di Dario Zonta
Esce in Italia con due anni di ritardo Hero, il primo film di «cappa e spada» del regista cinese Zhang Yimou. Il suo nome è legato a film intensi, bellissimi e impegnativi, come Lanterne rosse e La storia di Qiu Ju (tutti variamente premiati in festival internazionali). Ora si confronta con il genere dei generi in terra d’Oriente: il cappa e spada appunto, o «wuxiapian». Qualcuno aveva detto che un regista non è un regista se non affronta prima o poi il film d’azione con coreografici duelli sul fil di lana. Zhang Yimou deve aver sentito l’avvertimento perché dopo Hero ha sfornato subito un altro «wuxia» film, La foresta dei pugnali volanti, presentato fuori concorso all’ultima edizione di Cannes e prescelto dalla Cina per l’Oscar straniero.
Hero racconta gesta di eroi nella Cina leggendaria di prima dell’Impero: la storia (in una delle tante versioni) della sua fondazione. La versione raccolta da Yimou vede un guerriero, Senza Nome (Jet Li), affrontare e sconfiggere, su richiesta di uno degli imperatori dei Sette Regni (in tante parti era divisa la Cina nel terzo secolo avanti Cristo), tre guerrieri che osteggiano il suo primato. Ma quel che appare non è vero, e il resoconto di Senza Nome è pieno di contraddizioni. Zhang Yimou struttura la storia pensando al Rashomon di Kurosawa (quattro verità per quattro versioni della stessa vicenda), ma la mette in scena come fosse un balletto di teatro-danza in un teatro di posa pubblicitario. L’estetizzazione (della battaglia, del duello, della guerra) è portata alle estreme conseguenze (ed estrema è la noia) e c’è più di un sospetto nel finale pro-imperialista. La tigre e il dragone di Ang Lee era trenta volte più appassionante e melodrammatico di Hero, in cui il volo degli eroi alla trentesima volta stanca mortalmente. E le facce di Toni Leung e Maggie Cheung, pur belle, non lo salvano.
Il «wuxiapian» è un genere popolare, dettato da chiare regole e codici, e frequentato da un preciso pubblico di appassionati. Il successo di questi ultimi anni ha sfondato il pur vasto bacino di accoliti andando a pescare in altri e impensati uditori. Quindi, in tutte le sue varianti nazionali («wuxiapian» all’orientale, «swordplay» all’inglese, «cappa e spada» all’italiana) è diventato un genere alla moda, dai grandi incassi (Hero ha raccolto in agosto negli Stati Uniti 60 milioni di dollari, e in patria il corrispettivo di 100 milioni di dollari), su cui si sono buttati scaltri gli imprenditori cinematografici.
La rottura degli argini fideisti è da attribuire ad alcune pellicole fortunate, come La tigre e il dragone dell’americanizzato Ang Lee (fortemente voluto dalla Miramax), e soprattutto alla mitizzazione che del genere ha fatto il potente Quentin Tarantino, da sempre pervaso dallo spirito «wuxiapan», come la saga di Kill Bill dimostra. Tarantino è diventato un marchio di fabbrica, un brand, una garanzia. Tarantino il padrino, lo sponsor, il testimonial… La sua potenza sta proprio nel riuscire ad applicare il marchio (o a permettere di farlo) a film di produzioni lontane e straniere, avocando a sé una tradizione ben più importante e lunga. Se ci fate caso sulle locandine e nei trailer di Hero compare a lettere cubitali il nome di Tarantino e più piccino quello di Zhang Yimou. Ora non crediamo che il regista cinese, massimo rappresentante della quinta generazione, quella succeduta alla Rivoluzione Culturale, abbia realizzato Hero perché Tarantino ha fatto Kill Bill, ma crediamo che questa vicenda di marketing sia l’ennesima dimostrazione di come la pubblicità gestisca le intelligenze del proprio uditorio: grida Tarantino per vendere un «yimou» piccolino.
La cosa peggiore è che chi va a vedere il film (ed è poco avvisato) non si accorge della differenza, uno vale l’altro: Yimou sta a Tarantino come Hero a Kill Bill. E la cosa ancora più preoccupante è che il maestro cinese non se n’è accorto. Anch’egli vittima inconsapevole della manipolazione tarantiniana di un genere «millenario». Kill Hero: questo sta accadendo, dove «Hero» sta per la tradizione epica del film di genere e «Kill» per l’usurpazione occidentale in chiave mitica.
Se si volesse fare un discorso più in generale, bisognerebbe dire della tendenza sempre più incalzante del cinema contemporaneo (e non solo) a fare la violenza e la guerra belle, musicali, coreografiche, affascinanti. Tendenza che incrocia anche gli eventi più lontani, ma accomunati da una stessa «passione». E così in questo senso l’operazione di Zhang Yimou ricorda, per tipologia, quella che Baricco sta proponendo con l’Iliade: un rifacimento-rilettura-adattamento innamorato di sé. Solo che entrambi giocano con il mito, che sia orientale o attico, ed estetizzano la guerra come forma pura senza sangue.
[da l’Unità]