di Raúl Zecca Castel
[Il seguente articolo è stato pubblicato sulla rivista cartacea In Dialogo del dicembre 2013, numero 102]
Repubblica Dominicana: dove il mare è sempre vicino e le montagne non sono mai lontane. Così recita uno dei tanti slogan pubblicitari del paese rivolto al turismo internazionale, sempre più avido di bellezze esotiche a patto che queste non implichino troppa fatica. Ma oltre le immagini da cartolina che ricoprono i pieghevoli delle agenzie di viaggio di tutto il mondo, quelle immagini così seducenti e incantevoli che ritraggono la prima città del Mondo Nuovo, Santo Domingo, del suo antico centro coloniale, così come delle innumerevoli spiagge di sabbia bianca e finissima che si stendono per chilometri a baciar le acque cristalline e sempre tiepide del mar dei Caraibi, al di là del volto più attraente e conciliante della sua natura selvaggia e incontaminata, al di là di tutto ciò, esiste una realtà ben diversa, tanto ignota quanto drammatica. È il volto scuro dell’entroterra, delle sterminate piantagioni di canna da zucchero che si perdono a vista d’occhio, dei bateyes, piccoli agglomerati di baracche dispersi tra i campi, creati per ospitare i lavoratori durante la stagione del raccolto e diventati, con il passare del tempo, vere e proprie comunità invisibili, baluardi della povertà e dell’emarginazione; è il volto scuro, anzi nero, dei braccianti haitiani; perché a vivere in queste terre di nessuno e a svolgere questo lavoro incredibilmente duro e pericoloso sono loro, i migranti haitiani, scappati a migliaia dalla miseria del paese più povero e sventurato del continente americano con la speranza di trovare oltre frontiera un modo per sopravvivere e mantenere famiglie spesso troppo numerose.
Tragedia umana che ogni anno si rinnova, mietendo con altrettanta regolarità i sogni di riscatto di quanti si trovano presto a fare i conti con una vita di stenti, fatica e tanta solitudine. Senza documenti e con un salario che a malapena permette loro di procurarsi un pasto giornaliero, la maggior parte dei lavoratori finisce per trascorrere la propria vita qui, lontano dall’affetto di cari che non rivedranno mai più.
In seguito al picco di produzione degli anni ’70 e ’80 il mercato internazionale dello zucchero subì un vero e proprio collasso economico. La Repubblica Dominicana, che assieme a Cuba ne rappresentava il principale paese esportatore, da una media annuale che superava il milione di tonnellate si ridusse a produrne meno di 300 mila. La grave crisi cui dovette far fronte il Consejo Estatal del Azùcar (CEA) si risolse in pochi anni con la decisione affittare la quasi totalità delle piantagioni e i rispettivi zuccherifici statali a diversi investitori privati, perlopiù a capitale straniero.
Tra questi si distinse in modo particolare la compagnia guatemalteca Campollo, che dopo essersi aggiudicata il maggior numero di terre, strinse un proficuo accordo commerciale con il gruppo Vicini, famiglia di origini italiane tra le più ricche e potenti del Paese, con interessi economici in svariati settori, dal turismo alla finanza, dal mercato immobiliare ai media, oltre che nell’industria dello zucchero, di cui possiede la più grande e antica fabbrica di raffinamento, l’Ingenio Cristobal Colòn, attivo sin dal 1921. Ciò che ne risultò fu a tutti gli effetti una situazione di monopolio oligarchico e, a pagarne letteralmente il prezzo, come prevedibile, furono i braccianti haitiani.
Molti di questi, dato il calo di lavoro – e di salario -, abbandonarono le piantagioni di canna per stabilirsi nei vicini centri urbani, cercando di che vivere nel lavoro informale, vendendo prodotti d’artigianato o frutta di stagione da loro stessi raccolta, e approfittando del crescente turismo. Molti altri, invece, rimasero nei bateyes, perché, nonostante tutto, un po’ di lavoro c’era, o perché lì avevano messo su famiglia, o ancora perché non disponevano nemmeno del denaro sufficiente per pagarsi il viaggio per andarsene, o perché la speranza di trovare una vita migliore era già stata tradita una volta e non avevano più la forza per crederci di nuovo, o, molto spesso, per tutti questi motivi insieme. Così sono migliaia gli haitiani che ancora popolano i tanti bateyes dispersi tra le immense piantagioni di zucchero, dove lavorano più di dieci ore al giorno, tagliando anche 3-4 tonnellate di canna per l’equivalente di pochi dollari, appena sufficienti per una ciotola di riso e una manciata di fagioli, quanto basta per tirare avanti un altro giorno.
Senza più sogni, le notti scorrono veloci dentro i barracones, vere e proprie baracche in legno, lamiera o cemento, composte da una serie di stanze singole, spesso prive di finestre, il cui unico arredamento consiste di quanti più letti a castello possono starci. Ma non di rado ci si accontenta anche di un semplice materasso in gommapiuma steso sul pavimento. Dormono fino a 7-8 braccianti in un ambiente che spesso non raggiunge i 10 metri quadrati, senza luce elettrica, acqua corrente e gabinetto, in condizioni igienico-sanitarie indescrivibili. Qui le giornate iniziano presto, ben prima del canto del gallo.
“Ci svegliamo alle 4 del mattino”, mi spiegano, “alle 5 passa il pullman della compagnia a prenderci e alle 6 stiamo già tagliando la canna”. Il lavoro si protrae anche per 12 ore, sotto il sole cocente così come sotto i frequenti temporali che abbondano con l’inizio della stagione delle piogge. Sono passati solo pochi giorni da quando un fulmine ha carbonizzato un lavoratore haitiano di 54 anni, colpito in pieno mentre stava tagliando canna con il suo machete. Tutti continuano a ripetermi che è un lavoro duro, sfiancante e pericoloso”.
“Ci vedi partire belli dritti la mattina e quando si fanno le 9 o le 10 siamo già tutti tremolanti…perché partiamo digiuni, senza far colazione e senza dietro niente da mangiare…è il diavolo stesso che ci ha portati qui!”, si sfoga Pedro, che incalza: “tutto questo è una schifezza! Quando finirà la schiavitù in questo paese? Qui c’è la schiavitù ancora…con una parvenza democratica…ma quale maledetta democrazia soffrendo la fame della storia?…Democrazia con fame? Democrazia con miseria? Democrazia con tutti i problemi del mondo? Se non cambia niente qui succederà qualcosa…non lo voglio io, non lo vogliono loro, non lo vuole nessuno…ma qui stanno provocando…perché non si sopporta più! Bisogna pagare il lavoratore, perché per il milionario e per l’alto funzionario qui c’è denaro! È per noi che non c’è! Siamo noi che facciamo il lavoro duro nei campi, nella canna! Siamo noi! Non sono loro a sudare! Siamo noi che alle 4 del mattino siamo già in piedi…e che non possiamo vedere nemmeno il rendimento del nostro lavoro?! Che altri vengano a beneficiarsi del sudore della nostra fronte?! È una vergogna!”. “Stanno abusando di noi lavoratori”, aggiunge un ragazzo. E come dargli torto? Stremati dalla fatica, dal caldo e dalla fame, quando la sera i braccianti rientrano al batey, tutto quel che hanno guadagnato finisce direttamente al negozio degli alimentari, dove alcuni addirittura si indebitano.
Il sistema di retribuzione del consorzio Campollo-Vicini infatti è alquanto curioso. Ufficialmente i lavoratori vengono pagati per tonnellata di canna tagliata, ma il prezzo non è chiaro a nessuno. Alcuni dicono che per quella quantità ricevono 135 pesos (2,35 euro), eppure altri sostengono che ne ricevono 125, ed altri ancora solo 110. Infine, qualcuno assicura che sono 100 i pesos pagati per tonnellata. La verità, come confessano rassegnati tanti altri, è che non si sa: “Nessuno lo sa…nessuno…quando arriva il sabato…andiamo al Centro Paga e quello che ci danno prendiamo…”.
Centro Paga, Batey Nuevo, Quisqueya. A intervalli regolari di circa 20-30 minuti decine di braccianti haitiani vengono fatti scendere dagli autobus dell’impresa all’interno dell’area recintata in cui si trova la piccola costruzione in cemento adibita ai pagamenti, ben protetta da alcuni agenti di polizia e sicurezza privata. Grazie alle conoscenze del mio accompagnatore, un colonnello di guardia mi concede il permesso di entrare, così senza perdere altro tempo comincio a scattare qualche fotografia. Intanto, i lavoratori che si apprestano a ricevere il frutto delle ultime due settimane di lavoro, consegnano le loro tessere identificative a un addetto della compagnia che a sua volta si incarica di spartirle fra i 3 impiegati seduti dietro al vetro di protezione dei rispettivi sportelli.
In men che non si dica ha inizio il tanto atteso appello. Uno ad uno i lavoratori vengono chiamati a ritirare la quincena, e altrettanto velocemente il malcontento si diffonde tra i braccianti. Occhi increduli fissano la ricevuta per minuti interi in cerca di qualche spiegazione che chiarisca l’equivoco, ma la realtà è ben scritta su quel piccolo foglio rosa. Tuttavia ci vuole poco per rendersi conto di come questa realtà sia molto diversa da quella ufficiale. Di tonnellate infatti nemmeno l’ombra. Ciò che viene riportato sulla ricevuta invece è il numero dei bocados, letteralmente ‘bocconi’.
Così, un giovane lavoratore mi spiega che quando tagliano la canna, questa va raggruppata in mucchi di medie dimensioni comunemente chiamati bocados affinché la gru della compagnia possa poi raccoglierla con maggiore facilità e dunque caricarla sui camion che la trasportano alla fabbrica. In teoria, tre bocados equivalgono ad una tonnellata. Questa almeno era l’equazione stabilita dai Campollo prima che iniziasse la stagione del raccolto. A distanza di poche settimane, tuttavia, l’impresa sembra averci ripensato. Adducendo come giustificazione la difficoltà di stabilire l’esatta dimensione del mucchio di canna, ora ci vogliono anche anche 6 o 7 bocados per fare una tonnellata. Per questo, anche se Edoardo dice di averne accatastati 50 di bocados, sulla ricevuta ne sono riportati solo 36. Eppure non sembra meravigliarsene più di tanto, così gli chiedo se è la prima volta che capita. “No! Sempre succede! Sempre…non mi danno mai quello che mi spetta…”. Accanto a lui altri due ragazzi contrariati sostengono di aver tagliato rispettivamente 110 e 146 bocados, ma la ricevuta che agitano con rabbia ne attesta appena 99 in un caso e 126 nell’altro. “Questa gente sono dei ladri”, urla qualcuno prima di confidarmi che “c’è un ragazzo, là, che sulla ricevuta c’è scritto 2000 e passa pesos, e quando ha aperto la busta ne ha trovati 1500…”. Anche questo sembra essere all’ordine del giorno. Alcuni infuriati continuano a ripetere che non hanno intenzione di accettare la busta, che intendono reclamare, ma qui al centro paga nessuno è autorizzato a dare spiegazioni. Per le contestazioni è necessario recarsi all’apposito ufficio di Quisqueya, il lunedì; cosa che non solo implica perdere un giorno di lavoro, ma anche sostenere le spese del viaggio, per poi sentirsi rispondere, nel migliore dei casi, che la ricevuta parla chiaro e restare dunque letteralmente a bocca asciutta.
“Se tu dici una cosa, loro dicono il contrario. È la tua parola contro la loro. Ma la loro vale di più. Allora è meglio stare muti, come i pesci, non dire niente. Ma non è che io sono stupido! Capisci? Non è che uno le cose non le vede. Gli occhi vedono, ma la bocca ben chiusa…ci sono tante cose che non vanno bene qui”.
È Benito a parlare. Che poi aggiunge: “non si può dire niente perché la canna è loro, le terre sono loro, noi lavoriamo per loro, e dobbiamo accettare quello che dicono loro…”. Mentre intervisto altri lavoratori avverto alcuni movimenti tra gli addetti ai pagamenti. Intuisco che la mia presenza comincia a risultare poco gradita, e in effetti trascorrono pochi minuti quando un agente di sicurezza mi afferra per un braccio e in tono sommesso mi assicura – ma sembra più un’intimidazione – che “va bene così”, dunque, molto cortesemente, mi invita ad uscire.
Forse è vero. Forse va davvero bene così. Anzi, va proprio bene così. Certo, non per le migliaia di migranti haitiani che sopravvivono giorno dopo giorno in condizioni di neoschiavismo, soffrendo la fame, gli abusi sul lavoro e le violazioni dei più elementari diritti umani. Non per i loro figli, cresciuti alla scuola della miseria, vittime facili di malnutrizione e malattie, destinati a ricevere come unica eredità un conto in debito al negozio degli alimentari e un machete con cui illudersi di poterlo saldare. Non per le loro mogli, diventate madri quando ancora bambine, invecchiate in fretta mentre risvegliavano dal sogno di una vita migliore oltrefrontiera e ormai rassegnate ad un’esistenza infame.
Non per loro, certo, che sono gli ultimi tra gli ultimi. E nemmeno per il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti, che proprio questo venerdì 27 settembre, ha pubblicato un dossier nel quale sostiene come la Repubblica Dominicana abbia violato gli accordi del Trattato di Libero Commercio CAFTA-DR sottoscritto nel 2007, poiché non rispetta il capitolo relativo alle direttive sul lavoro (salari minimi, ore di lavoro, sicurezza e salute; età minima per l’impiego di bambini; forme di lavoro forzato o obbligatorio). Ma in fondo che importa, se va così bene per gli affari della famiglia Campollo e della famiglia Vicini? Che importa, se va così bene per i vari governi che si sono succeduti alla guida del paese nell’ultimo secolo, dal momento che non hanno mai avuto la preoccupazione di pagare un solo centesimo né di assicurazione medica, nonostante i continui incidenti sul lavoro, né di pensione di vecchiaia? Che importa, se va così bene per il mercato internazionale, che acquista zucchero dominicano a buon prezzo senza curarsi dell’immenso costo umano che questo implica per i lavoratori?