di Girolamo De Michele
In un’intervista del 1981 al giornale “Gai Pied”, parlando della propria omosessualità e dell’amicizia come stile di vita, Foucault diceva: «il problema non è quello di scoprire in sé la verità del proprio sesso, ma di usare la sessualità per arrivare a una molteplicità di relazioni»1. Non si tratta di confessare la verità segreta di un desiderio, «si tratta di chiedersi quali relazioni possono essere istituite, inventate, moltiplicate, modulate attraverso l’omosessualità». Queste parole sul “divenire-omosessuale” esprimono bene la direzione verso cui, negli ultimi tre anni della propria attività al Collège de France (quella specie di «rendiconto pubblico di una libera attività», l’aveva definito nel corso del 1976), Foucault aveva orientato la propria ricerca. Non sorprende, dunque, che in questa torsione Foucault abbia dissodato il terreno della tarda antichità, dedicando gli ultimi tre corsi al mondo greco-romano, e in particolare, nell’ultimo anno, ai Cinici. O meglio: solo chi aveva praticato una lunga serie di fraintendimenti del lavoro foucaultiano a partire dalla Volontà di sapere come “blocco della ricerca”, ritirata davanti a uno scacco o presa d’atto di un fallimentare esito nelle weberiane gabbie d’acciaio della modernità – una sorta di consolatoria ritirata fra gli antichi, insomma, poteva rimanere sorpreso dal fatto che Foucault avesse non cercato nella verità degli antichi il senso del presente, ma piantato nietzscheanamente il concetto di parrhesia, di “parlar franco” (quella franchise con cui Slongo congiunge Foucault a Montaigne), nel cuore del tempo presente.
Su questi ultimi tre anni giunge ora in libreria, come esito di una ricerca seminariale collettiva, La forza del vero (ombre corte, Verona 2013, pp. 180, € 15.00), curato da Sandro Chignola e Pierpaolo Cesaroni, con saggi, oltre che dei curatori, di Frédéric Gros, Gaetano Rametta, Paolo Slongo e Judith Revel. Una sorta di prosecuzione, sia nelle forme che nelle modalità, del precedente Governare la vita2 che nel 2006 avviava la riflessione sui Corsi foucaultiani e sulla ricca messe di testi coevi pubblicati nei Dits et écrits. Appare chiaro, leggendo questi interventi in parallelo con i testi foucaultiani interrogati e sollecitati, che una delle ragioni dei fraintendimenti di taluni interpreti sia l’aver creduto Foucault uno studioso che mette il potere al centro della propria analisi. Tutt’altro: come esplicitano i curatori nell’introduzione, l’analitica foucaultiana cerca di liberarsi dall’«ossessione del potere» per analizzare «il sistema di mosse, strategie e tattiche attraverso le quali la “force du vrai” connota il contingente sistema di pratiche per mezzo delle quali viene prodotta e governata, anche sul lato del singolo, una funzione di soggettività integralmente assoggettata, perché sua parte costitutiva, al dispositivo che la regola» (p. 11). Si tratta insomma, per Foucault, «non più di scoprire quello che siamo, ma di rifiutare ciò che siamo»: questo il compito etico che comporta l’assunzione tanto del “coraggio” quanto della “forza” della verità. Basti pensare, come primo banco di prova, alla definizione (tratta da Polibio) di democrazia come forma politica fondata sulla compresenza di isegoria (pari dignità per tutti i partecipanti al gioco democratico) e parrhesia, e alla sua lettura (problematizzata da Rametta) come criterio dirimente per il pieno esercizio alla cittadinanza in un contesto come quello attuale nel quale, come ricorda Chignola, le formule classiche della statualità – sovranità, rappresentanza, costituzione – sono sempre più marginalizzate «a favore di una crescita degli istituti e dei corpi amministrativi» attraverso i quali lo Stato «cala i propri dispositivi di regolazione» in un ambiente che non può che essere «sfuggente e opaco» (p. 59), poiché solo a posteriori, dopo averne valutato gli effetti in termini di efficienza, ne sarà determinata la legittimità.
All’interno di questo cantiere di ricerca i materiali di Foucault possono essere disposti secondo il duplice punto di vista dei processi di soggettivazione e dell’etica del lavoro intellettuale (scoprendo, per effetto di questo riordino, un’inattesa consonanza con temi weberiani). Soggettivazione: si tratta non solo di esercitare quella filosofia analitica del potere che descrive i processi di governance, «ma anche, e soprattutto, mettere in evidenza i processi di soggettivazione e di continua tras-formazione che il potere incrocia nell’atto del suo esercizio; i processi dai quali e rispetto ai quali esso si trova costantemente limitato, modificato, modulato, rilanciato o reinvestito» (p. 41). Per il lettore di Sorvegliare e punire e Microfisica del potere, l’ultimo Foucault ha rappresentato la salutare fine di un equivoco: il fraintendimento della scoperta del carattere produttivo del potere declinato talvolta in una vittimologia del soggetto costituito e disciplinato da un potere pervasivo. E invece lo studio di procedure e istituzioni, discipline e apparati di governamentalità comporta anche la scoperta di come il soggetto, a sua volta, è capace di attuare strategia di autocostituzione, desoggettivazione e governo di sé: accanto, a lato, contro le tecniche disciplinari, ci sono le tecniche del sé che permettono ai soggetti «di effettuare da sé un certo numero di operazioni sui propri corpi, anime, pensieri, condotte, in modo da produrre in essi una modificazione, una trasformazione», scriveva Foucault in Sexualité et solitude (1981).
La “scoperta” del mondo antico e tardoantico significa proprio questo: accanto alla corrente maggiore dell’etica greca, quel “profondo errore” evocato in una delle ultime interviste che consiste nella ricerca di uno stile d’esistenza universale e comune, uno scarto etico centrato sulle diverse declinazioni della parrhesia e del discorso aleturgico: del discorso che non enuncia la verità come qualcosa di oggettivo e pre-giudizievole, ma che ha la forza etica di rendere possibile un discorso vero. Non una struttura epistemologica (nell’ultimo Foucault sono frequenti le prese di distanza dallo strutturalismo) che ha la pretesa di “dire la verità sul soggetto” – «un dispiegamento di verità che àncora il soggetto alla funzione che lo costituisce come tale», come ad esempio «la verità del liberalismo àncora il soggetto al suo statuto di soggetto libero che si muove sul mercato» (Cesaroni, p. 140), ma un’indagine sul modo in cui «il soggetto, per rendersi manifestazione della verità, deve modificare se stesso, deve trasformarsi, deve divenire altro da ciò che è usualmente» (p. 146). Non si tratta di discorsi astratti o disincarnati dalla ruvida sostanza delle cose: nel parlare delle differenti tecniche aleturgiche socratiche piuttosto che ciniche, Foucault parla anche delle lotte che si andavano sviluppando a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Lotte “trasversali” che contestano gli effetti del potere «nei suoi campi di esercizio apparentemente più periferici ed extragiudiziali (il corpo, la vita, la morte dei soggetti)», “immediate”, cioè rivolte a obiettivi concreti e immediati, ma soprattutto lotte che «mettono in questione lo statuto dell’individuo». E al tempo stesso, nell’ultimo corso sul dire franco dei Cinici, parla di uno “stile di militanza” che rinvia al militantismo gauchiste che «deve manifestare direttamente, nella sua forma visibile, nella sua pratica costante e nella sua esistenza immediata, la possibilità concreta e il palese valore di un’altra vita» ( Il coraggio della verità, p. 180): uno stile di militanza aperto e aggressivo, «nel mondo e contro il mondo», «che ha la pretesa di cambiare il mondo» (ib., p. 289); che si configura come una forma di nichilismo alternativa alle declinazioni heideggeriane del destino della metafisica occidentale e della «vertigine di decadenza tipica di un mondo occidentale ormai incapace di credere ai propri valori» (ib., p. 186). Il che comporta un’importante considerazione: dopo la netta, programmatica presa di distanze dai presupposti della filosofia classica – a questa altezza Foucault portò lo scontro con Derrida, come appare chiaro dalla prima versione della sua Réponse à Derrida (analizzata da Cesaroni)3, seguita da una coerente produzione di pratiche discorsive altre – Foucault ritorna alla filosofia: non per “riabilitarla”, ma per articolarne una struttura etica da assumere come discorso che struttura il soggetto che lo enuncia, che non recide «il nodo politico del rapporto di governo, ma piuttosto vuole renderlo instabile e “problematico”» (p. 160).
In questa articolazione etica tanto del pensiero filosofico quanto dello stile di vita come militanza aleturgica, Foucault interseca Montaigne, come mostra con grande finezza il contributo di Slongo. Anche nell’autore dei Saggi la pratica della cura di sé – pratica politica, nella misura in cui, ancora con le parole di Foucault, «la questione della filosofia non è la questione della politica, ma del soggetto nella politica» – si contrappone a quel “conosci te stesso” che nella modernità ha finito per l’identificarsi con «l’insieme delle regolarità delle pratiche umane sotto la forma della legge, come l’Edipo di Freud che sottomette il discorso “vero” al sapere purificatore del nomos» (pp. 98-99). In questo terreno comune con Montaigne – che Foucault ha solo sfiorato e richiamato, e che resta tutt’ora da esplorare – emerge con chiarezza l’esistenza di una linea di demarcazione «tra una conoscenza volta alla pratica di sé», che comporta una continua tras-formazione del soggetto nelle relazioni con sé, con gli altri e col potere, e «una conoscenza di sé funzionante come una decifrazione di sé» (p. 91), come lavoro di scavo alla ricerca delle verità nascoste, dei piccoli segreti sporchi da portare alla luce e confessare al maestro spirituale, al pastore d’anime, al confessore, allo psicanalista, al giudice, moltiplicando i piccoli tribunali della ragione e legittimando le tecniche che ci hanno costituito attraverso un’ermeneutica del sé. Ma forse, diceva Foucault in conclusione delle sue conferenze al Dartmouth College ( Sull’origine dell’ermeneutica del sé) «il problema che riguarda il sé non è scoprire cosa esso sia nella sua positività […]. Forse il problema, oggi, è cambiare queste tecnologie. In questo caso, uno dei principali problemi politici dei nostri giorni sarebbe, alla lettera, la politica di noi stessi».
De l’amitié comme mode de vie, ora in Dits et écrits, 2 voll., Gallimard, Paris, 2001, vol. II, n. 293, pp. 982-986. ↩
Sul quale mi permetto di richiamare la mia recensione, qui. ↩
La Risposta a Derrida (che aveva criticato l’Histoire de la folie in una conferenza del 1963 pubblicata su rivista l’anno successivo, e poi inserita in La scrittura e la differenza) fu pubblicata come appendice alle successive edizioni della Storia della follia a partire dal 1972. Quella analizzata da Cesaroni è una precedente versione, pubblicata sulla rivista giapponese “Paideia” (n. 11, 1972, pp. 131-147), e poi confluita nel primo volume dei Dits et écrits, n. 104, pp. 1149-1163 ↩