di Maurizio Brignoli
[Sono totalmente in disaccordo con l’interpretazione che dei testi marxiani e – ciò che più conta – dei movimenti che si ispirarono al marxismo dà il filosofo Costanzo Preve. E tuttavia, questi mi sembrano argomenti: inducono a pensare, a rileggere e a modificarsi. E’ per questo motivo che propongo la recensione di Brignoli al recente saggio di Preve. gg]
L’obiettivo del lavoro di Preve non è quello di sviluppare una nuova interpretazione di Marx, quanto un’interrogazione nell’accezione socratica del termine. Per fare ciò bisogna però tenere presente che le previsioni marxiste novecentesche sull’arresto dello sviluppo delle forze produttive sono fallite e che l’attenzione va invece portata sull’altro polo della dialettica marxiana, costituito dal rapporto sociale di produzione, che si è invece radicalmente imbarbarito. Per parlare di Marx oggi bisogna quindi operare questa sorta di rivoluzione copernicana.
Storicismo, economicismo e utopismo, i tre grandi gruppi di critiche che sono stati rivolti a Marx, costituiscono in realtà la ricaduta fisiologica di tre scoperte fondamentali: la teoria dei modi di produzione, la teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico incentrato sulla realizzazione del plusvalore, la teoria del comunismo come prodotto materiale della dinamica sociale immanente del capitalismo. Due sono le conseguenze fondamentali delle scelte operate da Marx: la rinuncia a fondare filosoficamente il discorso e l’individuazione dell’oggetto teorico da criticare nell’economia politica classica. Si dà filosofia quando le si attribuisce un ambito autonomo di conoscenza, che nel mondo occidentale nasce con Socrate e con l’attribuzione al dialogo di una valenza veritativa che non coincide con ciò che oggi definiamo “scienza”. In che modo i tre effetti degenerativi potevano essere corretti? Non con l’ideologia, che non può criticare sé stessa, né con la scienza, che si basa su una preventiva scelta disantropomorfizzante incapace di sviluppare un’autoriflessione. Sarebbe stato necessario uno spazio filosofico, ma secondo l’autore Marx e il marxismo rinunciarono al valore conoscitivo della filosofia.
Marx operò la scelta strategica di individuare nell’economia politica il terreno privilegiato di critica. La scienza economica nasce però nel Settecento con due fortissimi presupposti filosofici costituiti dalla critica di Locke alla categoria di sostanza e da quella di Hume alla categoria di causalità. La società per Locke non si basa su alcuna sostanza tradizionale, che qui costituisce una metafora di corporazioni e statuti nobiliari, bensì si costituisce con un contratto sociale fra proprietari. Con Hume si ha un’ulteriore evoluzione: l’economia politica non può nascere su basi contrattualistiche, che implicherebbero un primato della politica sull’economia, e quindi la società non è causata da nulla e si costituisce sulla base dell’armonica associazione fra domanda e offerta di beni e servizi.
La filosofia politica moderna nasce invece con la critica di Hobbes ad Aristotele. Si tratta in realtà di una mossa autoritaria, che sostituisce alla filosofia politica aristotelica, nata da una premessa dialogica e democratica, l’“autorità” del paradigma meccanicistico estrapolato dalla concezione delle scienze naturali del tempo. Il problema è che l’individuo egoistico di Hobbes non poteva fungere da supporto antropologico all’economia politica e andava rabbonito con l’etica smithiana della simpatia; per scambiarsi merci bisogna prima simpatizzare con l’altro termine dello scambio, in quanto ci si deve “immedesimare” nei suoi bisogni. L’etica del capitalismo si basa allora non sull’egoismo, ma sulla simpatia. Questa etica presuppone però uno sfondo naturalistico dei bisogni che non è quello del vero capitalismo, ma quello di un capitalismo originario pienamente utopico. Comte e Hegel rifiutarono l’economia politica come fondamento della loro teoria sociale, interpretandola correttamente come un sapere parziale che vuole porsi come totale e fondativo.
Marx agì correttamente assumendo la centralità dell’apparato categoriale dell’economia politica come base per il suo rovesciamento comunista. Scegliere però di partire dal rovesciamento dialettico dell’economia politica classica come riflesso effettivo della “realtà alienata” del capitalismo significava pur sempre porsi sul suo stesso terreno comportando, come conseguenza ultima, l’economicizzazione del conflitto di classe e una subalternità culturale complessiva. L’inevitabile effetto ideologico di economicismo sarebbe stato curabile in quello spazio filosofico che Marx negò.
Il prezzo da pagare per una scelta epistemologicamente corretta e razionale è stato così l’approvazione dell’economicizzazione del conflitto nel campo politico e le ricadute storicistiche, economicistiche e utopistiche in quello teorico. Il rifiuto di attribuire una forma di conoscenza veritativa alla filosofia avvicina Marx più a Comte che a Hegel, anche se questa implicita approvazione della tesi positivistica del “superamento” della filosofia nella scienza avviene conservando un fuorviante linguaggio hegeliano. D’altro canto Hegel, affermando che il primo compito della filosofia è la conoscenza del nulla assoluto, è uno dei filosofi moderni che meglio hanno inquadrato il tema del nichilismo; e Marx, trasformando la premessa della conoscenza del nulla assoluto in pensiero della negatività dialettica strutturale di ogni dinamica sociale trasformativa, resta pur indirettamente un suo allievo filosofico. Il rifiuto del valore veritativo della filosofia è l’anticamera del possibile nichilismo e solo la pratica costante della conoscenza filosofica avrebbe potuto evitare al marxismo di oscillare fra i due poli convergenti della pseudo-scienza e della quasi-religione.
Ciò che più conta nell’analisi marxiana della religione è la critica delle ipostasi, dei raddoppiamenti falsamente universalistici di realtà particolari, che funge da anticamera alla critica dell’economia politica, le cui categorie ipostatizzano concreti rapporti di produzione capitalistici in rapporti di produzione universali ed eterni. L’economia politica è infatti l’unica e vera fondamentale religione del capitalismo. D’altro canto, ridurre la religione a produzione di ipostasi è limitativo: essa nasce infatti da una necessaria interruzione del Tempo che gli uomini devono attuare per costituirsi in società. Il Tempo è la radice del nichilismo. Interrompendo il tempo e immobilizzandolo in un’Origine, gli uomini edificano un Soggetto che si propone un Fine e così creano la religione e costituendo la religione costituiscono la società. Come correttamente compreso da Darwin e Kautsky, è la morale a costituire la religione e non il contrario, le norme morali nascono per facilitare la sopravvivenza del gruppo nelle difficili condizioni della società primitiva e la religione interviene per dare loro una fondazione originaria inattaccabile dallo scorrimento nichilistico e distruttivo del tempo. Senza la necessaria interruzione del tempo storico e della sua corrosione nichilistica, senza cioè la costituzione religiosa immaginaria dell’Origine non ci può essere società e socialità.
Il marxismo ortodosso, dal 1889 al 1989, si costituisce come quasi-religione, attribuendo alla Storia un’Origine, un Soggetto e un Fine e non fa che mettere al posto della teologia trascendente lo storicismo immanente. Questa formazione ideologica è un’unitaria forma di falsa coscienza, formata dalla combinazione di una quasi-religione e di una pseudo-scienza, basata sulla trinità atea costituita da Storia, Classe e Partito. Si ha una “grande narrazione” che racconta l’inesistente storia di un soggetto pieno (il proletariato) che garantisce con la permanenza temporale della sua identità iniziale (rivoluzionaria) la realizzazione finale (il comunismo) del suo progetto originario (la comunità umana riconciliata e disalienata). La quasi-religione è così un’ideologia storicista che si manifesta empiricamente come grande narrazione a lieto fine.
Il modello marxista incorpora elementi “scientifici” ma non è una “scienza” secondo il modello delle scienze naturali moderne. Il marxismo, secondo Preve, è una “scienza filosofica” nell’accezione di Fichte e di Hegel, un “sistema idealistico” cui si aggiunge un paradigma concettuale “scientifico” che viene indebitamente definito “materialistico”.
Lo sviluppo della scienza consiste anche nell’elaborazione di schemi immaginativi e concettuali capaci di garantirci l’equilibrio emotivo nel rapporto quotidiano con la realtà e, mossa dalle nostre ansie e conflitti interiori, la genesi della scienza è esattamente la stessa della religione. Religione e scienza sono due risposte diverse alla comune esigenza di dare un senso al mondo, che di per sé ne è privo. Il nichilismo sta nel fatto che le due forme convergenti, omogenee e complementari della religione e della scienza non possono essere oggetto di autoriflessione filosofica, democratica e dialogica e restano autoritarie ed eteronome. La mancata comprensione del fatto che scienza e religione nascono per rispondere a comuni bisogni di comprensione e controllo emotivo del mondo porta a un’ideologia di tipo nichilistico intessuta di quasi-religione e pseudo-scienza.
Su questa base nichilistica non è possibile edificare un autentico universalismo. Il pensiero marxista si è posto, esattamente come il pensiero liberale che è totalitario nella sua più profonda essenza, come “pensiero unico”. Questa pretesa è basata su due elementi fittizi: il presupposto che il marxismo sia una scienza e il presupposto dell’universalismo sociale e mondiale della classe operaia. Questa di sorta di Immagine Universalistica Unificata che ne nasce è il frutto di due tradizioni occidentalistiche: la teoria della proprietà privata inglese e la filosofia della storia tedesca. Originariamente, il pensiero politico moderno, caratterizzato dall’unione di contrattualismo e giusnaturalismo, subordina la legittimità della proprietà privata al consenso della comunità, ma ciò è pericoloso per il capitalismo, perché implica un primato teorico della politica sull’economia. I primi oppositori della proprietà privata si schiereranno così sul terreno del diritto naturale, che rimane comune al comunismo di Marx, inteso come diritto dell’individuo all’appropriazione della natura secondo i propri bisogni. I tre concetti fondamentali del comunismo marxiano sono quindi l’individuo, la natura, i bisogni e tutti e tre derivano dagli esiti finali della discussione sulla proprietà privata. Marx pensa la proprietà comunista sulla base della reazione giusnaturalistica settecentesca alla tendenza artificialista e istituzionalista del pensiero borghese inglese.
La grandezza della filosofia della storia tedesca da Herder a Hegel, che costituisce la premessa materiale e ideale del pensiero di Marx, consiste nell’aver cercato di pensare l’universalismo, seppur in modo insufficiente,. Tale insufficienza deriva dal fatto che il mondo greco non è qui inteso come “eccezione universalizzabile”, ma come matrice unica di una possibile universalizzazione mondiale, giungendo così alla fondazione di un paradigma eurocentrico.
Mentre Marx critica esplicitamente la tradizione della proprietà inglese, oscilla nel giudizio sulla filosofia della storia tedesca. La posizione di Marx è essenzialmente non economicistica, in quanto per lui l’economia determina la struttura del solo modo di produzione capitalistico e non è qualcosa di eterno, riconducibile alla presunta dimensione antropologica immutabile dell’homo conomicus. L’economia è una modalità storica di gerarchizzazione ontologico-sociale delle attività umane di produzione e riproduzione della società. Per Marx l’uomo è caratterizzato da una natura umana generica e non specifica, che gli consente di entrare e uscire in modi di produzione differenti nei quali possono dominare, a seconda dei casi, la famiglia, la politica, la religione, l’economia ecc. È allora nel rifiuto del robinsonismo, mistificazione ideologica capitalistica dell’accumulazione originaria, che si trova la critica della falsa concezione occidentalistica della proprietà privata capitalistica. Per quanto riguarda invece il rapporto con la filosofia tedesca della storia, la teoria dei modi di produzione permette un’interpretazione sia multilineare che unilineare. La prima, filologicamente più compatibile con lo spirito e la lettera di Marx, può essere la premessa di un universalismo reale; la seconda, nella forma della “teoria dei cinque stadi” (comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo, comunismo) che ha contraddistinto il marxismo novecentesco, è una grande narrazione deterministica e teleologica e costituisce la forma più pura della concezione unilineare della storia universale.
Un universalismo reale può essere originato non dall’universalizzazione del capitalismo, ma solamente da un progetto storico e culturale cosciente in cui gli uomini siano visti come produttori di senso, titolari cioè di giudizi di verità, libertà e giustizia.
La rappresentazione della classe operaia e proletaria come classe rivoluzionaria capace di transizione intermodale fra diversi modi di produzione è un mito occidentalistico frutto di una concezione unilineare della storia. Marx ha cercato di dare una fondazione “scientifica” a questo mito con l’ipotesi della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato nel general intellect, dando così una formazione economico-sociologica dell’universalismo. A questo tipo di fondazione dell’universale è però necessario rinunciare, in quanto l’universalismo può essere costruito solo sulla base della nozione di Genere Umano e non su proiezioni sociologiche. Respinti i due universalismi illusori del modello occidentalistico unilineare e del mito infondato della classe operaia come unica classe rivoluzionaria, rimane solo la considerazione ontologica del Genere Umano nella sua dimensione storica. Un’ontologia sociale è un’ontologia storica in cui l’Essere è costruzione umana non arbitraria, relativistica e convenzionalistica, ma corrispondente alla possibile universalizzazione del genere umano stesso.
Per poter parlare di genere umano bisogna costruire un’antropologia filosofica convincente che sia congiuntamente un’antropologia storica e politica. Marx proviene dalla tradizione greca che poneva nella ???? il fondamento della verità e questo determina in lui la presenza di una teoria della natura umana e una teoria della individualità. Marx, partendo dal fatto che l’“essenza umana” è storica e non naturale, elabora un concetto di natura umana come Gattungswesen, e in quanto ente naturale e generico l’uomo non è geneticamente prefissato a dar vita a una sola forma di oggettivazione sociale. Se l’uomo è un ente siffatto, si può definire “alienata” qualsiasi situazione che gli voglia imporre come qualcosa di immutabile e reificato una determinata situazione storica.
Marx è inoltre un pensatore della libertà, dove questa nozione viene declinata all’interno di un processo dialettico di liberazione da uno stato di alienazione secondo il modello hegeliano del rapporto fra servo e signore. Se la fonte teorica di Marx è costituita dalla critica dialettica dell’economia politica, questa è a sua volta inserita in una, seppur implicita, più ampia fonte filosofica principale, costituita dalla ripresa della saggezza greca classica. Non è allora un caso che Marx, parlando del processo di individualizzazione in termini storici, accetti integralmente la definizione aristotelica di uomo. Marx sapeva benissimo che l’antropologia politica moderna si costituisce contro Aristotele e la sua ipotesi della socialità naturale dell’uomo sulla base di una preventiva concezione atomizzante dell’individuo che costruisce la società in modo rigorosamente artificialistico.
Marx appartiene alla tradizione “individualistica” del pensiero europeo occidentale, egli è infatti un individualista di origine etica, in quanto pone alla base del suo lavoro scientifico il riscatto dell’uomo da tutto ciò che lo tiene in condizione di dipendenza. Marx è anche un pensatore dell’eguaglianza, ma solo se si capisce che prima di tutto è un critico del preventivo eguagliamento capitalistico degli individui, presupposto della successiva diseguaglianza materiale frutto dell’attività economica differenziata. La preoccupazione teorica di Marx è l’individuo singolo concreto.
In conclusione l’unica speranza per una rinascita del marxismo consiste in una sorta di riorientamento gestaltico, la cui premessa stia nella liberazione dallo storicismo, dall’economicismo e dall’utopismo e il progetto della “libera individualità” è la sola proposta universalistica di Marx che non possa essere accusata di avere un retroterra nichilistico.
Costanzo Preve – Marx inattuale. Eredità e prospettiva – Bollati Boringhieri – € 19