Dice l’editore Marsilioblack: “E’ uscito Pessimi segnali, il nuovo romanzo di Enzo Fileno Carabba. Un vero e proprio Oggetto Letterario Non Identificato, che esce in una collana noir ma sarebbe stato ugualmente al suo posto (o fuori posto) in una collana fantastica, o dell’orrore, o fantascientifica, o letteraria. Forse proprio per questa sua inclassificabilità, ha anche una storia editoriale particolare: prima che in Italia è infatti uscito in Francia, nella mitica Série Noire di Gallimard. Ai tempi ne aveva parlato Valerio Evangelisti, affermando: ‘la scrittura elegantissima, colta e ironica di Carabba, le sue storie tra il poetico e il delirante, sfidano e vincono in originalità tutta la nostra produzione letteraria corrente’. Carabba ha rilasciato una lunga intervista al sito Il popolo del blues di Ernesto De Pascale”. Che qui riprendiamo.
Stefano Loria: I tuoi esordi sono stati quelli di un ragazzo prodigio della letteratura italiana. Eri molto giovane quando hai vinto il Premio Calvino, nel 1991, con il tuo primo romanzo, Jakob Pesciolini. Quel libro mostrava una vena narrativa molto personale e bizzarra, sia a livello di temi che di linguaggio impiegato. Tutto il tuo immaginario appariva già molto contaminato con altre forme espressive (fumetto, cinema, teatro).
Questo impeto iniziale mi sembra rimasto – fortunatamente – acceso attraverso l’intera tua produzione fino a questa ultima opera, Pessimi segnali, che mi pare visionaria, ironica, sognante ma capace di raccontarci qualcosa di vero che attraversa il vissuto contemporaneo in Italia.
Enzo Fileno Carabba: Il fatto è che l’Italia di oggi è una terra stupefacente, con squarci visionari che si aprono nel quotidiano. Ti faccio un esempio semplice e personale.
Nella zona dove abito, in campagna, si sono verificati diversi furti. Il mio vicino di casa ha cominciato a indagare. E’ un americano, una persona squisita, gentile, molto religiosa: mi ha regalato un libro su Gesù intitolato Più che un falegname. E’ anche uno dei derubati. Ha trovato delle tracce che secondo lui svelano l’appostamento di uno dei ladri, magari quello che faceva il palo. Il mio vicino pensa che torneranno. Allora insiste perché vuole che io mi nasconda con lui nella vigna, nottetempo, per sorprendere i malviventi e massacrarli. Lui con la mazzo da baseball, io con il fucile subacqueo carico.
Ti lascio immaginare, al di là delle implicazioni morali, quelle pratiche.
Ora, se io scrivessi una storia del genere, sembrerebbe una parabola visionaria. Invece è una cosa che mi è stata proposta come normale.
E poi basta leggere i giornali. Non mi riferisco alle notizie grandi e terribili sulle torture preventive, il missile terapeutico (il missile è la supposta dei popoli) e la strage didattica. L’altro giorno ho letto una lettera di una ragazza, esasperata dal fatto che la madre cartomante vede e prevede che la figlia soffrirà perché il fidanzato si rivelerà un mascalzone.
Terzo e ultimo esempio sul nostro mondo. Ho appena rinnovato l’assicurazione della macchina, un’assicurazione normalissima, standard. Leggo che prevede:
“1. Atti vandalici, di terrorismo o sabotaggio anche in occasione di tumulti o sommosse.
2. Inondazioni, tempeste di vento, cicloni, tifoni, smottamenti di terreno, caduta di neve, esplosioni naturali, grandine.
3. Caduta di oggetti, caduta di aerei o missili o parti di essi”.
Si potrebbe concludere che grandine, neve e pezzi di missili cadranno con la stessa facilità
Nei libri precedenti “pigiavo l’acceleratore nella nera notte dell’irrealtà”, per dirla con le parole di un grande autore. Mentre in Pessimi Segnali ho cercato di raccontare qualcosa che riguarda il vissuto contemporaneo in Italia, come dici giustamente.
In generale, non ho mai avuto una grande fiducia nel realismo, nella sua capacità di cogliere la realtà. Mi sembrava, che il realismo fosse uno sguardo piatto, a una sola dimensione.
Le grandi storie dell’umanità non sono realistiche (con eccezioni che puoi contare sulla punta delle dita, se ti hanno amputato una mano): riguardano gente che incontra le sirene e uccide ciclopi, gente che visita l’Aldilà in compagnia di Virgilio, tipi che danno la caccia a balene bianche palesemente mai censite dal wwf. Le grandi storie dell’umanità parlano di burattini viventi, di cavalieri dalla triste figura, di Orlandi furiosi, di mostri meravigliosi, crocifissi che risorgono, processi incomprensibili, castelli inaccessibili, di magia, prodigio e avventura. Sono storie eccessive e smodate. Eppure ci credi.
Prima di Pessimi segnali ho scritto altri romanzi, abbastanza diversi. Ma non tanto perché quelli erano romanzi fantastici mentre questo ha una base autobiografica (a parte le scene di sesso, quelle sono inventate, però mi sono documentato in biblioteca) ma per un altro motivo. Visto che alcune persone mi dicevano che non avevano capito i miei libri precedenti, un bel giorno ho smesso di ripetermi che erano degli scemi e ho cercato di essere il più chiaro possibile. La mia ambizione era essere chiaro e misterioso.
Negli altri libri il nucleo autobiografico era presente (per forza, secondo me non manca mai) ma era trasfigurato e irriconoscibile. Invece in Pessimi Segnali ci sono perfino episodi riportati fedelmente (ammesso che sia possibile). Per me è una cosa clamorosa, come per uno che ha scritto sempre diari meticolosi sulle imperdibili meraviglie della sua esistenza quotidiana mettersi a scrivere di San Giuseppe in deltaplano.
Ho sviluppato una certa allergia verso la parola “contaminazione”, perché ne è stato fatto un uso eccessivo. Tipo “io contamino la pasta col pomodoro”. Meglio mescolare.
Detto questo, sono perfettamente d’accordo con te. Una storia è una specie di mostro ingordo che ingloba tutto: azioni, pensieri, immagini, suoni e così via. Uno che si mette lì a raccontare qualcosa deve poter prendere da dove vuole. E’ una specie di superpredatore, che ha diritto a stanare tutti gli organismi commestibili in circolazione in quel dato tempo, deve farlo se vuole vivere, però poi li risputa vivi. Oppure, meglio, è un fungo. Non però di quelli che distruggono gli alberi, ma di quelli che ci vivono insieme e addirittura aiutano il bosco. In questo caso il bosco è la nostra realtà.
S. L. Negli ultimi anni molti giovani scrittori italiani sembrano impegnati ad offrirci opere di narrativa che segnano una sorta di ritorno all’ordine. E’ diventato un po’ sconveniente proporre libri che abbiano anche una minima ambizione di sperimentalismo. Intendo questo termine in senso positivo: non la sterile ricerca di una forma che stupisca il lettore solo con la sua stranezza e la sua rarità (anche con difficoltà spiacevoli in evidenza). Penso invece a libri che non dimenticano la complessità in cui tutti siamo immersi, e disegnano scenari simbolici di indiscussa potenza, usando strutture narrative e linguaggi orientati a scoprire una pronuncia più fresca e meno usurata. Potrei fare l’esempio degli ultimi due libri di Paul Auster Il libro delle illusioni e La notte dell’oracolo come opere capaci di portare ai confini più avanzati la narrazione di una storia.Il tuo ultimo romanzo mi pare orientato proprio in questa direzione di ricerca più stimolante. Da un lato offre una storia realistica, ma al tempo stesso funziona un effetto deformante una piega dello stile che è una caratteristica tua originale che porta il lettore in zone inedite dell’esperienza.
E. F. C. L’unica cosa importante a proposito dello sperimentalismo è capire se l’esperimento è riuscito.
E’ vero, è diventata una parola proibita, tabù. Collegata a qualcosa di forzato, intellettualistico, cerebrale. Ma non è per forza così. Dipende. Ci sono anche gli esperimenti riusciti. Per esempio, la musica di Beethoven è sperimentale, dato che sperimentava cose che nessuno aveva mai fatto prima. Ma l’esperimento è riuscito e oggi ci appare naturale. La differenza sta tutta qui. Vale per qualsiasi grande autore (per i Preludi di Chopin, addirittura!). L’esperimento è riuscito quando funziona ma non dà nell’occhio. Se invece senti che l’autore ti strattona e ti dice: oh imbecille, ma lo vedi o no quanto è ardito il mio esperimento? L’ hai notato quel punto cruciale? Bè, in quel caso io non mi entusiasmo, voglio essere lasciato in pace.
Un discorso analogo, ma che non è necessariamente legato allo sperimentalismo, è il seguente. Qualche anno fa, c’erano un sacco di autori consideratissimi di cui non riuscivo a seguire una parola perché sentivo solo un rumore di fondo che diceva: ma lo vedi quanto sono intelligente? Sono intelligente, sono intelligente, sono intelligente. Anche questo non lo sopporto. Ma riconosco che oggi in Italia non corriamo spesso tale pericolo.
Detto questo, ci sono oscillazioni inevitabili. Mentre oggi se citi Gadda o Manganelli o Landolfi (autori che ammiro immensamente) ti guardano malissimo, fino a qualche anno fa la letteratura doveva essere sperimentale. Tutti cercavano di collocarsi all’avanguardia di una immaginaria antologia. E in verità anche questa era una cosa insopportabile, presuntuosa e sterile. Uno che pretende di collocarsi!
Quando ero bambino, c’era un tipo umano onnipresente, lo trovavi anche ai giardinetti. Non era il pedofilo. Era colui che dice cose tipo “Dopo Joyce non si può scrivere nulla, se non si riesce a inventare qualcosa per andare oltre”. Questa affermazione presuppone:
1 Che esiste un’evoluzione lineare della letteratura e delle cose, una specie di glorioso progresso spirituale. 2 Che chi parla ha capito benissimo qual è questa linea evolutiva. Lui la sa lunga, ha studiato. 3 Che chi parla intende porsi nel puntino estremo, più avanzato, di questa linea, anzi vuole essere questo puntino.
Tutto ciò è insensato, orribile. E deriva da una visione accademica. L’avanguardia e l’accademia possono essere molto vicine. E allora in effetti io capisco la reazione di rigetto che si è verificata. In tanti hanno cominciato a dire: ma io veramente vorrei semplicemente raccontare una storia con una trama che mi appassiona e una bella ragazza sessualmente attiva, e il vecchio Joyce può fare quello che gli pare.
E così uno che proclama “ora farò qualcosa di nuovo”, secondo me, di solito, con rispetto parlando, è un cretino. O perlomeno io preferirei che uno mi dicesse: senti caro, ora ti dirò quanto mi siano rimasti nel cuore i viaggi con i miei genitori, quando ero piccolo. Solo che per dirlo davvero è costretto a inventarsi qualcosa di nuovo, perché solo così riesce fartelo capire.
Per esempio Ballard, per dirci veramente quanta impressione gli hanno fatto le piscine vuote che ha visto nel 1942 a Shanghai, ne ha dovute inventare di cose.
Inventando storie bisogna riuscire a essere sinceri, cosa che non è per niente facile.
Tornando in Italia. A quanto pare ci sono i corsi e ricorsi e fanno schifo tutti e due.
Infatti quel tipo losco dei giardinetti che parlava solo di Joyce è stato soppiantato da un’altra specie di uomo eterno e onnipresente. Il bello è che anche fisicamente e perfino nell’abbigliamento e nel modo di gesticolare hanno caratteristiche ricorrenti, ognuno le proprie. Appunto per questo io penso che siano solo due individui, però sono eterni, insonni e ubiqui. A volte prevale uno a volte un altro.
Il tipo ubiquo che va ora, parla del giallo (potrebbe essere un altro genere, in questi giorni è il giallo). Elogia la capacità di raccontare storie con un capo e una coda, la trama i personaggi, la plausibilità del dialogo, la sorpresa, l’ambientazione e così via. Dice che il giallo è stato ingiustamente relegato in un angolo.
Ebbene: ha ragione (in verità, tutti gli uomini eterni hanno parzialmente ragione, sennò non sarebbero eterni). Quello che non torna è che ne parla come se fosse ancora relegato in un angolo. Mentre invece è diventato una delle specie dominanti, se non la specie dominante. Io sono contento che si sia preso la giusta rivincita, però non esageriamo.
E’ come se uno dicesse, basta che le tigri coi denti a sciabola che ci divorano, è il tempo dell’ homo sapiens. Eh no! Siamo contenti che l’homo sapiens abbia trionfato, però ora stai calmo.
Poi il secondo uomo eterno parla dell’investigatore. Come è l’investigatore? O il commissario, o l’ispettore. Udite. Non è un superuomo, non è intelligentissimo. No, è stanco, disilluso e così via.
Sono anni che sento questi discorsi, detti come se fosse la scoperta del momento. Ma gli si è incantato il disco? Ma basta, diamogli degli integratori vitaminici, del potassio, del magnesio, a questi investigatori sfibrati.
Questa ripetitività riguarda anche i mostri, che fanno sempre meno paura. E questo perché hanno perso vigore morale, se si può dire così di un mostro. Non sono più minacce, sono diventati ingredienti.
Decine di autori dichiarano che loro per scrivere il libro si sono messi a pensare come il mostro e così ha fatto il loro investigatore. Ma come si permettono? Ci credo che poi i mostri sono stanchi come commissari.
Gli unici veri maniaci sono quei lettori che hanno bisogno di sorbirsi alla televisione e sui giornali prima ancora che sui libri – quantità crescenti di situazioni maniacali e al tempo stesso prevedibili.
La vittima stava inginocchiata tra le gambe del nonno del suo amante, quando è stata trucidata con un cavatappi. Cosa stava facendo? Qual era l’angolazione del cavatappi? Perché mai il nonno del suo amante aveva le mutande calate?
Interrogativi di questo tipo vengono posti con la massima serietà e sembrano interessare enormemente.
Non mi piace questo ritorno all’ordine. Tutto quello che non è in linea con l’ortodossia romanzesca trova ostacoli spaventosi. Oggi tanti capolavori del passato non uscirebbero. Ma anche grandi autori contemporanei, per esempio Celati, mi sembra non abbiano lo spazio e la risonanza che meritano.
Noi viviamo in un mondo che procede per spot. Molti scrittori rinomati hanno in sostanza un talento da pubblicitari. La maggior parte dei romanzi assomiglia a sceneggiature. Molti di quelli che vogliono scrivere si nutrono di manuali di scrittura, e poi li espellono in forma di letteratura con pochi aggettivi, pochi avverbi, sporadici congiuntivi e soprattutto questo sembra essere di estrema importanza nessun punto e virgola. Un signore una volta mi ha detto che lui legge i manuali perché non ha tempo di leggere i romanzi.
E’ l’era dei simulacri.
Oggi vige il dogma della riassumibilità: tutto deve essere riassumibile in uno slogan mentecatto. Pochi anni fa ci si vergognava a dire: io non ho capito. Questo era sbagliato, per il famoso principio dei vestiti dell’imperatore (o era il re?). Ma ormai tutti lo sbandierano come un vanto, come una deliziosa dimostrazione di temperamento genuino. La cosa è cominciata alla televisione per poi dilagare fuori. E’ un incubo. Le voci si accavallano vanitosamente, cercano di prevalere. “Io ho capito poco”, “Io ancora meno”, “Io nulla!” “Io non ho mai capito un tubo!”
A volte la ricerca di zone inedite dell’esperienza diventa una forma di narcisismo. Però, anche qui, di questi tempi mi sembra che siano pochi a correre questo rischio. I più inseguono uno stile piatto, semplificato, standard, che corrisponde a una visione del reale piatta, semplificata, standard.
In questo clima le zone inedite dell’esperienza sono viste con sospetto. Ma io credo che le cose cambieranno, stanno già cambiando, non può durare così in eterno (cavolo… ora mi viene il dubbio). Infatti nonostante questo clima generale ci sono all’opera in Italia dei grandi autori. Che raccontano qualcosa di nuovo e al tempo stesso ti fanno entrare in una storia appassionante, che ci riguarda (perché le zone inedite dell’esperienza da sole non bastano, è bene restino inedite, se l’autore di ammorba col tedio). Penso per esempio a uno dei miei autori preferiti in assoluto, Valerio Evangelisti.
S. L. In Pessimi segnali la voce narrante del protagonista racconta in prima persona le proprie avventure. Questa impostazione porta necessariamente a confondere nella percezione del lettore, sempre stregato dalle storie che ascolta e disposto a dare fiducia all’autore pura invenzione e verità autobiografica .
Non ti rivolgo l’inopportuna domanda che si è sempre tentati di porre in queste situazioni (“le avventure del personaggio sono state realmente vissute dall’autore?“), invece ti chiedo di provare a descrivere il rapporto che intrattieni con l’invenzione letteraria: le vicende che narri in questo ultimo libro scaturiscono da un fondo remoto della tua coscienza, come oscuri impulsi incontrollabili, oppure sono il risultato di un disegno più razionale, come il progetto di un architetto attento a bilanciare ogni aspetto della struttura creata?
E. F. C. Secondo me il lettore fa bene a dare fiducia alla voce dell’autore, in questo caso. Alla fine un bel libro non è un prodotto, non è un’operazione, ma è innanzitutto la testimonianza di una persona. Anche se non so bene quale. E’ la liberazione di forze che sono dentro la persona. Una liberazione controllata.
Il fondo remoto della coscienza e il disegno razionale non si escludono a vicenda. Un bel libro è proprio il frutto del matrimonio riuscito di queste due cose. Ci devono essere oscuri impulsi incontrollabili, forze sgrammaticate o addirittura prelinguistiche, a cui tu salti in groppa e alla fine le controlli: ci devono essere un superpredatore e un superdomatore nella stessa persona.
King da qualche parte ha detto che lui è riuscito e mettere al lavoro il diavoletto che aveva dentro la testa.
Per me l’architettura è fondamentale, in una storia, ma anche l’architettura nasce da impulsi profondi. L’architettura non è fredda, è parte dell’organismo. E’ lo scheletro del superpredatore (o del superdomatore, ho un po’ perso il filo) se non ce l’ ha è un supermollusco. Che comunque può avere un suo fascino.
Scrivendo devi evocare gli spiriti ma anche dominarli. Sennò basterebbe fare una seduta spiritica.
Tornando all’uso della prima persona. Ammetto che ci sono parti inventate, forse tutte, ora che mi ci fai pensare. Inoltre il protagonista vede le cose in modo molto negativo, le vede deformate dalla sua stessa aggressività. Questa è solo una parte di me. Per dire, io non ci andrei mai in vacanza con un tipo così, anche se sono io.
Alla fine, a forza di camminarci dentro, questi luoghi mi hanno raggiunto. Sono entrati nelle cose che scrivo.
Mi è sempre piaciuto fare dei giri a piedi nelle colline, fin da bambino. Una volta adulto, i miei giri si sono fatti sempre più lunghi. Così ho scoperto posti di cui non sospettavo l’esistenza e individui memorabili, nel bene e nel male. Gente che abitava a pochi chilometri da me ma viveva in un altro mondo.
Non ne scrivevo mai, se non in modo mascherati. Magari descrivevo un piccolo canyon di argilla dove mi piace sedermi quando c’è vento, ma lo descrivevo sprofondandolo a quaranta metri sotto il livello del mare, e le radici sporgenti diventavano alghe o cavi. Immaginavo mondi lontani e incredibili, però li immaginavo camminando per i boschi o sui crinali vicino a casa, che premevano per manifestarsi e a volte hanno preso forme bizzarre.
D’alta parte, è camminando da quelle parti che le storie cominciano ad agitarsi nella mia testa.
Ci sono posti di cui sento il richiamo anche prima di addormentarmi. Davvero. (Di un pazzo che fa giri a piedi sempre più lunghi, che diventano per lui come una droga, in quelli che il poveretto definisce Territori selvaggi, parlerò in un altro libro, che è il seguito di Pessimi Segnali).
Un bel giorno qualcosa è cambiato. Mi sembrava di non essere abbastanza chiaro. Luoghi, vicende reali, persone, si sono imposti nella mia mente. Fusi a menzogne colossali, è chiaro.
Così è nato questo libro, che descrive gli abissi della provincia Toscana visti da un’ambulanza in corsa sulle emergenze, tra stradine di campagna e autostrade. Soprattutto nel Valdarno, che è ormai una specie di metropoli frantumata. Una piccola Los Angeles diluita e assediata dalla natura che ingloba i ruderi. Una terra dove le industrie convivono con antichi pensieri. Là nulla è quello che sembra. I capannoni ai margini della campagna abbandonata, vasta e splendente come un deserto. Il fiume sporco e minaccioso, che molti insensatamente sembrano amare. I riti che sopravvivono dove meno te lo aspetti. E’ un mondo chiuso, ma pieno di presenze straniere.
Non è vero che il mondo è più piccolo. E’ più facile andare da una città all’altra. Ma in mezzo si espandono le voragini. Sono regioni abbandonate. Fuori dalle nostre vite, accanto alle nostre vite, nelle zone d’ombra dell’era elettronica, si aprono luoghi che la maggior parte di noi non immagina.
Insomma, per farla breve mi è venuto un desiderio violento e insano di descrivere i posti che mi circondano. Il bello è che io sono cresciuto più vedendo La mummia o Alien o Il ritorno dei santi cannibali (ingiustamente dimenticato) che visitando i Musei della cultura contadina. Questo perché i Musei della cultura contadina mi fanno paura. Ma credo non ci sia contraddizione. Queste terre riservano grosse sorprese, belle e brutte. Dopo tutto, se vai su Marte trovi della terra rossa, come dietro a casa mia.
S. L. Tu sei un grandissimo appassionato di cinema, un divoratore di fumetti, un lettore onnivoro di narrativa e saggistica. In più hai anche una formazione molto sofisticata nel campo della musica classica. Insomma rappresenti un tipo di scrittore che incrocia nella propria pratica molte differenti discipline. Proprio conoscendo questa tua molteplicità di ispirazioni, ti chiedo di confessare cosa pensi dello strumento romanzo allo stato attuale del suo sviluppo: è ancora un mezzo capace di raccontare con sufficiente potenza evocativa le nostre vite e le diverse realtà che ci circondano?
E.F.C. Non ho mai capito bene cosa sia un romanzo. Mi sembra ci siano vari modi di intenderlo. Le metamorfosi o l’asino d’oro di Apuleio, scritto nel II secolo d. C., un libro che a me piace molto, viene spesso definito romanzo. Ma evidentemente ha poco che vedere con Anna Karenina, a meno che non la si consideri un’asina. Per questo io preferisco riferirmi al raccontare storie, così comprendo anche un sacco di altre cose, per esempio i poemi, che altrimenti a rigore sono tagliati fuori. Invece molte delle migliori storie dell’umanità sono state narrate in versi. Forse non mi interessa neanche stabilire cosa sia un romanzo, se non da un punto di vista storico.
A volte a proposito di qualche testo contemporaneo ho sentito la reazione sdegnata: Ma perdinci, questo non è un romanzo!
Bè, non è detto che sia una cosa negativa. Vale anche per l’Odissea.
Leggendo la maggior parte dei manuali di scrittura che spiegano come scrivere romanzi, magari dotati di scene di sesso acrobatico, eppure così puritani e morigerati dal punto di vista letterario, mi verrebbe da dire: il romanzo si sta estinguendo a causa di deficit sessuali. Ma sarebbe un discorso senza senso. Il bisogno di raccontare storie non muore. Lo puoi chiamare poema, o rominzo, o romonzo, o romenzo (visto che mi chiamo Enzo) e sicuramente muta nel tempo. Per forza. Per fortuna.
Circa la tendenza all’inscatolamento. L’inscatolamento ha la sua indubbia utilità. D’altra parte con l’inscatolamento eccessivo non ci sarebbe mai stata l’evoluzione. Fai l’esperimento. Metti una scimmia in una scatola e vedrai che non diventa un uomo. Mettici tutti i tonni che trovi e alla fine i tonni spariscono. Lo stesso vale per i generi letterari, che possono essere culle vitali o trappole mortali, trampolini o conventicole di maniaci rimbambiti dall’erudizione settaria. Dipende se sono aperti o invece chiusi.
Quando ho proposto Pessimi segnali ai miei interlocutori abituali (che vorrebbe dire l’editore di allora) mi hanno detto: “E’ il tuo libro migliore, se fosse un primo un libro lo pubblicheremmo subito. Ma è troppo diverso dagli altri”.
Mi hanno anche detto: per essere un noir in certe parti non è abbastanza noir, ma per non essere un noir in certe parti è troppo noir.
E’ passato del tempo, poi il libro è uscito nella Serie Noir di Gallimard, dunque prima in Francia che in Italia. In un certo senso è un libro francese. Io ho scritto una traduzione in italiano prima che esistesse l’originale.
Nel frattempo nonostante mi sia sforzato non ho ancora capito cosa è un noir.
Mi è capitato di incontrare molti grandissimi autori di noir, non solo italiani, e ognuno mi ha dato con sicurezza una definizione diversa, in contraddizione con le altre, perché era la sua definizione. Questa è una cosa positiva, per via del discorso del trampolino.
Da qualche parte devo aver letto che il noir è un genere in cui ognuno dà il peggio di sé (immagino che si riferisse ai personaggi, non al narratore). Non so se questa definizione sia giusta, immagino di no, comprenderebbe troppi libri, però mi è piaciuta e credo descriva bene, più che il noir, i nostri tempi.
Per il resto, ignoro le famose regole del noir di cui sento parlare. E più cerco di conoscerle più le ignoro. (Perfino quando scrivo la parola sbaglio, digito quasi sempre “nior”, che mi sembra meglio, più orientale)
Il fatto è che ci sono tutti questi esperti in definizioni assolute che infestano il mondo.
Dunque, quando ho parlato per la prima volta con Francoise Liffran, la traduttrice francese, ero piuttosto inquieto. Senza volerlo, ero entrato nell’incubo paralizzante della definizione esatta. Il mio libro sarà un noir o no? Sarà troppo noir per non essere noir o troppo non noir per essere noir? Cosa sarà veramente? Ho osato chiederlo a lei, che mi ha risposto: “Questo libro è un coniglio rosa”. Mi sembra una bellissima risposta trampolino.
S. L. Per concludere, una domanda che riguarda la tua attività di docente in scuole di scrittura. Non ti chiedo la qualità più importante per un autore oggi, ma al contrario: quale è a tuo parere il difetto più orripilante, lo strapiombo più pericoloso nel quale può cadere l’ingenuo “giovane scrittore” che si aggira nella selva oscura della creazione romanzesca ?
E.F.C. Tempo fa sono andato a tenere un corso presso una importante scuola di scrittura frequentata da ragazzi dai vent’anni in su, più o meno, quindi potremmo dire adulti. In qualche modo un’elite.
Di solito camminando per i corridoi sento l’eco delle opere a cui stanno lavorando. Invece stavolta sono arrivato e la scuola era in subbuglio. C’era una specie di sollevazione. Ho chiesto il motivo della protesta. Il fatto grave era questo: gli era stato chiesto di leggere Proust!
Mi hanno spiegato che a loro non interessavano mica zie, tazzine, biscotti, salotti, parchi e possedimenti. Eh no, cazzo! A loro piacevano autori duri, per esempio Ellroy, o Tarantino, o Palahniuk, o Bunker. Volevano cose al passo con in tempi, come quella donna che in una pubblicità diceva “io vivo col mio tempo, la performance”.
Non vorrei sembrare critico. A me Ellroy e gli altri autori citati piacciono moltissimo. Però questi ragazzi, o meglio questi adulti erano evidentemente dei deprivati, dei perturbati. I figli dell’epoca del dogmino, che è poi la nostra epoca, fatta di tanti piccoli dogmi coltivati da piccole sette a forza di spot. Gli spotgmi, potremmo chiamarli.
Questo perché abbiamo un’identità fragile, volatile, evapora continuamente e allora ci vogliono dei coperchi per tenerla lì. Tutti sono avidi di essere qualcosa, di appartenere a qualcosa, di attaccarsi come patelle a qualche coperchio. Poi quando la patella guarda verso l’alto è convinta di vedere il cielo e invece è solo il coperchio.
Tra parentesi ci sono spotgmi a tutti i livelli. Anche Bin Laden che passeggia per le montagne con un bastone in mano e tutta l’aria di essere in cerca di funghi è uno spotgma. Anche gli articoli e i servizi televisivi che regolarmente ci vengono propinati e che descrivono l’invincibilità del soldato tecnologico occidentale.
Tornando ai libri, il fatto, che dovrebbe essere ovvio, è che uno può scrivere un’opera sconvolgente parlando delle posate d’argento della sua ricca zia e un altro può scrivere un libro insulso parlando di omicidi e ambienti degradati e gente cosiddetta estrema, che già la parola fa ridere.
In definitiva, diciamo la verità, Proust è meglio di Ellroy.
Insomma io vedo due strapiombi. Uno è quello di chi vuole vivere col suo tempo, la performance. E allora scrive testi pieni di ammazzamenti, fintamente trasgressivi, ma la lama del coltello non è affilata e la siringa non ha l’ago e i denti del mostro sono cariati. (Tra parentesi, se Proust è meglio di Ellroy, Primo Levi è meglio di Thomas Pynchon. Un altro che le persone colte citano in maniera ossessiva. Pynchon è un autore notevolissimo, non ci sono dubbi, però non ha scritto niente di paragonabile a Se questo è un uomo, che è più ardito perfino da un punto di vista formale.
Non c’entra nulla, però volevo dirlo.
Anche perché mi pare che ci siano dei testi della letteratura italiana famosissimi eppure sottovalutati. Si pensa che siano “per la scuola”, testi di cui si sa già tutto, che non vivono il proprio tempo, la performance).
L’altro strapiombo, opposto ma tipicamente italiano, lo si vede anche nel cinema, è quello in cui cade chi vuole infilare in qualsiasi obbrobrio che scrive tutti e dieci i comandamenti. Vuole dire le cose giuste, troppo giuste. Questa cosa di infilare tutti e dieci i comandamenti è riuscita solo una volta, tanto tempo fa.
Poi vorrei mettere in guardia circa le indicazioni che si trovano su quasi tutti i manuali di scrittura. Per esempio: mostra, non dire;evita i concetti; il personaggio deve venire fuori solo da come parla e agisce; attento a aggettivi e avverbi; evita le spiegazioni; taglia i binari morti. Tutte cose in parte giuste, ma sono diventate la Bibbia. E come tutte le Bibbie, alla fine uccidono. Queste indicazioni catechistiche riducono i romanzi a una cosa troppo composta e ordinata, per miei gusti. Producono romanzi che “scorrono” (ormai da anni è diventato il valore supremo) come fedeli che vanno a prendere l’ostia, ma a forza di scorrere spariranno senza lasciare traccia. In base a queste “regole” da prima comunione del libro, la maggior parte dei grandi libri del passato anche recente, molto più irregolari e tumultuosi, molto più arditi, oggi non verrebbero pubblicati, oppure, nel migliore dei casi, verrebbero sottoposti a un editing selvaggio per civilizzarli e renderli casti dal punto di vista formale.
Un’altra cosa è che non sei te stesso solo quando scrivi di getto, come misteriosamente pensano i più (e qui ci si ricollega al problema del disegno razionale) ma sei te stesso anche quando riscrivi, anche quando lavori e rimugini su quello che hai scritto. Sembra impossibile, ma i più sono ostili a questa semplice verità. Hanno un’idea falsa della spontaneità. Ci credo che poi guardano il Grande Fratello. Io penso anzi che potremmo organizzare una specie di Grande Fratello per scrittori, dove si segue in diretta un gruppo di gente che scrive, e soprattutto quello che scrivono. Magari i concorrenti scrivono su un grande schermo e si giudicano a vicenda e vengono giudicati dal pubblico. Credo non ci sia bisogno di precisare che trombano continuamente per tenere desta l’attenzione del telespettatore spontaneo.
Un’ultima cosa. E’ un discorso un po’ da prete. Ma vorrei riscattarmi per quello che ho detto prima sulla Bibbia che uccide. Inoltre ti ricordo che il boccone del prete è il migliore, quindi forse anche il discorso. Conosco tantissime persone (persone sceme, persone brave e intelligenti, persone di talento, persone di tutti i tipi) che hanno questo in comune; ritengono di ricevere dalla vita molto meno di quanto dovrebbero, in relazione ai loro meriti eccezionali. Si sentono defraudate. Questo, specialmente nelle persone che si dedicano a attività creative, può trasformarsi una specie di risentimento perpetuo che diventa un muro, una prigione.
Ma sarà vero?
Ci saranno davvero questi meriti eccezionali?
Enzo Fileno Carabba è nato nel 1966 a Firenze, dove vive tuttora. Ha pubblicato per l’editore Einaudi i romanzi: Jakob Pesciolini (1992, vincitore del Premio Calvino), La regola del silenzio (1994), La foresta finale (1997). Sono poi usciti i romanzi Attila (2000) e La bambina della tempesta (2001), mentre il racconto Il buio è stato scelto da Valerio Evangelisti per l’antologia Tutti i denti del mostro sono perfetti, pubblicata negli Oscar Mondadori Best Sellers (1997), e un altro racconto è apparso, insieme ai migliori autori italiani di noir, nell’antologia curata da Serge Quadruppani, Portes d’Italie (2001), uscita in Francia e in Italia.
Nel 2003 il romanzo Mauvais signes, inedito in Italia, è uscito in Francia, nella collana Noir di Gallimard. In Italia uscirà nel 2004, col titolo Pessimi segnali, per la casa editrice Marsilio.
Ha scritto libri per bambini, una guida semiseria a Firenze e libretti d’opera, collaborando inoltre come conduttore e sceneggiatore a varie trasmissioni radiofoniche.
Il suo nuovo romanzo, Pessimi segnali, pubblicato da Marsilio, è in uscita nel mese di novembre 2004.
Jakob Pesciolini, Einaudi 1992
La regola del silenzio, Einaudi 1994
La foresta finale, Einaudi 1997
In gita a Firenze con Enzo Fileno Carabba, Paravia Gribaudo 1997
Il buio, in Tutti i denti del mostro sono perfetti Mondadori 1997
Il cubo incantato Panini 1998
Attila, l’incontro dei mondi, Laterza 2000
La bambina della tempesta, Adnkronos 2001
Ombre che volano, ombre che strisciano, in Quattordici colpi al cuore Mondadori 2002
Mauvais signes, Gallimard 2003