di Valerio Evangelisti
Nei mesi scorsi le edizioni Il principe costante hanno pubblicato il volume Fantômas, la vita plurale di un antieroe, a cura di Monica Dall’Asta: una raccolta di contributi di autori di differenti paesi sul mito del criminale creato da Pierre Souvestre e Marcel Allain e silla sua persistenza in letteratura, cinema e fumetto. Pubblichiamo qui il contributo di Valerio Evangelisti. Per motivi di spazio eliminiamo le note, che il lettore potrà trovare nel libro.
1. Fantômas l’Egoista
Fantômas tutto è, in apparenza, tranne che un sovversivo. Sorprenderebbe il contrario. Sappiamo che Marcel Allain coltivò (e si sforzò di propagare in forma narrativa) una sorta di socialismo sansimoniano, in cui non i proletari ma gli “ingegneri” erano i soggetti di una nuova società ugualitaria. Quanto a Pierre Souvestre, non si conoscono sue esplicite prese di posizione politiche. Collaborò a varie testate conservatrici e probabilmente condivise con l’amico Allain ideali patriottici, per non dire nazionalistici (tratto comune ad altri narratori popolari del periodo, come Maurice Leblanc, Léon Sazie e Gaston Leroux).
Tuttavia la carica dirompente di un personaggio come Fantômas è tale da travolgere sia la personalità degli autori che, sotto il profilo ideologico, i rari momenti in cui questioni politiche emergono nei romanzi che lo vedono protagonista (Fandor arrestato per avere cantato l’Internazionale, il caso Dreyfus, gli attentati dei nichilisti russi, ecc.). Anzitutto Fantômas non condivide affatto il patriottismo di un Arsenio Lupin o di un Chéri-Bibi. Inoltre rigetta di questi suoi colleghi l’aspirazione di fondo a una vita borghese o addirittura piccolo-borghese (così evidente nel più fiacco dei suoi epigoni, il criminale benpensante Diabolik).
Se c’è un tipo di vittima che possiamo giudicare ricorrente, nell’incredibile sequela di omicidi indifferenziati (uomini e donne, aristocratici e popolani, religiosi e delinquenti) che scorre attraverso la saga di Fantômas, è forse, più sul piano qualitativo che statistico, il borghese da piccolo a medio: l’uomo senza qualità, il funzionario municipale, il magistrato di provincia, l’uomo politico di apparato, il giocatore di Borsa. In pratica, il personaggio centrale di una Terza Repubblica che ha ormai dimenticato la Comune e ancora non è precipitata nel delirio nazionalista.
Certo, quando colpisce simili figure Fantômas non lo fa per “odio di classe”, nozione a lui quanto mai estranea, né per raddrizzare ingiustizie come il suo collega Lupin, né per instaurare una sorta di “potere alternativo” come il suo imitatore Diabolik.
Fantômas uccide per affermare se stesso contro il resto del mondo e della società. Non ha altro movente, e meno che mai l’avidità. Avide sono semmai le sue vittime borghesi; il Re del Terrore, invece, ha sì continuo bisogno di denaro, ma questo gli occorre soprattutto per allestire nuovi omicidi. E’ l’omicidio (spesso elaborato, esteticamente elegante), e non il furto, l’asse della sua azione criminale. Ma nemmeno si può dire che Fantômas sia un serial killer vittima di patologie psichiche cui non può resistere. Tratti schizofrenici, nei suoi comportamenti, sono l’amore per il travestimento, con conseguente mutamento di personalità, e un superomismo pronunciato, senza tuttavia alcuna attenuazione delle capacità critiche.
La verità è che Fantômas è principalmente, al di là delle apparenze, un criminale “ideologico”. Rappresenta l’individualismo assoluto, il rifiuto di qualsiasi norma, il rigetto di ogni nozione di organizzazione sociale capace di porre vincoli allo scatenamento della sua forza vitale, quasi sempre coincidente con la morte altrui. Fantômas non è solo l’antitesi della Terza Repubblica; è il nemico giurato di qualsiasi Repubblica, o di qualsiasi ordinamento esistente. Non per questo “sovversivo”, specie se al termine si collegano istanze riformistiche. Fantômas non sovverte nulla, non auspica altro benessere che il proprio, del progresso gli importa poco o niente (se non quale evoluzione tecnologica delle armi e degli strumenti a sua disposizione).
Circa Arsenio Lupin, dotato di tratti di superomismo molto più pallidi, è stato tirato in ballo Nietzsche. Ebbene, per Fantômas il riferimento d’obbligo è Max Stirner, teorico di una forma di anarchismo filosofico prima che sociale o politico centrato sull’Egoista, sull’individuo in guerra contro lo Stato e, al tempo stesso, contro ogni lacciolo che cerchi di porre freni normativi, economici o di vivere civile alla sua affermazione personale. Un Egoista che ha nella distruzione la via naturale per scompaginare un ordine tendente a soffocarlo.
Ciò ci conduce a individuare abbastanza facilmente l’humus in cui un personaggio letterario della statura di Fantômas affonda le radici. Infatti, nello stesso periodo in cui vedono la luce le avventure dell’Inafferrabile, in Francia operano correnti minoritarie ma molto attive dell’anarchismo che si richiamano sia a Stirner che a Nietzsche, e che nell’attività criminale vedono un mezzo non solo accettabile, ma anche auspicabile, di azione antiborghese. L’esame di queste correnti — tipiche quasi della sola Francia, e collettivamente chiamate “illegalismo” — è a mio avviso indispensabile per collocare storicamente la nascita del Re del Terrore.
2. L’illegalismo
La vicenda che Victor Serge definirà sbrigativamente un “suicidio collettivo” consuma le proprie fasi salienti tra il 1905 e il 1913. Le date coincidono con due processi. Il 1905 è l’anno in cui la banda anarchica dei Travailleurs de la Nuit viene riconosciuta colpevole di ben 106 furti, molti dei quali compiuti con insolita destrezza e una certa dose d’eleganza. Il 1913 è l’anno in cui il processo alla banda Bonnot, conclusosi con una serie di condanne a morte, pone termine alla breve ma sanguinosissima epopea della più inquietante componente dell’anarchismo parigino. Nel frattempo, questa eterodossa corrente anarco-individualista (ma si vedrà come la definizione non sia sempre corretta) è riuscita a dotarsi di un organo di stampa discretamente diffuso (“L’Anarchie”), a conquistare consenso in taluni settori popolari e, soprattutto, a dar vita ad un corpus teorico di spessore non trascurabile, benché non di rado sconfinante nella pura bizzarria.
La dichiarazione letta ai giudici da Alexandre Marius Jacob, il “ladro gentiluomo” capo dei Travailleurs de la Nuit, già contiene in germe alcuni elementi della tematica che ispirerà gli anarchici “illegalisti” del periodo successivo:
“Piuttosto di essere chiuso in un’officina come in una prigione, piuttosto di mendicare ciò cui avevo diritto […] ho preferito insorgere. […] Certo, capisco che avreste preferito che mi fossi assoggettato alle vostre leggi; che, operaio docile e infrollito, avessi creato ricchezze in cambio di un salario irrisorio e, col corpo logorato e il cervello inebetito, fossi finito col crepare all’angolo di una strada. Allora non mi avreste chiamato “cinico bandito” ma “onesto operaio”. Usando l’adulazione, mi avreste dato anche la medaglia al lavoro. I preti promettono un paradiso alle loro vittime. Voi siete meno astratti e offrite un pezzo di cartastraccia!”
Alla condizione abbietta dell’operaio remissivo si contrappone l’orgoglio del fuorilegge che, tracciando un autonomo percorso di emancipazione individuale, ha saputo svincolarsi dalle regole sociali. Se ne desume un implicito corollario. Da una condizione subalterna non è esente una componente di colpa, attribuibile a coloro stessi che ne sono vittime, dal momento che la costrizione sociale incontra un limite nella facoltà di ribellione di cui dispone il singolo – sempre in grado di evadere con le armi in pugno dall’ordine che disprezza.
Chi non si avvale di tale possibilità diviene in qualche misura complice dei suoi oppressori. Non esiste costrizione, per quanto feroce, che possa completamente annullare il libero arbitrio, né esiste sistema di potere che non goda, almeno in parte, della connivenza di coloro che sottomette.
Sfumate in Jacob, e ancor più nella “prima generazione” di illegalisti (quella che inizia con Ravachol e anima la stagione dei grandi attentati), simili tesi tendono via via a stilizzarsi in più marcate semplificazioni, raggiungendo il culmine allorché la “propaganda attraverso i fatti” prende a sfaldarsi in una miriade di azioni quotidiane di breve respiro. La chiamata di correo nei confronti di chi accorda consenso passivo ai crudeli meccanismi dello Stato liberale si fa allora dura e generica, prescindendo sempre più radicalmente dalla collocazione sociale delle “vittime consenzienti”. Tipiche, in questo senso, le battute finali di un manifesto indirizzato al “bestiame elettorale”, diffuso nel 1906 dai redattori de “L’Anarchie”:
“In ultima analisi, non è dunque un pugno di governanti quello che ci schiaccia, ma è l’incoscienza, la stupidità dei montoni di Panurgo che costituiscono il bestiame elettorale.
Noi lavoreremo senza tregua in vista della conquista della “felicità immediata”, restando partigiani del solo metodo scientifico e proclamando con i nostri compagni astensionisti:
L’ELETTORE, ECCO IL NEMICO!
E adesso alle urne, bestiame!”
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, non si tratta di battute a effetto, occasionalmente formulate per impressionare il lettore o per coinvolgerlo in chiave ironica. Il manifesto è fedele espressione delle concezioni settimanalmente esposte su “L’Anarchie” (di cui la tematica antielettorale non rappresenta che un momento tra i tanti), mentre il suo tono paradossale riflette in realtà la logica di quello che i redattori del periodico definiscono “metodo scientifico”. Consistendo quest’ultimo nella grossolana abolizione di ogni sfumatura analitica, diviene agevole comprendere come gli illegalisti siano indotti a sovrapporre, al quadro articolato di una società stratificata in classi, il profilo semplificato di una società divisa in ribelli e complici.
Ne consegue un’enorme dilatazione dell’arco dei nemici reali o potenziali, nonché l’automatica assoluzione politica e morale di chi, vedendosi circondato da una massa ostile o indifferente, decide di colpire a casaccio nel branco che soffoca la sua libertà individuale. Ma ne consegue altresì il simultaneo appannamento tanto delle prospettive strategiche della lotta quanto delle tattiche rivendicative di medio raggio, a favore di una feroce battaglia combattuta giorno per giorno dal ribelle per recidere i lacci in cui il contesto sociale cerca di avvilupparlo. Come scrive Albert Libertad, fondatore de “L’Anarchie”, “una vita anarchica è una vita di reazioni costanti. La si vive sotto tutti i regimi. Non ne concepisco di altre”.
3. Supremazia del lupo sulla pecora
Impossibile risalire troppo indietro nel tempo per dissotterrare le radici teoriche di simili concezioni. Nulla di analogo è reperibile in Proudhon, Bakunin, Kropotkin o nei coevi Malatesta e Reclus. In costoro, a parte singole proposizioni o circoscritte sfumature di pensiero, il processo rivoluzionario è costantemente concepito quale azione di massa, anche se il compito di innescarlo può essere attribuito a ristrette avanguardie. Ma nemmeno Max Stirner è individuabile quale ispiratore degli illegalisti, che non sempre professano un egoismo esasperato, e talora giustificano le proprie imprese alla luce di un eccesso di sensibilità sociale. D’altronde è lo stesso Albert Libertad a prendere le distanze dalla corrente stirneriana, irridendo a quegli “individualisti liberali” che coltivano “i paradossi dell’ ‘io’ o dell’ ‘unico’, la cui proprietà consisterebbe nel crepare di fame”.
Frammenti di pensiero stirneriano sono tuttavia indubbiamente presenti nel limitato bagaglio teorico degli illegalisti. Non discendono però da una diretta lettura del filosofo tedesco, quanto dalla rilettura non sempre fedele operatane dal più fervido propugnatore francese dell’anarchismo individualista, Émile Armand, e da una pletora di divulgatori secondari (Paraf-Javal, Lorulot, Zo d’Axa ecc.).
E’ in Armand – d’altronde collaboratore, e per qualche tempo direttore, de “L’Anarchie” – che si trova tracciata la più netta linea di demarcazione nei confronti dell’opera teorica di Bakunin e di Kropotkin, giudicata una semplice variante del socialismo e definita estranea all’anarchismo propriamente inteso. Ma soprattutto è in Armand che l’anarchismo rinuncia più radicalmente alla dimensione utopica, convertendosi in quotidiano modo di vita teso all’affermazione della sovranità dell’individuo su se stesso: “L’importante, dopo tutto, per l’anarchico individualista, è vivere la propria vita oggi, immediatamente, è ‘sentirsi vivere’, è esistere il più liberamente possibile al prezzo di uno sforzo di reazione continua contro il dominio e contro lo sfruttamento che sono le colonne su cui riposa l’edificio sociale”.
E’ facile ricollegare la “reazione continua” di Armand alle “reazioni costanti” di Libertad, o il “sentirsi vivere” del primo alla “felicità immediata” del manifesto antielettorale. Siamo evidentemente in presenza di topoi che rimandano ad un unico filone di pensiero. Tuttavia un ulteriore topos della visione degli illegalisti – la colpevolizzazione delle vittime – ha probabilmente origini meno letterarie. Di tutti gli attentatori anarchici del quinquennio 1891-1894, quello che, dopo Ravachol, più colpì il pubblico per la sua lucidità e la sua stringente dialettica fu Émile Henry — che pure si rese autore delle gesta all’apparenza meno giustificate. La più clamorosa e insensata di queste ultime – l’attentato al Cafe Terminus del 12 febbraio 1894, che provocò un morto e diciassette feriti tra un pubblico indifferenziato – venne spiegata e rivendicata da Henry alla luce di motivazioni in qualche modo anticipatrici:
“Dobbiamo noi prendercela soltanto coi deputati che fanno le leggi ai nostri danni, coi magistrati che le applicano, coi poliziotti che ci arrestano? Io non lo credo. Tutti questi uomini non sono che strumenti i quali non agiscono in loro proprio nome, essendo state le loro funzioni istituite dalla borghesia in sua difesa; essi non sono dunque più colpevoli degli altri. I buoni borghesi i quali, pur senza essere rivestiti di nessuna funzione, riscuotono le rendite dei loro titoli, i buoni borghesi che vivono oziosi dei benefici del lavoro degli operai, debbono avere anch’essi la loro parte di rappresaglie. E non soltanto essi, ma tutti coloro che sono soddisfatti dell’ordine attuale, coloro che applaudiscono agli atti del governo e si fanno suoi complici, questi impiegati da 300 e 400 franchi al mese che odiano il popolo più ancora dei grossi borghesi, questa massa stupida e pretenziosa che sì schiera sempre dal lato del più forte, e forma la clientela abituale del Café Terminus e degli altri grandi caffè. Ecco perché io ho colpito nel mucchio senza scegliere le mie vittime.”
Non è forse un caso se nel 1912 il braccio destro di Jules Bonnot, Raymond-la-Science, esalta in un’ironica ballata un’altra impresa di Henry, l’attentato agli uffici della miniera di Carmaux (“On a cru que c’était Fantômas / Mais c’était la lutte des classes”), definendo poulets vulgaires le vittime civili del gesto. A quell’epoca, la tendenza a colpevolizzare chiunque non sia partecipe della ribellione all’ordine costituito ha fatto molta strada, seguendo il tracciato che proprio Henry ha aperto.
Tuttavia, in quest’ultimo, prevale ancora una visione rigorosamente classista. E proprio un classismo quasi manicheo che induce il giovane terrorista a identificare in chiunque non condivida una condizione strettamente operaia un puntello del privilegio, degno di essere colpito con una ferocia legittimata dalle inaudite sofferenze delle masse subalterne. In altri termini, è la classe a trovarsi circondata, non l’individuo. Il giustiziere popolare agisce non ai fini dell’autovalorizzazione personale, ma per dimostrare tangibilmente agli operai la fragilità dei loro nemici e la possibilità concreta di infrangere l’assedio sociale con l’arma della protesta violenta. Il modello, per ammissione dello stesso Henry, è il Souvarine del Germinal di Zola – corretto, però, da qualche tratto di Etienne Lantier.
Tra gli illegalisti dei primi del ‘900 simile visione subisce sostanziali alterazioni, semplificandosi ulteriormente. Il manicheismo sociale, divenuto manicheismo politico-esistenziale, frantuma l’immagine stessa del proletariato, proiettandone interi segmenti verso lo smisurato fronte delle forze ostili. Da un lato, come si è detto, opera la drastica suddivisione in ribelli e complici, che tuttavia incontra un limite nel dovere dei primi di convertire i secondi con la propaganda e con l’esempio (in caso contrario, l’esistenza di una stampa illegalista apparirebbe incomprensibile). D’altro lato, la solidarietà sociale del sovversivo viene ristretta dall’ancor più rigida discriminazione tra operai produttivi del necessario e operai produttivi del superfluo, tra esecutori di “gesti utili” e di “movimenti inutili”.
Jacob si vanta di derubare solo parassiti, restringendo però la categoria fino a escluderne letterati e poeti (anche se non schierati a lato del popolo: capitato in casa di Pierre Loti, se ne va senza asportare nulla). In seguito i criteri si allargano smisuratamente. La penna veemente di Albert Libertad annega ad esempio nel medesimo disprezzo i pittori di insegne, i fabbricanti di armi e di immagini sacre, gli stampatori di bibbie, i controllori della metropolitana, i capistazione, i cercatori d’oro e di diamanti – compagine stolida collocata sullo stesso piano degli operai che si rendono complici dei padroni nelle frodi a danno del pubblico.
4. Il lavoro dipendente non nobilita: umilia
Quasi insensibilmente, alla primaria distinzione tra lavoratori produttivi e improduttivi si è sovrapposta la distinzione, all’origine secondaria, tra produttori di cose utili ed esecutori di funzioni dannose o irrilevanti. Ma la condanna non si arresta a costoro. E l’intero proletariato che finisce con l’essere posto sotto accusa – perché non accetta la soppressione delle attività superflue, perché obbedisce, perché è frazionato, perché si lascia guidare dalla fame e non dal ragionamento, perché ostacola l’iniziativa dei rivoltosi:
“Ogni giorno, nuovi episodi risvegliano in me questa ossessione dell’operaio che si costruisce da solo la propria dolorosa prigione, la città omicida in cui si rinchiuderà, in cui respirerà il veleno e la morte. Vedo innalzarsi di fronte a me, ogni volta che cerco di conquistare più felicità, il mostro del proletariato, l’operaio onesto, l’operaio previdente. Non è lo spettro del capitale, non sono i ventri dei borghesi che trovo sul mio cammino: caccerei quel fantasma e bucherei quei ventri; è la moltitudine dei lavoratori della gleba, dell’officina, che ostacola il mio cammino […]. Sono troppo numerosi. Io non posso niente contro di loro. Bisogna pur vivere […]. E l’operaio inganna, deruba, avvelena, asfissia, annega, brucia il suo fratello, perché bisogna pur vivere.”
La violenza e la genericità dell’accusa non sono mitigate dal fatto di trarre ispirazione da un preciso evento (l’arresto di alcuni panettieri colpevoli di mescolare talco e farina). Un analogo episodio, prodottosi nel medesimo periodo (la vendita di carne avariata e di cibi adulterati nei ristoranti), suggerisce all’anarcosindacalista Emile Pouget considerazioni assai più equilibrate, relative all’impossibilità per l’operaio di trovare lavoro se non accondiscende alle ignobili imposizioni padronali. Il fatto è che, se per Pouget la condizione operaia è prodotto dello squilibrio economico e della costrizione sociale, per Libertad (come per Lorulot, per Israël e per gli altri collaboratori de “L’Anarchie”) si tratta invece di una scelta soggettiva, fondata sulla più larga opzionalità. L’alternativa non è solo quella già accennata tra l’adesione alle regole del sistema e l’eva-ione nell’asocialità, tra il lavoro subordinato e la via illegale. All’interno stesso di una situazione lavorativa “normale” l’operaio è costantemente in grado di accettare o rifiutare i precetti e le mansioni che gli vengono proposti. Così può decidere se svolgere un lavoro utile o un lavoro inutile. Nel secondo caso, però, non solo si pone in contrasto con la “scienza”, ma rinuncia ad ogni solidarietà da parte dei ribelli, ben lieti della sua eventuale rovina. Scrive ad esempio Libertad, commentando la disoccupazione e la miseria abbattutesi sui fabbricanti di arredi sacri:
“Io sono contento che questi duecentomila operai di chiesa e le loro famiglie siano senza pane, perché ci si rifiuta di continuare a retribuire questo lavoro di ridicola religiomania, di rivestimento di altari o di arcivescovi, di confezioni per idoli o di diademi per vergini. Allo stesso modo sarei contento se gli uomini si dedicassero a non retribuire più la produzione di cannoni, di fucili, di polvere da sparo, anche se questa decisione dovesse far crepare gli operai che vivono della carogna militaresca.”
Mentre sfumano sia la concretezza del dominio padronale che la materialità dello stimolo del bisogno, la questione slitta sul piano delle tensioni ideali e dell’esercizio della volontà. E un ambito in cui evidentemente non esiste alcuno spazio per il sindacalismo, di ispirazione libertaria o meno. Quest’ultimo non solo ricalca e cristallizza l’organizzazione capitalistica del lavoro, ma non distingue tra lavori utili e non, finendo col trasformare in conflitto intercategoriale una lotta che non può essere che interindividuale.
D’altronde il sindacalismo pretende di tutelare masse per definizione subordinate. Tra gli illegalisti, invece, la padronanza degli operai sulle condizioni del proprio lavoro è presupposta essere assoluta, o quanto meno potenzialmente tale. Se esistono limiti a essa, sono proprio i sindacati a imporli, o chiunque pretenda di disciplinare per legge le modalità dell’attività produttiva. Così, per esempio, l’imposizione normativa del riposo domenicale, lungi dal rappresentare una vittoria, è ritenuta un insidioso attentato alla sconfinata libertà del produttore:
“Gli operai allora seppero quando e come avrebbero potuto riposarsi. Per essi non fu più questione della fatica delle loro membra, dell’inattività passeggera che prende tutto il corpo, del tempo soleggiato che vi spinge a correre i prati. Non ci si riposa più che nel giorno legale, all’ora legale. […] Quando dunque gli operai ameranno abbastanza il lavoro da sapersi riposare nell’ora in cui i loro muscoli non potranno fornire la quantità e la qualità necessarie per compiere gesti utili? Quando dunque gli operai smetteranno di ricercare in una legislazione sindacale, in una regolamentazione parlamentare, il mezzo per limitare il loro sforzo quanto a durata giornaliera o settimanale?”
Si direbbe che, prima dell’intervento legislativo, gli operai disponessero della più ampia facoltà di determinare tempi e modi del proprio lavoro, commisurandoli alle proprie necessità fisiche – il che appare quanto meno curioso in un’epoca in cui opifici e miniere non di rado somigliavano ad autentici luoghi di detenzione. Quali le cause di una così bizzarra distorsione ottica? Il furore antiistituzionale (che si esercita con pari impeto nei confronti delle pensioni di vecchiaia e di altre misure previdenziali) rappresenta una spiegazione insufficiente. Esistono più sostanziali ragioni di fondo.
Leggendo gli articoli di Libertad, ma più in generale sfogliando l’intera collezione de “L’Anarchie”, emerge con notevole evidenza una visione dell’operaio del tutto estranea a quella delineata dall’irrompere della produzione di serie e dell’organizzazione industriale del lavoro. A parte sporadici e platonici accenni al problema della meccanizzazione, la dimensione della fabbrica, della frammentazione delle mansioni, dell’attività collettiva e coordinata pare assolutamente sconosciuta ai teorici dell’anarchismo illegalista – e proprio in anni in cui il nuovo capitalismo industriale accenna ad affermarsi in modo rapido e brutale. La violenza e la tumultuosità del processo paiono cogliere di sorpresa gli illegalisti, impedendo l’adeguamento di concezioni maturate in un contesto artigianale a una realtà nella quale la disciplina è divenuta tessuto connettivo e fattore insostituibile della vita sociale e produttiva.
È un ritardo di cui anche gli anarcosindacalisti pagheranno lo scotto, radicati come sono tra le categorie più professionalizzate e più strettamente vincolate a un modo di produzione di matrice artigianale. Ma il disagio maggiore si avverte tra gli anarchici individualisti, la cui proposta di liberazione postula, per forza di cose, il pieno possesso del singolo strumento di produzione da parte del singolo produttore. Non è un caso se i presupposti della società futura delineati da Armand hanno un inconsapevole sapore di rimpianto. In essi un passato ormai perduto, ma vischioso nel ricordo, si proietta in un avvenire impossibile:
“Non vedo, dal punto di vista economico, che un metodo in grado di rispondere – pur senza lasciar sussistere alcuna vestigia di sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo (o da parte della collettività) o di dominio dell’uomo (o della collettività) sull’uomo – ai nostri desiderata. […] E il metodo dello scambio diretto dei prodotti da produttore a produttore o da gruppo di produttori a gruppo di produttori. Questo metodo di scambio non è possibile che a condizione che l’essere individuale rimanga padrone assoluto del proprio sforzo – che possieda a titolo inalienabile il mezzo di produzione (strumento o suolo) che gli permetterà di disporre, a sua volontà, del prodotto, di conservarlo, di scambiarlo o di distruggerlo, di fissargli un valore o di farne dono gratuitamente.”
Il dramma di Armand, o di Libertad (la cui professione è non casualmente quella del tipografo, così come tipografi, meccanici o calzolai sono molti dei suoi compagni), consiste nel dover celare sotto una patina di scientificità, presunta fredda e razionale, l’incapacità di adeguarsi a una trasformazione sociale che di giorno in giorno dissipa e contraddice l’ansia di libertà individuale. L’acuto senso di impotenza che ne discende, alimentato dalle contraddizioni di un passato che, per sopravvivere al presente, deve travestirsi da futuro, è all’origine della protesta armata degli illegalisti – minuscola pattuglia di insubordinati che cerca di semplificare, a colpi di coltello e di revolver, una realtà fattasi troppo complessa.
5. Fantômas fantasma di guerra
Quanto detto finora significa forse che Fantômas simboleggi il piccolo artigiano che combatte una guerra di resistenza contro l’avanzata della società industriale? No, per nulla. Vuole invece dire che Souvestre e Allain scrivono le sue avventure in un’epoca in cui le cronache sono zeppe di crimini, talora gratuiti, commessi da militanti libertari che esaltano l’Individuo Assoluto e la sua autonomia dal contesto sociale. Gli uomini di Bonnot, per dirne una (apparsi pochi mesi dopo che l’Inafferrabile ha visto la luce), non hanno ritrosie a sparare sulla folla o sul primo venuto, a uccidere a martellate una donna anziana così come Ravachol uccise un vecchio mendicante.
Altri illegalisti antecedenti, come Clément Duval o Marius Jacob non erano stati così spietati. Ma lungo il primo decennio del ‘900 le teorie del superuomo si sono fatte strada, tanto nell’estrema destra quanto nell’estrema sinistra. Fantômas è diviso dalla prima dall’assenza di una reale concezione gerarchica (verrà addirittura il momento in cui ucciderà tutti i suoi complici, quegli apaches che avevano rappresentato la sua manovalanza), dalla seconda dall’assenza di alibi sociali. In realtà, è una sublimazione delle tendenze distruttive di ambedue i campi, dell’Action Française come degli illegalisti anarchici. Porta una distruzione quasi fine a se stessa, metodica, sistematica, intenzionalmente raccapricciante.
E’ un individuo e dunque, nella ricerca del proprio spazio vitale, pratica il male. Se però fosse Stato o governo, incarnerebbe alla perfezione lo spirito degli egoismi nazionali della sua epoca, anch’essi protesi alla rivendicazione di spazi vitali e già proiettati verso il massacro europeo imminente. Come Bonnot, d’altronde: bloccato e ucciso mentre cerca di procurarsi un aereo quale arma adeguata alla contemporaneità.
Ma in Fantômas esiste una contraddizione ancora più forte. Nell’ultimo dei trentatre romanzi scritti assieme da Souvestre e Allain (una serie successiva, opera del solo Allain, è smorta e poco significativa), l’ “eroe” antiborghese per eccellenza si rivela essere fratello del suo antagonista Juve, poliziotto borghese come pochi. Nasce allora il sospetto che tutte le volte in cui Fantômas ha indossato i panni di un cittadino qualsiasi, pavido e mediocre, lo abbia fatto per affinità. Non ne rappresenta forse l’incubo, l’ombra, o forse il sogno più segreto?
Sarà proprio la borghesia fattasi Stato a inaugurare l’età contemporanea con il macello più ampio e indiscriminato visto fino a quel momento. Sarà lei a incarnare collettivamente l’ideale illegalista, tanto nell’odio verso i deboli che nella rivendicazione di un’assoluta libertà dai vincoli morali. La guerra la faranno i Juve, dando sfogo alle loro pulsioni meno confessabili.
Quello di Fantômas era il conflitto sanguinoso di uno contro tutti. Da esso si passa al conflitto di tutti contro tutti. Si chiude un’epoca: da ideologia minoritaria, l’illegalismo si fa pensiero dominante, con tutto il sangue che ciò comporta.