di Roth mi ha un po’ sconvolto.
Avrete già sentito opinioni simili un migliaio di volte, ma non ho opinioni tanto spesso da potermi permettere di lasciar perdere. Mettendola così, la mia avrà il pregio della novità e della freschezza: il mio umile e parziale punto di vista è che il romanzo fantastorico Fatherland, di mio cognato, come opera di fiction è più riuscita. È la prima volta che lo sentite dire, vero?
Perché anche se avete sentito qualcuno paragonare il libro di Roth a Fatherland, non avrà certo usato “mio cognato”. Avrebbe potuto dirlo mio fratello, ma scommetto che non ha letto Roth. E probabilmente ha mentito anche quando ha detto di aver letto Fatherland.
The plot against America è una brillante e agghiacciante dissertazione sull’America del ventesimo secolo, ma non sono sicuro che funzioni come romanzo, semplicemente perché al lettore si ricorda continuamente che è un romanzo.
Il libro racconta quel che sarebbe successo negli Stati Uniti se il filofascista Charles Lindbergh avesse vinto le elezioni presidenziali nel 1940, ma per lunghi pezzi sono gli eventi della storia alternativa a portare avanti la trama e ci si ritrova a domandarsi perché vengono raccontati. Perché se Lindbergh è diventato presidente degli Stati Uniti nel 1940 — e questo libro ci chiede di credere che sia accaduto, ci chiede di abitare un mondo in cui questo fa parte della nostra storia — allora è ovvio che dovremmo sapere già cosa è successo, no?
È ovvio che sapremmo del dilagante antisemitismo e dei conseguenti tumulti, del ruolo eroico svolto dal sindaco LaGuardia, e del destino di Lindbergh, no? Continuiamo a leggere, chiaramente, perché non sappiamo e vogliamo sapere; ma è qualcosa che va contro la naturalezza del romanzo. Quando Roth scrive, per esempio, che “le elezioni di novembre non erano state equilibrate… Lindbergh ottenne il 57 per cento dei voti”, ci fornisce informazioni che non abbiamo; ma nello stesso tempo siamo invitati a immaginare di averle già. E allora perché ci vengono fornite di nuovo?
In Fatherland, mio cognato — Harris, come suppongo di doverlo chiamare qui — adotta il punto di vista secondo cui in un romanzo fantastorico lui deve immaginare non solo gli eventi storici alternativi, ma anche la coscienza storica del suo lettore. In altre parole, gli eventi della storia alternativa fanno da sfondo, e le informazioni che ci servono per capire cosa è successo (in Fatherland i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale) trapelano poco a poco, in maniera trasversale, mentre l’autore procede con la trama.
Roth sceglie di mettere il suo “come sarebbe se” al centro del libro, e così The plot against America finisce con l’apparire un lungo saggio. Il fatto è che non so neanche se me ne importa qualcosa. Chi non vorrebbe leggere un lungo saggio di Roth? È solo nelle recensioni di libri sui giornali che i difetti di questo tipo riducono il gradimento, e questo perché i recensori non possono dire “le ballate mi piacciono abbastanza”.
[Questa recensione è parte della rubrica settimanale che Nick Hornby tiene su The Believer, lo splendido periodico animato da David Eggers (ora gli articoli di Hornby sono stati raccolti nel libro The Polysyllabic Spree), e la cui traduzione italiana viene pubblicata da Internazionale]