di Alexik
[A questo link il capitolo precedente]
A discolpa di Nichi Vendola potremmo dire che non fu lui ad inaugurare la stagione della subalternità ai padroni delle ferriere. Al suo esordio da governatore, infatti, c’era già una lunga e consolidata tradizione di amichevoli confronti e leziosi convenevoli fra potere politico e vertici del siderurgico.
La trattativa Stato/Ilva iniziò già all’indomani della privatizzazione. In ostaggio migliaia di lavoratori e un’intera città, ma la contrattazione, purtroppo, non verteva sulla loro liberazione in vita e in salute. Semmai il contrario.
Mediare al ribasso ciò che non era contrattabile, dilazionare all’infinito l’esercizio del diritto (costituzionale ?) alla salute, non c’era altra via che consentisse ai pubblici poteri di proteggere i profitti dei Riva dai costi di una reale bonifica dello stabilimento. Altrimenti perché mai glielo avrebbero svenduto per quattro soldi e senza condizioni ?
In prima fila nella trattativa la Regione Puglia, che dal lontano 1997 si adoperò con continuità per farsi prendere per il culo in una serie di accordi disattesi. Risaliva al 30 giugno di quell’anno, infatti, il primo piano di intesa “circa l’urgente necessità e l’indispensabilità di procedere in tempi congrui alla riduzione delle emissioni in atmosfera derivanti dal centro siderurgico di Taranto, con l’utilizzo delle migliori tecnologie”1 . Ah, le migliori tecnologie !!! Quante volte in questa storia verranno evocate !!!
Il piano del ’97 era rivolto alla messa a norma dell’impianto di produzione del coke, dove l’ASL aveva rilevato alte concentrazioni di cancerogeni. L’accordo non si dimostrò molto efficace. Nel 2001 la situazione era del tutto immutata, tanto da indurre il sindaco di Taranto ad emanare un’ordinanza per il fermo di due batterie di forni, che venne fatta rispettare con un sequestro della procura. Insomma, nonostante l’urgente necessità, la Regione se la fece menare per 5 anni, fino a che qualcun altro non si pose il problema dell’esercizio dell’uso della forza nella pratica dell’obiettivo.
La stagione dei protocolli di intesa continuò nel nuovo millennio sotto il governatorato di Raffaele Fitto, tutto fiero di aver aperto “un percorso che apre alla comunità tarantina un futuro di sviluppo nel rispetto ambientale”2 . Che bella l’armonia fra ambiente e sviluppo !!! Un’ immagine di pace e di speranza che anche nella retorica vendoliana diventerà ricorrente come un tormentone balneare.
Ma Fitto poteva dirsi fiero di che ? L’accordo del gennaio 2003 individuava, come sistema “realmente efficace” per proteggere gli abitati dalle polveri dei parchi minerali l’ampliamento delle collinette artificiali e delle alberature fra lo stabilimento e le aree urbane, oltre a una migliore filmatura dei cumuli in stoccaggio. La “reale efficacia” di tali misure è ben conosciuta da ogni tarantino che osi ancor oggi appoggiare le mani sulle lapidi del cimitero o su un davanzale del rione Tamburi.
Secondo l’accordo, una nuova autorizzazione per gli scarichi idrici dello stabilimento avrebbe garantito la salvaguardia delle acque, così come è evidente dalla foto del Mar Grande in prossimità degli scarichi Ilva (2012) riportata qui a fianco3 . Quanto alla salubrità dell’aria, l’Ilva si impegnava a completare il sistema di monitoraggio in continuo dei camini dei forni a coke e dell’agglomerato entro 60 giorni dalla data dell’accordo. Di sicuro, nel 2012, di tali campionamenti – da tempo resi obbligatori dal DM 5 febbraio 1998 – non vi era ancora tracccia4 .
Si prevedeva infine la copertura dei nastri trasportatori, la bonifica dall’amianto e la sostituzione dei trasformatori al PCB (probabilmente già obsoleti). Tutte azioni lodevoli, se non fossero una goccia nel mare della nocività complessiva dell’Ilva. Fra l’altro, alla faccia della bonifica, l’amianto continua tuttora ad emergere qua e là, scoperto ora dagli operai, ora da un tornado.
Per ampliare la barriera di collinette Fitto annunciò trionfalmente uno stanziamento di 56 milioni di euro, ma ancora nel 2005 di euro non se ne era visto manco uno. Forse fu una fortuna, data l’idiozia del provvedimento.
Insomma, al suo arrivo ai vertici della regione, Vendola aveva già tutti gli elementi necessari per giudicare il grado di inaffidabilità dei Riva all’interno di un percorso negoziale, e se la via del patteggiamento fosse foriera di risultati credibili, o solo un modo per procrastinare interventi di bonifica da attuarsi non più per obbligo, ma come risultato di uno scambio dove la Regione doveva pure impegnarsi a buttarci pubblici quattrini. Il neo governatore poteva scegliere se percorrere la strada già battuta, oppure se cambiare rotta, affrontando finalmente la realtà.
E la realtà era (e per molti aspetti continua ad essere) quella che segue: 70 ettari di parchi minerali – immensi cumuli di materiali ferrosi, coke e carbon fossile – che inondano di polveri nocive le periferie della città. Un ciclo di produzione del coke che sputa emissioni cancerogene non convogliate, perché gli impianti presentano perdite e mancano di aspirazioni in varie fasi del processo. Inoltre il materiale refrattario dei forni prima o poi si crepa, lasciando uscire fumi e gas in maniera incontrollata.
Seguono duecento camini privi del monitoraggio in continuo (obbligatorio dal ’99 per le polveri, il carbonio e il suo monossido, gli acidi cloridrico e fluoridrico e il biossido di zolfo). Tutti tranne l’E312, quello del reparto di agglomerazione, che ha il monitoraggio però è incriminato per la diossina5 . Prive del controllo di efficacia anche le torce per la combustione dei gas in eccesso.
Si continua con l’acciaieria, dove le colate di ghisa vengono versate troppo in fretta per tagliare i tempi di produzione, creando le nubi di polveri rosse (“slopping”) che si innalzano in continuazione sulla fabbrica e si depositano sul territorio.
Le discariche interne di rifiuti tossici (residui chimici di lavorazione, solventi, ceneri di carbone, fanghi di filtrazione dei fumi, fanghi oleosi, batterie al nichel cadmio, fanghi da acque reflue industriali, amianto – stando a quelli dichiarati6 ) sono a contatto con la falda acquifera. Le acque superficiali e quelle profonde sotto lo stabilimento presentavano nel 2006 parametri oltre i limiti di piombo, ferro, manganese, triclorometano, alluminio, tetracloroetilene, cromo, nichel, arsenico, ipa (benzo(a)antracene, benzo(a)pirene, benzo(a)fluorantene, ecc.), 1,2 dicloropropano, dicloroetilene, cianuri, benzene, xilene, etilbenzene, cloruro di vinile monomero, antimonio, cobalto, mercurio, sostanze oleose7 .
Per finire in bellezza, l’Ilva manca del piano di emergenza esterno in caso di incidente rilevante previsto dalla Direttiva Seveso 28 .
All’interno, il siderurgico è un inferno dantesco, così descritto da un operaio: “Io ogni giorno faccio cinque chilometri a piedi, con la polvere; certe volte mi esce il sangue dal naso perché la polvere nel naso si indurisce. … Arriviamo allo spogliatoio divorati dalla polvere, la polvere è come una estrema unzione”9 . Le analisi dei sedimenti interni allo stabilimento hanno rilevato, in questa polvere onnipresente, tutto il campionario dei metalli pesanti, le diossine, il PCB, gli idrocarburi policiclici aromatici10 .
[E qui vorrei aprire una parentesi. Vendola ha sempre lamentato le lacune di una normativa ambientale costruita apposta per dare campo libero agli inquinatori (e questo è vero) che gli avrebbe legato le mani (e questo è un alibi). Omette completamente l’esistenza di un altro corpo normativo, quello sull’igiene e sicurezza del lavoro, molto più imperativo e già in vigore a partire dagli anni ‘50. Un ambito dove l’organo di vigilanza (i servizi ispettivi dell’ASL) dipende dalla Regione. Solo a volerne usare gli strumenti, le disposizioni sui cancerogeni avrebbero permesso fin da subito il blocco di vari impianti inquinanti del siderurgico e l’imposizione di interventi di bonifica a spese dell’azienda. Partire dall’integrità fisica degli operai, i primi ad essere ammazzati dalle emissioni dell’Ilva, avrebbe salvaguardato così anche quella dei tarantini, dimostrando nei fatti che gli interessi del lavoro coincidono con quelli della gente, e non con quelli dei padroni. Ma con i se e con i ma non si costruisce la storia, che infatti continua in un altro modo].
Da una visione di insieme di questo contesto disastroso, poteva risultare chiara l’inconsistenza di interventi “cosmetici”, parziali, diluiti e centellinati nel tempo. Ma il nuovo presidente scelse comunque la strada già battuta del “confronto costruttivo” con i Riva, rendendola giusto un po’ meno monotona con qualche breve deviazione.
Nei primi due anni di mandato si fece sostanzialmente custode degli accordi già firmati dal suo predecessore (con i risultati che sappiamo), limitandosi a controllarne il cronoprogramma e a complimentarsi con l’Ilva per la rispondenza agli impegni assunti (!!!).
Fino a quando. nella primavera 2007, un’intensa campagna di denuncia promossa da associazioni e comitati non portò la diossina di Taranto alla ribalta sulla stampa nazionale. A quel punto l’inerzia sarebbe risultata deleteria per l’immagine pubblica del governatore, che per cavalcare l’onda del fondatissimo allarme diossina decise di indossare la sua veste più barricadera. (Continua)
Dossier: Il lavoro ai tempi del disastro ambientale – Il caso Ilva. ↩
Regione Puglia, Ilva di Taranto, raggiunto l’accordo, 8 gennaio 2003. ↩
In proposito consiglio due video interessantivisionabili qui e qui. ↩
M. Sanna, R. Monguzzi, N. Santili, R. Felici, Conclusioni della perizia chimica sull’Ilva di Taranto, 2012, p 534. ↩
Ibidem, pp. 534-535. ↩
Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, Autorizzazione integrata ambientale per l’esercizio dello stabilimento siderurgico della società Ilva Spa ubicato nel Comune di Taranto, 19/07/2011, p. 201. Per verificare i codici CER clikkare qui. ↩
Ibidem, p. 105. ↩
Comitato Donne per Taranto, Una polveriera senza Piano d’Emergenza per Incidente Rilevante, 28 novembre 2012. ↩
Fulvio Colucci, Giuse Alemanno, Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto, Edizioni Kurumuny, 2011. ↩
M. Sanna, R. Monguzzi, N. Santili, R. Felici, Conclusioni della perizia chimica sull’Ilva di Taranto, 2012, pp. 529-533. ↩