di Luisa Catanese
È una mattina di giugno del 1982. Sei sdraiato al sole in una spiaggia dell’Adriatico. Sfogli il giornale e vieni a sapere che Pasquale è morto. Parlava ad alta voce con alcuni amici nel giardino di un palazzone del quartiere e scriveva con una matita su un tronco. Un uomo si è affacciato alla finestra e gli ha detto di andarsene. Pasquale gli ha risposto male. Quell’uomo e suo fratello, ventitré e ventidue anni, scrive il giornale, sono scesi in giardino e l’hanno fatto tacere per sempre. Nell’articolo si legge: «omicidio preterintenzionale».
Non sei dispiaciuto. Una volta ti ha dato un calcio sulla cartella. Un’altra volta ti ha strappato la merenda di mano e con un morso ne ha ingoiata metà. Non hai reagito perché avevi paura di essere toccato dalle sue dita sottili, dalle unghie lunghe orlate di nero. Pasquale è amico di Salvatore, Carmelo, Antonio; e di molti altri che i tuoi amici delle scuole medie chiamavano marocchini.
Li incontravi, li evitavi nei corridoi, nei bagni, nel cortile della scuola. Ti sforzi di non essere contento. Non sai che molti di loro moriranno giovani. Alcuni sogni della tua infanzia dicevano la verità.
Nell’atrio della scuola hai letto i voti dell’anno scolastico e con Enrico sei tornato a casa in autobus. Da settembre ogni mattina hai preso l’autobus per andare a scuola. Il tuo grande liceo di mattoni scuri, come una torre delle mura della città antica, presidia i viali di circonvallazione, non lontano da Porta Saragozza. Dall’entrata posteriore della scuola, vicina alla palestra, non hanno ancora tolto un bassorilievo di marmo: profili di corpi nudi, atleti che alzano il braccio destro per salutare il loro duce.
Non hai la media del nove. Non vuoi farti notare più di tanto. Ti lamenti con un sorriso di trionfo davanti a Enrico che è stato rimandato a settembre in tre materie e forse sarà bocciato.
A casa di Enrico Brandi, uno dei tre compagni di classe che abita nel quartiere, hai passato molti pomeriggi, quest’inverno, seduto alla grande scrivania dello studio di suo padre. Musica, riviste porno patinate, telefonate a compagne di scuola, biscotti e tè al limone serviti dalla madre di Enrico.
«Non si può tollerare», diceva Enrico, «una vecchia sdentata che chiede al macellaio carne di puledro».
Ne imitava la voce: «Mi raccomando, carne tenera. Tra un paio d’anni crepa e per lei deve morire una creatura innocente. Hai mai guardato gli occhi di un vitello?»
Ti ricordi che hai sguainato un vitellino dal ventre della madre. Il vitello aveva gli occhi chiusi, la testa piccola come la tua mano, fradicia di grumi sanguinosi, e ti sei svegliato.
Contro gente così egoista, diceva Enrico, ci voleva un altro Hitler. Aveva esagerato, Hitler, benché il suo pensiero non fosse tutto da buttare. Aveva baffetti ridicoli, era brutto, non era un grande oratore come Mussolini, il suo maestro; e non era neanche alto e biondo. Da giovane era un piccolo uomo, ma poi era diventato uno statista, il più grande del secolo. Se non avesse esagerato, con la guerra, se fosse stato più prudente, il mondo oggi sarebbe migliore. I campi di sterminio sono propaganda, diceva Enrico; l’idea di Hitler era di eliminare i criminali, i pederasti, i parassiti della società. Voleva metterli di fronte a una decisione: noi non vi vogliamo, o cambiate o ve ne andate, con le buone o con le cattive. Sui tedeschi si dicevano troppe menzogne, diceva, solo perché avevano perso la guerra. Quando la guerra stava volgendo al peggio, mentre i valorosi soldati tedeschi già si ritiravano, isolati e traditi, i vecchi e i nuovi nemici – e qui il suo fervore raggiungeva il culmine – li pugnalarono alle spalle. Se subivano attentati dai partigiani, gente senza divisa, quasi tutti comunisti, vigliacchi che mai si sarebbero offerti di morire per salvare degli innocenti, i soldati tedeschi, in mancanza di meglio, non avevano forse diritto di rappresaglia su altra gente senza divisa? Lo diceva anche la Convenzione di Ginevra, giurava Enrico, anche se nessuno lo sa perché nessuno la legge. Poi se la prendeva con Marx, che non credeva affatto a ciò che diceva ed era un borghese ebreo, un egoista, un furbo che fotteva la serva, un materialista, l’uomo più falso della storia umana.
«E poi chi non crede in Dio può essere soltanto uno stupido», concludeva.
Non di rado, appena aveva finito di esporre le teorie più efferate, o quando stavi per tornare a casa, Enrico ti guardava negli occhi, ti appoggiava una mano sulla spalla, e ti diceva che non dovevi prenderlo troppo sul serio. In fondo aveva solo scherzato.
Enrico e Lanfranco, come tutti i compagni di classe che abitavano nel quartiere, sono stati bocciati e hanno cambiato scuola, ma quasi ogni sabato e domenica pomeriggio tu prendi l’autobus e vai in centro con loro. Non esplorate i vicoli, le piazze più piccole, i cortili del centro storico; camminate su e giù, lungo le vetrine, sotto gli alti portici di via dell’Indipendenza e via Ugo Bassi, per guardare ed essere guardati.
Lanfranco è alto, asciutto, ustionato dalle lampade. Porta i capelli stuccati dalla gelatina, gli occhiali da sole, gli stivali, un bracciale d’oro al polso, che gli può servire, dice, per alzarsi l’età: vi sono incisi il nome e la data di nascita del fratello primogenito che, morto appena nato, si chiamava Lanfranco prima che Lanfranco venisse al mondo.
Una domenica pomeriggio Lanfranco, in discoteca, aveva scommesso che sarebbe riuscito a baciare entro cinque minuti una ragazza qualsiasi, a sua scelta, a cui nessuno dei tre avesse ancora rivolto una parola o uno sguardo. Vinse la scommessa, e in un secondo tempo andò a letto anche con Elisabetta, che accompagnava la ragazza di cui non ricordi il nome. Elisabetta, qualche anno più tardi, mentre era a letto con Lanfranco, confessò che lei quella volta in discoteca, quando lui aveva baciato l’altra, c’era proprio rimasta male. Si era chiesta perché, se tutti i ragazzi preferivano lei, Lanfranco avesse scelto l’amica. Questo retroscena ve lo raccontò Lanfranco, guidando l’auto di suo padre. Si dilungò sui sentimenti profondi, la gratitudine, la sconfinata venerazione di Elisabetta. Raccontò che la prima volta lei gli aveva detto di non «fare l’amore come una macchina»: con lei Lanfranco poteva essere «naturale», non aveva l’obbligo di «essere perfetto». Così da quel momento, disse Lanfranco, lui fu più spontaneo e lei rimase incinta. Due mesi più tardi non stavano più assieme; Lanfranco non indugiava: dove non era più possibile amare, o convincere del proprio amore, passava oltre. Sotto l’effetto di una lezione su Nietzsche, un giorno si era dichiarato dionisiaco, ma aveva continuato a farvi la morale sulle droghe e a intimarvi di non fumare. Non si era ancora ancora gonfiato i muscoli di steroidi, ma andavate già in palestra. Sollevando pesi, sbuffando come un Minotauro, asciugandosi il sudore nello spogliatoio, diceva che le più belle donne del mondo sono in Italia, le più belle d’Italia a Bologna, le più belle di Bologna nel vostro quartiere; ma questa teoria, che ti avviliva, che forse ambiva a dimostrare vane le vacanze studio all’estero che intendevi fare, e che lui non poteva permettersi, non angustiava le sue scelte. Aveva l’abitudine di dire: «Nel mio carniere manca la negra», forse perché avrebbe raccontato ben presto di averlo completato con una ragazza del colore giusto, una «modella di colore» che frequentava la palestra.
Non importa dire se alle sue parole talvolta provavi imbarazzo o disgusto. Ora lo sai, anche la violenza può trapassare in una convenienza che corrode, in molteplici connivenze, in una sottomissione silenziosa a chi parla, a chi giudica, a chi presume di sapere. Non si può sapere con certezza quello che pensano gli altri. Si giudica ciò che si vede e si sente; e in fondo, sosteneva qualcuno, niente è più falso di un fatto in se stesso. Senza una condanna, si direbbe, il prepotente si persuade di aver vinto, di non avere torto, e il mondo, o almeno i gregari, e talvolta anche le vittime, gli credono.
Lanfranco non era un bugiardo, era un falsario. Raccontava per promuovere se stesso, per suscitare ammirazione o invidia, ambiva al potere che viene dalla dedizione o dall’impotenza altrui. Le sue parole rielaboravano i fatti, le sue, come diceva, esperienze vissute: niente di strano, pare che così facciano tutti. Quello che raccontava, il romanzo d’appendice che vi raccontò per anni – atti eroici e tributi di stima, conquiste e trionfi amorosi, conoscenze influenti e cene con cantanti – non presentava quasi mai incoerenze evidenti. La sua voce alta, anzi tonante, ma talvolta lamentosa, teatrale, vi stordiva con interminabili panegirici: l’esaltazione di sé, delle imprese compiute in vostra assenza, e la lode di altri personaggi straordinari – per lealtà, talento, coraggio, muscoli, cazzo, esperienze, aspetto – che voi non conoscevate, ma potevate conoscere o avevate conosciuto grazie a lui.
Lanfranco non era un esteta della menzogna, era un estetista che truccava la vita. Era un falsario che comprava e vendeva parole per crescere il suo capitale. Le sue storie suonavano spesso ridicole e stonate, ma tendevano a un fine così sicuro che le rendeva vere. Potevate non ascoltarlo (e perché mai se spesso vi divertiva?), potevate non accettare le parole che spacciava, ma se aveste detto, come vi azzardaste di rado, che se pure non mentiva almeno esagerava, lui avrebbe ribattuto che non eravate veri amici, ma gretti e insensibili a non credergli, a prendervi gioco di chi metteva a nudo i fatti e i sentimenti della vita.
A volte i suoi racconti erano più imbarazzanti della musica leggera che vi faceva ascoltare, e non solo quando gonfiava il collo nel rievocare un coito interminabile e diventava rosso nello sforzo di mimare la sua dedizione alla causa. La protagonista di una di queste storie d’amore, di cui vi ripeteva le parole più intime, fece in tempo a lasciarlo. E Lanfranco ne soffrì davvero, anche se la sua promiscuità, dal trionfo al lutto, rimase quasi costante.
Era il primo inverno dopo l’esame di maturità. Ricordi che una sera Enrico guidava sull’autostrada, tu gli sedevi accanto, docile come Daina, la sua dobermann, e Lanfranco dietro sussurrava ad alta voce promesse d’amore eterno. Non so se la ragazza gli credesse, ma vi divertivate tutti: la paragonava a piccoli animali; e lei, giocatrice di pallacanestro, con una voce da sirena di vaporetto, rideva imbarazzata ma contenta. Forse non era del tutto vero quello che lui diceva, ma era senza dubbio vero che glielo diceva lì, in quel momento: era una attrice della serie, la protagonista della puntata. E per quello che le aveva detto e continuava a dirle quella sera, Lanfranco era già quasi un agente segreto, con la licenza di amare e di uccidere, anche se non guidava una fuoriserie sulle curve della Costa Azzurra e non le offriva da bere champagne fra lenzuola di seta.
Lanfranco diceva che il suo mestiere sarebbe stato mettere le donne a proprio agio in questo mondo. Per mettere a proprio agio, Lanfranco sapeva abituare al disagio. E avrebbe fatto credere a un soprammobile, magari a un coniglietto di peluche, di essere il centro del mondo, il centro del mondo per un’ora o un giorno o una settimana. Non eri in grado di dire, a Lanfranco, e sarebbe stato inutile, che le bugie mangiano l’anima. Non provava alcuna angoscia nel raccontare a qualcuno di un proprio successo fasullo o di un sentimento inesistente. Ti chiedevi come potesse dimenticare lo scarto tra se stesso e la verità, come riuscisse a non pensare che lui non era quella stessa persona che gli altri avrebbero dovuto amare, stimare, ammirare, invidiare. Le bugie fanno vincere un altro, pensavi, ma lui era anche quell’altro. Pareva che la verità, per Lanfranco, durasse meno di un giorno, che le sue parole valessero per il momento in cui vibravano nell’aria e per il loro effetto sul pubblico. Forse Lanfranco non ci pensava affatto, alla verità; oppure misurava, tra se stesso e il vero, lo scarto che lui stesso creava, e ne godeva.
Sei in piedi, vicino a Patrizia Sarti: all’ultima frenata le hai annusato i capelli. Oggi rimarrà con te più a lungo; scenderà quasi alla fine della via, dopo lo stadio, perché pranza a casa della zia.
Sei fermate, pensi, almeno sei fermate invece di tre.
Quando parli, lei alza il mento e ti guarda negli occhi. Quindi tu devi parlare, e prima che finisca la via, prima che allo stadio si diradino le case, devi chiederle se quel pomeriggio potrai rivederla. Se premediti, non agisci. Se pensi, taci. Più taci, meno sei sicuro di farlo; non ti piace parlare con qualcuno in un luogo affollato. Ma non avere il coraggio di chiedere è peggio di un rifiuto. Nessuno può aiutarti, se non te stesso, o forse no, non si può mai sapere.
È finita, pensi, è tutto finito prima di iniziare. È salita sull’autobus tua nonna, che ti ha visto e già ti saluta; e sorride imbarazzata, guardando gli occhi celesti, gli zigomi duri, la bocca chiusa della ragazza, che tu non le presenti.
Vorresti tacere, ma con una nonna, benché ti sembri una donna che a malapena esiste, si deve parlare. Devi dire qualcosa e la dici, come si fa agli estranei in un ascensore o in un autobus. Poi taci e la guardi dalla testa ai piedi come se dovessi stimare il prezzo dei vestiti, come se immaginassi di guardarla con gli occhi di Patrizia Sarti.
La nonna non abita da quelle parti, abita un paio di fermate dopo casa tua, ma ti dice che deve scendere per andare a trovare un’amica che esiste ancora meno di lei. Stringe a sé la borsetta scialba, ti saluta e si butta giù dall’autobus, appena si aprono le porte.
«Quella signora è tua parente?» chiede Patrizia con un sorriso che ti sembra troppo benevolo.
«Lavorava a casa mia. Aiutava mia madre in casa. Si è affezionata…».
Accanto a voi, tra la folla che preme all’uscita anche se non deve uscire, è comparsa una vicina di casa della nonna, un’altra donna che devi salutare, perché negli ultimi anni, in ascensore o in autobus, più di una volta vi siete detti buongiorno.
«Si vede proprio che quella signora ti vuole un gran bene», dice la donna.
Saluti, devi salutare, e il sangue ti sale alle guance.
Anche Patrizia scende. Forse domani vi rivedrete a scuola durante l’intervallo, e forse domani sarà troppo tardi.
La folla si dirada, Patrizia è lontana, ti siedi. La vicina di casa della nonna resta in piedi, appostata davanti all’uscita. Fuori dal bus un marmista, un parcheggio, il canale opaco che scorre accanto al cimitero. Ti ricordi, ti sembra di ricordare, che molti anni fa hai visto la nonna catturare con una coperta un piccione che si era posato sulla terrazza. Era ben piumato, grasso, sano; aveva la nuca screziata. Ma forse è un sogno, come quella nonna che ormai esiste a malapena.
Si scende nel tuo quartiere, verso il fiume che dirama in quel canale grigio, lento accanto al cimitero.
Nella grande casa di Enrico Brandi, un sabato sera d’inverno, ci sono alcuni ragazzi che nessuno ha invitato. Sono studenti del tuo liceo scientifico, con un paio di loro amici di un liceo privato: ragazzi di buona famiglia che quando gira la voce vanno alle feste per bere a scrocco, per aprire il frigo e razziare quello che capita, o magari, se si credono immuni dalla sovranità dei padroni di casa adulti, per intascare soprammobili e piccoli regali di compleanno, per intasare i cessi e buttare rotoli di carta igienica dalle finestre. Per entrare senza invito, se sei maschio, bisogna che alla festa ci sia qualcuno che conosca almeno uno del tuo gruppo, o che ne riconosca il prestigio.
Alla festa, invitate da un’amica di Lanfranco, ci sono anche ragazze che non vanno al liceo. E tra loro vedi subito e ricorderai per sempre Tania, che non ha niente addosso che si noti, a parte se stessa, e ha un viso così serio e luminoso, uno sguardo così adulto, che quasi ti spaventa.
La festa consiste nel parlarsi all’orecchio e ballare quasi al buio la musica di un paio di dischi e di un paio di nastri da novanta minuti registrati da Enrico e Lanfranco. Nel bere analcolici gasati e dolciastri, mangiare tartine, pizzette e minutaglie salate, e parlare a voce più alta nella parte illuminata del soggiorno, al pianterreno della casa dei genitori di Enrico.
L’amica di Lanfranco te la presenta. Mentre Rico Rodriguez suona il trombone, vi dite all’orecchio parole che hai dimenticato. Poi ballate un lento e i vostri corpi si guardano ai raggi infrarossi. Per un momento lei ti appoggia la fronte sulla guancia. Ti guarda con occhi grandi e scuri; e allunga la nuca scoperta per parlarti all’orecchio con parole precise. Tania non va al tuo liceo, non va nemmeno al liceo. Non sembra affatto un’amica di Lanfranco; è solo una compagna di scuola della sua amica, ripeti a te stesso. Non è una di quelle che, davanti alla scuola, a una discoteca, a un bar, sta con le amiche a parlare di niente (di niente che tu possa sentire), solo per farsi guardare; e se qualcuno la guarda, ride come se fosse obbligatorio, e poi tutte ridono come se chi ha osato guardarle fosse un idiota. E se anche non ridono di te, ma ridono per te, tu non lo saprai mai. Questa è una che fa capire se le piaci, pensi: non finge come fosse una spia in terra nemica, non parla per incassare un credito da investire altrove; e se dici quello che pensi, se sei gentile e piuttosto calmo, più calmo che sicuro e pieno di te, tutto procede per gradi, con un passo che incalza, giusto e necessario, come la forza di gravità.
Smettete di ballare: una pausa che dovrebbe durare il tempo di una sigaretta o di mezzo bicchiere di vino, se ci fosse del vino; forse per dimostrare che niente succederà per caso. Così, mentre Tania parla con un’amica, e si fumano mezza sigaretta, ti trovi di fianco a Lorenzo Galli, uno di quelli che si è invitato da solo, uno a cui è difficile negare l’ingresso perché sembra, a molti tuoi coetanei, uno specialista del ricatto e un direttore della coscienza comune. Tuttavia a casa di Enrico, i bravi ragazzi amici di Lorenzo Galli non si azzardano a far danni. Enrico è alto, ha le spalle larghe, le braccia muscolose, il cipiglio di un atleta olimpico in un documentario nazista. E la grande casa paterna con giardino e dobermann pretende un certo rispetto.
Lorenzo è nella tua sezione; era nella tua classe, ma l’anno scorso l’hanno bocciato. Avrà modo di rifarsi, è scaltro, conosce molta gente, molti piccoli segreti. Ha la lingua sciolta e tagliente: sa come usare le risorse o le debolezze altrui, come far valere il suo giudizio e le sue maldicenze.
Lorenzo, che lo scorso anno era ostile, o almeno beffardo, ora invece ti sembra molto più che conciliante. Oggi il suo tono è garbato, confidenziale, quasi affettuoso, da compagni di scuola che si ritrovano dopo vent’anni davanti a un’altra scuola con i figlioletti per mano.
Ti senti per un momento, di colpo, a tuo agio, come se esistesse solo il presente, come se avessi recuperato una parte di te che credevi persa.
Non ti trattieni, devi chiederlo: «Hai visto la ragazza con cui ero prima?»
Certo, Lorenzo ha notato che tu ballavi con una ragazza, ma forse parlava di altro, forse era impegnato a schernire qualcuno, e al buio non si vede bene, non si può giudicare.
«Quella laggiù? Quella bassa?»
La indichi alzando il mento: «Sì, quella piccola, con i capelli corti. Come ti sembra?»
Parli avvicinando la bocca all’orecchio di Lorenzo, che si volta verso di te, ma non si avvicina altrettanto. Tu appoggi la mano destra alla spalla sinistra di Lorenzo. Lorenzo tiene le mani lungo i fianchi e si piega appena di lato. La guardate entrambi in silenzio, a pochi metri di distanza da lei, che smette di parlare con l’amica e ti cerca con gli occhi.
«Mai vista prima. Carina è carina. Come si chiama?» dice Lorenzo.
Non ti aspettavi la domanda, non rispondi del tutto volentieri.
«Non è il mio genere, ma è abbastanza carina. E se apre le gambe, è ancora più carina. Comunque, deve piacere a te».
Non sei per niente contento, e Tania di certo, che ti ha guardato in faccia, ha capito che parlavate di lei.
Quando ti riavvicini, il suo sguardo è severo: «Perché parlavi di me con quello stronzo?»
«Non è così, non parlavamo male di te».
Tra i vostri corpi ora c’è una distanza, il contrario di un abbraccio: «Mi guardavate con un sorriso che non mi piaceva… Mi giudicavate».
«Non dicevamo nulla di male, lo giuro».
«Mi facevi vedere».
«Non è più come una volta. L’ho perdonato. Fregava i compagni. Li invitavano a casa… L’hanno bocciato. Ero solo gentile. Mi è venuto di chiedergli…»
«Volevi il permesso? Volevi sapere se sono alla vostra altezza?»
«Per me sei una ragazza molto carina. Ero curioso… Davvero, tu sei…»
«Sai cosa penso io? Tu non sei nessuno. Per me non esisti. E se per me esistevi, ora non esisti più».
Sei in Inghilterra, studi la lingua, per un mese sei ospite di una famiglia. La tua terra e il tuo sangue sono lontani. Qui la vacanza e lo studio non si contraddicono. Studi per il futuro, per il lavoro, per diventare un altro. Hai deciso che dopo la laurea vivrai, come in questa vacanza, dove si parla una lingua straniera, dove nessuno ti conosce. Qui frequenti solo chi parla un’altra lingua, gente che sarà facile evitare, che sarà più difficile incontrare una seconda volta. Conosci molte ragazze: la coscienza è lieve, non fiacca l’azione. Le storie hanno un termine breve, finiscono prima di una resa dei conti, prima delle delusioni e delle scelte. Resterai in Italia per l’università. Poi cercherai di andare via, anzi sei sicuro: te ne andrai oltre l’oceano.
Quando torni dall’Inghilterra, Enrico e Lanfranco ti concedono qualche minuto per raccontare «le nuove esperienze». Siete a casa di Enrico, attorno al tavolo della cucina. Siete voi tre, soli; i genitori di Enrico non ci sono per qualche ora. Enrico e Lanfranco mangiano quello che trovano in frigo, tu provi a raccontare.
«Dovevi andare fino in Inghilterra per trovare una figa?», dice Lanfranco.
Afferra l’avambraccio di Enrico: «Aspetta. Per andare fin là quanto ha speso?»
«Con quello che ha speso tuo padre, se andavi a puttane qui, risparmiavi. Fai conto cinquantamila lire… No, voglio esagerare, andiamo di lusso: con cento carte a botta quante scopate ti facevi?»
«Da quelle parti il bidè non esiste: girano col buco del culo sporco di merda. Non si fanno la doccia ogni volta che cagano. O hanno il timer tra le chiappe e cagano solo prima della doccia, oppure escono di casa col culo sporco», dice Enrico.
«Di merda», aggiunge Lanfranco.
«Io me lo lavavo nel lavandino», dici, e provi a ridere anche tu.
«Sì, immagino», dice Enrico. «Se la tipa al lavandino non ci arriva, perché ha il culo basso, la vedi arrivare all’appuntamento bella sorridente, con le budella sgombre, e il culo sporco di merda».
«Scommetto che sorrideva, quando ti veniva incontro», dice Lanfranco.
«Sì, non ho avuto problemi».
«E cosa si mangiava in famiglia?»
«Mangiavo quello che mi davano, a parte i cetrioli. Dicevo sempre: “No cucumber, please”».
«Certo, no cucumber; per il culo lercio no problem».
Lanfranco riafferra l’avambraccio di Enrico: «Forse non li mangiava perché si puliscono il culo con quelli».
Fanno finta di ridere. «Ti è passato l’appetito? Perché non mangi qualcosa anche tu?»
«Peccato, in frigo niente cucumber».
«Non ho fame».
Enrico insiste: «Per mangiare un ravanello c’è bisogno di avere fame? Non è mica un cetriolo».
«Sono strano. Mangio quando ho fame».
«Solo questo ravanello. L’ho lavato bene, non è come il culo delle inglesi».
«No, grazie».
«Solo un morso. Rilassati. Non ti piace questo radicino?»
«È il più buono dell’universo ma non mi va. Se vuoi farmi gli onori di casa, dammi un bicchier d’acqua».
«Non capisco perché quando bevi dell’acqua annusi il bicchiere. Hai notato che annusa il bicchiere?»
«Annusa i bicchieri e si lava le mani».
«Non lo annuso, respiro mentre bevo».
«Ogni volta che entra in casa, se le lava».
«Mangia questo ravanello o mi offendo», ordina Enrico.
«Davvero, non mi va».
Enrico protende il braccio verso la tua bocca e fa la faccia triste: «In nome della nostra amicizia».
Tu sorridi e dici di no. Enrico e Lanfranco si guardano.
S’alzano di scatto, ti afferrano: «Solo un morso e ti lasciamo in pace».
«No, cazzo. Ho detto di no».
Bestemmi, resisti, giri la testa, stringi le labbra. Ti sollevano dalla sedia, che si ribalta. Enrico ti afferra al tronco, Lanfranco ti solleva una gamba e spinge. Cadi a terra, ti svincoli, ti trascini bocconi quasi fino al sottoscala. Ti torcono un braccio, si appoggiano con tutto il peso sulla tua schiena.
«Dai un morso e ti lasciamo in pace. Non fare la bella figa».
La tua guancia sinistra aderisce alle piastrelle del sottoscala.
«Solo un morso e lo sputi. È un ravanello. Mi hai fatto anche male. Sei riuscito a farmi male per non mangiare questo cazzo di ravanello».
«No, neanche morto».
«Non ne vale la pena. Ne avrai ingoiati migliaia, pezzo di merda. Un morso e lo sputi, se no restiamo qui fino a domani mattina».
«No».
«Apri».
Alla fine mordi e mastichi.
«Devi ingoiare», dice Lanfranco.
E tu esegui.
Gli amici ti lasciano, ridono: «Hai visto? Era così cattivo? Ne hai sempre mangiati. Hanno le vitamine. C’è bisogno di tanti complimenti?»
Pacche sulle spalle: «Perché ti sei agitato tanto?»
«Era tanto cattivo?»
«No».
Vai in bagno; lavi le mani, lavi la faccia. Sputi saliva rossa.
«Se te le lavi troppo, ti verranno le piaghe».
Lo sanno, pensi. Lo hanno sempre saputo.