di Valerio Evangelisti
Se fosse possibile astrarsi, prendere le distanze, bloccare ogni reazione emotiva, lo spettacolo che i mezzi di comunicazione ci mettono sotto gli occhi ogni giorno sfiorerebbe la demenzialità. L’esercito più potente e armato della terra che sfreccia nel deserto di un paese che dovrebbe liberare, e che di continuo deve arrestare la propria corsa di fronte a ostacoli che non aveva messo in conto: da città che, sebbene martoriate dalle bombe, non cadono affatto, a imboscate tese alla retroguardia, a postazioni tenute da pochi cecchini, fino a un vecchietto con lo schioppo che riesce ad abbattere un elicottero.
Come stordito da una realtà incoerente con i propri piani, quell’esercito si esibisce allora in una sarabanda assurda di azioni autolesive: i suoi velivoli precipitano da soli sulla sabbia o in mare, i suoi soldati si fanno esplodere a vicenda, i suoi missili colpiscono bersagli amici. E’ come quando un disagio profondo si esprime in un’eruzione cutanea, o in comportamenti incontrollati rivolti contro se stessi.
Del resto, i motivi di quel disagio sono sotto gli occhi di tutti. 60.000 uomini armati (i 250.000 esistono solo sulla carta: negli eserciti moderni e tecnologicamente evoluti i soldati attivi sono uno su quattro o su cinque) dovrebbero mettere sotto controllo un paese di ventiquattro milioni di abitanti. Ciò non sarebbe impossibile se quegli abitanti cooperassero e accogliessero a braccia aperte i “liberatori”. E invece si vedono i carri armati sfilare attraverso i villaggi davanti a gente cupa, estranea, talora apertamente ostile. Quando un gruppo di poveracci applaude (scena sempre più rara) parla di pane che manca e non di ideali; oppure fa gesti di saluto da lontano, come saluterebbe un treno di passaggio. Sempre più l’esercito anglo-americano (ma andrebbe spesa una parola di divertito compatimento per i 200 soldatini polacchi al seguito, o per gli australiani, che chissà dove si sono ficcati) si fa strada tra l’ostilità dei nativi e la vergogna propria. La prima non fa che crescere; la seconda comincia ad affacciarsi.
Ma l’hellzapoppin continua. Una città resiste? La si aggira. Da un villaggio sparano? Vi si lascia qualche plotone di guardia, in attesa che l’aviazione arrivi e rada al suolo l’abitato. L’obiettivo vero è Baghdad, si ripete. No, l’obiettivo è il consenso, ed è di questo che ancora non si vede traccia. L’effetto paradossale è di riallineare l’opposizione irachena in difesa della patria invasa. Gli aggressori si attendevano l’appoggio della maggioranza di religione sciita, ed ecco che i patriarchi della stessa dichiarano contro di loro la guerra santa. Il partito comunista (la forza di opposizione sempre taciuta dai media occidentali, eppure la più forte nel paese, e la più perseguitata da Saddam Hussein) invita i militanti a prendere le armi contro l’invasione. Il solo appoggio reale è espresso dai curdi, ed ecco che gli “alleati” (denominazione oggettivamente esatta, ma ipocrita nel suo implicito richiamo alla seconda guerra mondiale) si ritirano e li lasciano faccia a faccia con i turchi… A Baghdad! A Baghdad!
E’ davvero paradossale che un simile dispiego di mezzi, e un simile spargimento di sangue, siano messi al servizio del semplice attentato a un capo di Stato. Tale infatti è il senso della frenesia di raggiungere Baghdad: scovare e uccidere il tiranno, dopo averci provato inutilmente con raffiche di missili e tonnellate di bombe. A questo si riduce il contenuto politico e ideale della spedizione. Una resa di conti tra cowboys con le brache che tra poco cadono tanto è il peso del cinturone. I massacri attorno, la distruzione di vite, di città, di infrastrutture, non ha altro scopo. Lo dice il nome stesso della spedizione: “Colpisci e terrorizza”. Colpisci chi? La gente. Terrorizza chi? Saddam Hussein? No, sempre la gente. Che peraltro finora è terrorizzata sì, ma tutt’altro che doma.
Se c’è una cosa chiara, spaventosamente chiara, è che in questa farsa sanguinolenta la democrazia non c’entra nulla. Se ne fottono gli autori dell’eccidio, Bush, Blair, Aznar, il nostro pavido e tremolante Berlusconi. Continuano a uccidere malgrado il raccapriccio che il mondo intero sta esprimendo. Se ne fottono gli statunitensi che, con una maggioranza risicata, sostengono il loro governo. Sono fautori della supremazia americana (US rules, recitava uno dei cartelli esibiti in una recente manifestazione pro-Bush, peraltro striminzita), e di chi sia in questo momento nel mirino non sanno nulla. Se ne fottono i teorici dello scontro tra civiltà, i cantori del liberismo quale panacea universale, i “revisionisti storici” impegnati a riscoprire le virtù del colonialismo, gli xenofobi entusiasti di una guerra contro gli sporchi arabi, gli opinion makers asettici turbati dalla scoperta che le idee che propagano, magari con l’ausilio di schemi e sondaggi improvvisati, non sono affatto quelle prevalenti.
Se ne fottono anche, e per primi, i soldati impegnati in questa sordida impresa. Li abbiamo visti, in tv, i marines catturati. Il ministro della difesa statunitense si è affrettato a dichiarare che quel filmato violava la convenzione di Ginevra. Chi parlava aveva ed ha sulla coscienza non solo Guantanamo (La Repubblica dell’11 marzo ci ha spiegato in dettaglio, non senza compiacimento e con la solita sovrabbondanza di disegnini, le torture “accettabili” praticate sui detenuti), ma anche l’agonia dei prigionieri afgani chiusi in container sigillati e lasciati morire sotto il sole. In realtà, ciò che spaventava Rumsfield era l’immagine che i marines – i “soldati migliori del mondo”, da quando la Legione Straniera francese ha perso l’ambito titolo – avevano offerto di sé. Poveri diavoli sul punto di farsela addosso, penosamente nudi senza le appendici metalliche che usualmente li ricoprono, e soprattutto confusi e incerti circa la causa che erano venuti a sostenere. Del resto, il corrispondente dal Kuwait della tv spagnola, nel telegiornale del 24 marzo, ha tranquillamente ammesso che la maggioranza dei marines acquartierati lì non aveva un’idea precisa del paese in cui si trovava, né di quello cui era destinata.
Impossibile non provare pena davanti alle larve in divisa apparse in tv, anche considerando che un marine non è un soldato di leva, bensì un volontario che ha scelto il mestiere delle armi. Pena inferiore, però, alle immagini ormai notissime del bambino iracheno con parte del cranio asportata, della donna coperta di sabbia sepolta sotto le rovine della propria casa, dei soldati uccisi in trincea mentre cercavano di sventolare una bandiera bianca. Poi Magdi Allam, Adriano Sofri, Ralf Dahrendorf e tanti altri commentatori meno illustri ci spiegheranno che la democrazia ha il suo prezzo, e che non ci sarebbe stata liberazione dal fascismo senza Dresda, Hiroshima o Nagasaki. Contenti loro. Una volta sentivo parlare di diritto di autodeterminazione dei popoli, e mi si diceva che il delitto di strage macchia il migliore degli ideali. E’ solo di recente che ho udito associare al termine “guerra” gli aggettivi più benevoli e accattivanti, tipo “umanitaria” e simili. Quest’ultima denominazione, “Colpisci e terrorizza”, mi suona la meno sexy in assoluto, ma evidentemente non è così per tutti. Ognuno ha propri criteri morali a cui richiamarsi, e un proprio grado di sensibilità.
Ciò che mi preme dire è che la figura emblematica che individuo nel conflitto in corso non coincide né con il marine catturato, né con il povero bimbo a cui qualche commilitone del primo ha spezzato il cranio. Si identifica invece con l’anziano contadino che, quando l’elicottero degli invasori, gonfio di potenza tecnologica, sorvola il campo, prende il fucile e gli spara (somiglia alla sequenza iniziale di V-Visitors, qualcuno la ricorderà). Quel vecchio forse stava con Saddam Hussein o forse no; forse era sciita o forse sunnita. E chi se ne sbatte. In quel momento difendeva l’indipendenza del proprio paese. Era in primo luogo un iracheno. Chi occupava il velivolo non lo era e, anche quando fosse stato inconsapevole, stava seminando morte.
Il partigiano con la barba bianca non reagiva in nome dell’onore o della gloria, che sono valori militari. Reagiva in nome della dignità, che è un sentimento profondamente umano. La madre e il padre di tutti i sentimenti, amore compreso.