Cresce la protesta dei ricercatori universitari contro la riforma Moratti. E manifestazioni di protesta si sono svolte in diverse città italiane. In 23 atenei di tutta Italia da alcuni giorni si sono sospese le lezioni. «Il disegno di legge sulla riforma universitaria minaccia il futuro dell’università pubblica, la sua qualità quindi il futuro del Paese. Condivido e appoggio le modalità di questa protesta». Così si è espresso il prorettore dell’Università La Sapienza, Gianni Orlandi, nel corso della manifestazione di protesta contro la riforma Moratti, tenutasi davanti al maggiore ateneo capitolino all’inizio di ottobre.
Alla manifestazione hanno partecipato circa 500 persone tra docenti, ricercatori, precari e studenti, che si sono alternati al megafono per i rispettivi interventi. Anche a Roma, come in alcuni altri atenei italiani, le attività didattiche sono rimaste sospese fino all’11 ottobre. «Non si tratta di una mobilitazione corporativa dei professori per ottenere dei privilegi – ha commentato Orlandi – Chiediamo al Parlamento di ritirare questo disegno di legge e di impegnarsi per maggiori investimenti nell’università. Credo che questa mobilitazione abbia aperto varchi non solo nell’opposizione ma anche nella maggioranza», ha concluso. Il Senato accademico è riunito per discutere proprio del «problema dei ricercatori».
VERSO LO STOP DELL’ATTIVITA’ ACCADEMICA
Rincara la dose Pier Ugo Calzolari, rettore dell’università di Bologna che spiega, «entro fine mese riunirò tutto il mondo accademico bolognese per discutere questa falsa riforma». Calzolari è deciso nella sua critica alle recenti decisioni del governo in materia di università e inquadramento dei ricercatori negli atenei. «La Crui (la conferenza dei rettori delle università italiane) ha varato un documento vibrante contro queste scelte che, limitando i finanziamenti, penalizzano la ricerca. Sono poi proprio i ricercatori, una figura, capite bene, fondamentale per gli atenei italiani, che non vengono neanche riconosciuti». Calzolari annuncia poi la mobilitazione del mondo accademico (docenti, ricercatori e rappresentanti degli studenti), con il probabile conseguente fermo dell’attività accademica in tutta Italia.
«Riforma, così si cacciano i ricercatori»
Intervista a Lucio Bianco, ex presidente del Cnr: «Così i migliori andranno via»
di LUCA TANCREDI BARONE
ROMA – L’anno scorso di questi tempi il mondo della ricerca è stato protagonista di un movimento di protesta contro le riforme del governo. In particolar modo è stato colpito il principale ente di ricerca pubblica italiano, il Cnr. L’allora presidente, Lucio Bianco, fu mandato a casa dopo un’aspra battaglia. Oggi è tornato nelle aule universitarie. A Tor Vergata insegna metodi e modelli per il supporto alle decisioni al dipartimento di ingegneria gestionale.
Che legame c’è fra le proteste di quest’anno e quelle dello scorso anno?
Il filo conduttore è che il ministro persegue politiche non condivise dalle comunità verso cui si rivolgono: quella dei ricercatori e quella degli accademici.
Perché è contrario anche a questa riforma del ministro Moratti?
La sua proposta è estranea alla tradizione accademica italiana e ottiene effetti diversi da quelli che vuole perseguire. Con la precarizzazione spinta, l’annullamento della qualifica ricercatori, il non riconoscimento del loro ruolo come docenti (senza di loro l’università sarebbe paralizzata) l’unico risultato è di allontanare le persone più brave.
Ha qualche contro proposta?
Credo che il dato strutturale che dovrebbe ispirare qualsiasi riforma è quello fornito dallo stesso Ministero. L’Italia ha un numero di studenti confrontabile con quello di Francia, Germania e Regno Unito (circa un milione e settecentomila studenti). Ma mentre in Italia ci sono 50mila docenti, in Francia ce ne sono 77mila, in Germania 115mila e nel Regno Unito addirittura 126mila. In Italia lo stato spende 3098 euro a studente, in Francia e Regno Unito circa 7000 euro mentre in Germania addirittura 9200. Per non parlare dei dottorandi. In Italia ce ne sono 0,17 ogni 1000 individui fra 25 e 35 anni. Nel Regno Unito 0,63, in Francia 0,71 e in Germania 0,75. Il gap è enorme. Ma c’è di più: i dati ufficiali dell’Unione Europea usciti l’anno scorso si riferiscono allo scorso decennio, ma i dati provvisori del nuovo secolo indicano un regresso ancora più marcato. Il ministro dice di volere «recuperare l’efficienza del sistema». Credo che senza aumentare le risorse questa pretesa sia velleitaria.
Il mondo universitario e della ricerca si basano pesantemente sul precariato. Il ddl Moratti prevede una sua istituzionalizzazione. Non crede che questo sia più corretto nei confronti di chi oggi non ha neppure un riconoscimento?
Che i dottorandi e i post dottorati siano precari è normale in tutto il mondo. Un periodo in cui uno, senza garanzie di un posto fisso, provi a fare ricerca, a diventare un docente e magari visiti paesi stranieri, è positivo. Poi però se uno è bravo deve avere delle opportunità di inserimento stabile. Se si vuole un sistema diverso, cosiddetto anglosassone, bisogna avere il coraggio di abbracciarne tutti gli aspetti. Per esempio, se oggi un ricercatore, a fronte della certezza del posto, guadagna una miseria, domani da precario deve un corrispettivo alla sua incertezza e guadagnare almeno il doppio.
Un altro aspetto è la valutazione.
Certo, e oggi è avviata quasi dappertutto. Ma oggi non ci sono più soldi pubblici: se le ricerche come al Cnr devono essere fatte solo con fondi esterni, saranno i privati a valutare, non certo lo stato. Anche le università sono al collasso. In queste condizioni la valutazione diventa ridicola.
E che modello di reclutamento immagina?
Uno che passi dal dottorato e dalla specializzazione post dottorato. Dopodiché a trent’anni passati, credo sia ora di dare un’opportunità di entrare nel sistema. Quello che credo sia molto importante è incoraggiare la mobilità per evitare che uno compia tutto il suo percorso accademico nello stesso posto. Oggi il sistema fa una selezione alla rovescia: un giovane brillante che non abbia su cui contare altro che le proprie capacità si vede scoraggiato e per forza è costretto ad andarsene.
[da Lavorivariabili.it]