di Riccardo Valla
Il presente articolo di Riccardo Valla correderà l’edizione di Urania Collezione del più famoso romanzo di Stanislaw Lem, Solaris, in edicola a gennaio. Va in tanto segnalata l’uscita di un altro vertiginoso romanzo di Lem: Memorie di un viaggiatore spaziale, ed. Marcos y Marcos, pp. 514, € 17,50. Ne riparleremo.
Riletto dopo molti anni dalla pubblicazione nel 1961 — o anche dalla sua prima traduzione italiana del 1973 — Solaris si rivela il punto d’incrocio di alcune felici tendenze della fantascienza successiva. Al posto della tensione tra scienza e inconoscibilità che tanto colpirono all’esordio del romanzo, ci pare oggi che il suo spunto di maggiore interesse sia il tema della coscienza di sé, del legame tra consapevolezza e memoria, e la conseguente umanizzazione di un eventuale uomo artificiale; quanto al finale, esso ci appare assai più scontato di quanto non apparisse allora. Cosicché, se nella riduzione cinematografica di questi ultimi anni si scorge soprattutto un mondo di possibile realtà virtuale e di creazione staccata dai vincoli della legge fisica — l’estetica del videogioco — il lettore del romanzo vi nota la componente umana, più che l’accusa contro tutte le teologie, e in particolare quelle della scienza.
I primi commenti su Solaris si rivolgevano soprattutto a tre elementi. Il primo era quello della “solaristica”, la scienza che riempie intere biblioteche di volumi basati sul nulla — su chiacchiere, verrebbe da dire — e che in realtà non sembra avere fatto alcun progresso rispetto a quanto era già stato scoperto nei primi giorni dell’esplorazione. In genere la solaristica era vista come un’allegoria del marxismo quale veniva propagandato nel mondo sovietico: una dottrina “scientifica” che era alla base di tutte le scienze, tanto che persino i testi di matematica russi iniziavano con una premessa marxista (per esempio, quelli di Landau). Quando un autore d’Oltrecortina criticava la scienza, il lettore locale vi leggeva la critica contro il “comunismo scientifico”.
In realtà l’allegoria della solaristica è qualcosa di più di un’ironia sul marxismo di stato ed è quasi una critica generale della scienza non sperimentale, della tendenza accademica a isolarsi dalla realtà, la stessa che faceva dire a un filosofo: “E se i fatti danno torto alla mia teoria, tanto peggio per loro!”. Sembra confermare questa posizione critica nei riguardi delle scienze troppo teoriche una buona parte delle ultime storie della raccolta di Lem La Cyberiade, quando Lem ironizza sui filosofi, soprattutto quelli che vogliono “migliorare” il mondo con la loro ingegneria sociale.
Il secondo punto evidenziato dalla vecchia critica era la vaga ispirazione freudiana delle “apparizioni”: ciascuno dei personaggi della stazione sembra dover affrontare la colpa che è stata più profondamente rimossa, ossia nascosta nel suo inconscio. Anche questo veniva visto come una critica alla psicologia ufficiale sovietica del tempo, che si affidava agli psicofarmaci e alle teorie riflessologiche di Pavlov, mentre quella occidentale usava cure “colloquiali” come la psicoterapia di Freud e Jung, lo psicodramma e simili. Come corollario di questa situazione (le “apparizioni”) si osservava la simmetria dei processi di conoscenza: da una parte c’è il pianeta Solaris che studia l’uomo servendosi di “sonde umane” come la compagna del protagonista, dall’altra abbiamo i terrestri che sondano con i loro raggi X l’oceano intelligente.
Di fronte a questi spunti, almeno in Occidente si tendeva a trascurare il finale, mentre ci si soffermava su di esso nei paesi oltrecortina: una edizione jugoslava del libro aveva in copertina l’immagine delle due mani che si stringevano, quella dell’uomo e quella del pianeta, che usciva dal mare di protoplasma. Qualche critico occidentale era stato colpito dall’osservazione che il nome “Solaris” poteva essere quello di un dio e aveva ricondotto questi spunti al tema del dio inconsapevole, ma più che altro come accenno; niente psicologia dell’età evolutiva degli oceani viventi…
Naturalmente, opere come Solaris, così ricche di immagini profonde e “aperte”, ossia non spiegate completamente, assumono un nuovo significato a ogni generazione: in questo sono “classici”. Personalmente, come osservatore della fantascienza, a una recente rilettura mi colpiscono alcuni spunti che in precedenza non avevo considerato. Il primo è la curiosa atmosfera da storia “weird scientific”: in fondo, le apparizioni sono dei revenant, dei morti ritornati in vita, ed è piacevole notare quanto la componente weird si sposi bene con quella scientifica, come in tanti esempi americani, dal Campbell della Cosa da un altro mondo a molto van Vogt, per non parlare di Bradbury e delle sue Cronache marziane.
Il secondo aspetto è come ci appaia convincente la psicologia delle apparizioni. Analizzandola si scopre che in fondo è la stessa del replicanti di Bladerunner e che si stacca da quella che caratterizzava la fantascienza degli anni Quaranta, quando si vedeva la “personalità” come la somma dei ricordi (il già citato van Vogt, nel suo ciclo del Non-A, ne è il più noto esempio: Gosseyn II è Gosseyn I rinato o è solo un gemello con i suoi ricordi? Il problema — della continuità della coscienza — trova solo ora una sistemazione teorica in Greg Egan, che per esempio, nella Scala di Schild, dà per assunta la continuità della coscienza, come quando si fa girare su due computer uno stesso programma con i suoi archivi; le esperienze della prima copia di Gosseyn che non sono state trasferite alla seconda perché non si è fatto in tempo a registrarle non solo la prova che siamo di fronte a due coscienze diverse: semplicemente deve essere considerato un periodo di amnesia. Ma prima della diffusione dei computer e conseguente individuazione di una parte hardware e una parte software nei calcolatori artificiali o naturali, non era chiaro come impostare questi problemi). Qui e nel film Bladerunner si mostra però una cosa leggermente diversa: la possibilità di una personalità completa nelle sue reazioni affettive e comportamentali anche se priva di ricordi; è interessante come cresca progressivamente in umanità e come, invece, gli altri umani reagiscano vietandoglielo (salvo poi pentirsene come succede al protagonista di Solaris) esattamente come in Frankenstein era negata l’umanità della creatura artificiale. Le “apparizioni” di Lem ci sembrano semplicemente amnesiache. Per esse è come se il comportamento e l’affettività fossero composti di archi riflessi, di condizionamenti pavloviani.
Col senno degli anni trascorsi e degli scrittori comparsi durante il periodo, assume anche una nuova sfaccettatura il pianeta stesso e il concetto che l’uomo sia “l’erba dell’universo”. L’idea che la ricerca di altre intelligenze si confini alla ricerca di nostri uguali è oggi una semplice constatazione anziché un’accusa come allora. In tempi in cui l’universo si spiega con il principio antropico (se l’universo non fosse “favorevole all’uomo”, non potremmo esistere e quindi è inutile rallegrarsi del fatto che le costanti universali siano propizie all’esistenza delle stelle e della vita) è chiaro che possiamo cercare solo ciò che rientra nel campo dei nostri strumenti di ricerca, fisici e concettuali. A questo proposito, l’oceano intelligente di Solaris ci sembra molto più familiare di certe forme di vita immaginate recentemente da Greg Egan: le associazioni microscopiche del racconto Luminous, che operano come supercalcolatori, o gli esseri virtuali che abitano nei “tappeti” descritti in Diaspora; entrambe le volte, l’uomo ne scopre l’esistenza per caso, non perché si sia messo alla loro ricerca.
Ma qual è il significato del romanzo? Nelle parole di Lem, la conclusione è che quella intelligenza così gigantesca sia un dio che compie miracoli crudeli (o meglio, che posa compierli come un dio); il protagonista, dopo avere riscoperto i propri sentimenti e averli bruscamente persi, pensa di essere infine giunto a una verità, ossia che il pianeta sia alla fase infantile di chi sta ancora sperimentando le proprie capacità. In questo caso, le varie costruzioni che gli studiosi della Terra elencano minuziosamente sono l’equivalente solariano dei giochi dei bambini con i cubetti da montare (anche se i cubetti sono singole molecole e ne gestisce contemporaneamente dieci alla trentesima potenza, ma infatti è un’intelligenza gigantesca) e i mimoidi sono le copie che si diverte a fare degli oggetti che incontra. Si potrebbe obiettare che se Solaris il mare intelligente ha acquisito quei poteri deve avere alle spalle un certo sviluppo a partire dal brodo primordiale e che questo mal si concilia con l’idea che sia un’intelligenza ancora infantile, ma è evidente che a Lem non interessava spiegare tutto, come nella science fiction americana. Però in fantascienza a non spiegare tutto si autorizza la critica a prendere l’intero discorso come una metafora e non come una dimostrazione.
L’aspetto del finale che più colpisce è però di tipo più letterario e riguarda il suo inserirsi in un discorso più ampio. Per comprendere Solaris, ci testimonia il libro, la scienza umana non è sufficiente. La solaristica si perde lungo direttrici sempre più formali, dimentica i dati sperimentali o li nasconde. Il modo scelto dal protagonista è di genere diverso e ammonta a comprenderlo per fede. Tacitare le esigenze di razionalità attraverso un ricorso all’emozione. Alla fine del libro, al protagonista, di tutta l’esperienza, resta solo la speranza che l’epoca dei miracoli crudeli non sia terminata.
È interessante notare come questa posizione si inserisca in un filone tipicamente russo. Il peccato (qui l’avere ucciso — per atto di omissione — la reincarnazione della sua ex amante quando essa era ormai chiaramente umana) trova perdono quando è stato compiuto per troppa passione. Una visione russa che nel polacco Lem ha fatto parlare di una sua vicinanza alla religione. In realtà è una fede nell’emozione, una religione umanistica, come nei romanzi dei fratelli Strugatski (il finale di Stalker, quello di È difficile essere un dio, l’incontro del protagonista del Direttorato con le super-donne che abitano nella foresta). Negli stessi anni, anche Dick, dall’altra parte della Cortina, arrivava alle stesse conclusioni: incerto della realtà, il protagonista dickiano trovava l’equilibrio con un ritorno ai sentimenti o all’arte, che dei sentimenti costituisce una forma concentrata. Il tema era evidentemente nell’aria in quel periodo “prima dell’Età dell’Acquario”.