di Andrea Spotti*
Teodulfo Torres è uno che in piazza prima o poi lo incroci. Quarantunenne, aderente alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, è un volto conosciuto all’interno dei movimenti antagonisti di Città del Messico, uno che non manca quasi mai nelle mobililitazioni. Da più di sei mesi a questa parte, tuttavia, nessuno ha più avuto modo di vederlo. Parenti e amici non hanno avuto sue notizie, né sono riusciti a mettersi in comunicazione con lui. El Tío, come lo chiamano i suoi compagni, é letteralmente scomparso nel nulla, entrando a far parte della lunga lista di vittime della sparizione forzata la quale, nel Messico della cosidetta guerra al narcotraffico, è tornata ad essere una prassi di Stato assai comune, che preoccupa seriamente movimenti e organizzazioni per la difesa dei diritti umani. Oltre ad essere un membro della Sexta zapatista, Teodulfo é attivo in un progetto di agricoltura urbana nel sud della capitale e partecipa al gruppo di teatro di strada La Otra Cultura. Nel corso degli ultimi anni, inoltre, ha sostenuto diversi movimenti di lotta del paese: dal Chiapas a Oaxaca, passando per Atenco, dove ha avuto un ruolo importante nella battaglia per la liberazione dei detenuti politici sostenendo il presidio permanente piazzato per mesi fuori dal carcere di Molino de las Flores a Texcoco, nello Stato del Messico.
El Tío è stato visto l’ultima volta nella mattinata del 24 marzo, nei pressi del suo domicilio, a Tlalpan; due giorni dopo, ha tenuto una comunicazione telefonica. Poi più niente. I compagni del collettivo El Terreno hanno tentato per giorni di mettersi in contatto con lui, ma invano. La denuncia alle autorità é partita il 12 aprile, quando il sospetto che El Tío fosse desaparecido era ormai quasi una certezza. Queste ultime, peró, hanno mantenuto un atteggiamento di indifferenza rispetto al caso e, lungi dall’iniziare un’indagine seria, si sono limitate ad investigare parenti, amici e conoscenti di Teodulfo, invitandoli a non rilasciare dichiarazioni alla stampa.
Secondo i suoi compagni, tuttavia, non ci sono dubbi: siamo di fronte all’ennesima sparizione forzata, di cui El Tío é vittima in quanto testimone dell’aggressione poliziesca subita dall’attivista della Sexta e maestro di teatro Kuy Kendall il primo dicembre del 2012, durante le proteste contro l’insediamento di Peña Nieto alla presidenza della repubblica. In quell’occasione, infatti, Teodulfo documentó il momento in cui uno dei tanti candelotti lacrimogeni lanciati ad altezza uomo dalla polizia federale colpì la testa di Kuy provocandogli una grave lesione craneo-encefalica. Testimone chiave dell’indagine, El Tío avrebbe dovuto rilasciare la sua ricostruzione dei fatti agli inquirenti nei mesi successivi alla sua scomparsa.
Per quanto riguarda Kuy (vittima quasi immediata del ritorno del pugno di ferro priista contro i movimenti, insieme allo studente Uriel Sandoval, che perse un occhio in quella stessa occasione), va segnalato che, a dieci mesi di distanza, continua ad essere in condizioni molto serie. Come ha raccontato la sua compagna Eva Palma durante il meeting per la presentazione di Teodulfo dello scorso 20 settembre, i danni neurologici subiti sembrano essere irreversibili. Kuy, infatti, “é totalmente inabilitato”, non puó parlare, né muoversi, né deglutire e “ogni due ore bisogna muoverlo” per evitare le piaghe da decubito e l’atrofizzazione dei muscoli. L’animatore de La Otra Cultura, inoltre, non avendo un’assicurazione sanitaria, ha potuto ricevere cure solo grazie “alla solidarietà dei compagni de La Otra Campaña”, della quale continua ad avere bisogno.
Il fenomeno della sparizione forzate (che si distingue dalle altre tipologie per l’intervento di attori statali) non é una novità per il Messico, al contrario, secondo l’associazione HIJOS-México, il PRI di Diaz Ordaz avrebbe addirittura anticipato le dittature del Sud del continente in materia, mettendo in pratica la prima desaparición già nel 1969 con il caso del Prof. Epifanio Avilés. Da questo momento, la sparizione forzata resterà uno dei principali strumenti usati dallo stato per combattere movimenti sociali e gruppi guerriglieri fino ad anni 80 ben inoltrati. Dalla metà dei 90 in avanti, la pratica di questo delitto di lesa umanità verrà intensificata in risposta al sorgimento delle guerriglie dell’EZLN e dell’EPR, facendo nuovamente crescere il numero degli scomparsi. É con il governo di Felipe Calderón e la sua guerra al crimine organizzato, nell’ambito della quale si assiste all’aumento generalizzato di violenza e impunità, che il fenomeno inizia ad assumere dimensioni sempre più massicce e preoccupanti, coinvolgendo quasi tutto il territorio nazionale (almeno 20 stati su 32, secondo un documento firmato da varie associazioni di vittime di sparizione forzata).
Ma quanti sono i desaparecidos in Messico? Secondo le cifre fornite dalla Secretería de Gobernación (Ministero dell’interno), erano 26.121 alla fine del mandato calderoniano. Considerando che moltissimi casi non vengono denunciati per paura di rappresaglie o sfiducia nelle autorità e che associazioni come Amnesty International sostengono che dal 2007 il crimine in questione sia in costante aumento, é molto probabile che la cifra ufficiale sia più bassa di quella reale. In tutti i casi, rende l’idea della gravità della situazione che, dal punto di vista numerico, ricorda più la dittatura di Videla in Argentina che uno stato democratico.
Al di là dei numeri, che difficilmente possono descrivere in modo corretto la realtà anche a causa della mancata tipificazione del delitto nelle legislazioni statali e federali (con eccezione del Nuevo León) e dell’assenza di un registro nazionale delle persone scomparse, é importante capire dove cercare le responsabilità per questa abominevole violazione dei diritti umani. Nonostante i mass media indichino i gruppi criminali come autori principali di questo delitto, Human Right Watch e Amnesty International hanno dimostrato nei loro recenti rapporti sul fenomeno che sono i corpi armati dello Stato i maggiori responsabili delle sparizioni.
Nella maggioranza dei casi analizzati dalle due organizzazioni, infatti, le vittime sono state prelevate illegalmente e contro la propria volontà dalle forze di sicurezza statali. Per quanto riguarda lo studio di HRW, si tratta di 149 dei 250 casi analizzati; mentre per Amnesty di 85 su 152. In tutti, viene documentata senza ombra di dubbio la partecipazione di corpi di polizia o dell’esercito nelle sparizioni. Queste, il più delle volte, vengono realizzate attraverso detenzioni illegali fatte da agenti o soldati in uniforme, spesso nella casa della vittima e di fronte ai familiari, oppure in luoghi pubblici e posti di blocco alla vista di testimoni.
In altre occasioni, come denuncia HRW, un particolare corpo dello stato si é caratterizzato per un modus operandi che fa pensare che dietro alle scomparse ci sia una strategia di ampio raggio che difficilmente può essere portata avanti a insaputa delle alte gerarchie poliziesche o militari. É il caso del corpo della Marina, per esempio, che nell’estate 2011 ha commesso più di 20 detenzioni arbitrarie tra Coahuila, Nuevo León e Tamaulipas, compiendo gli arresti all’interno dei domicili delle vittime e mobilitando operativi che contavano con molti elementi, per poi negare il tutto davanti ai parenti in cerca dei loro cari attribuendo la responsabilità alla criminalità organizzata.
Altri elementi che mettono in luce i documenti sono l’inefficenza e la scarsa professionalità con cui vengono portate avanti le indagini, le quali spesso non mettono in pratica misure banali come localizzare il cellulare della vittima, controllarne i movimenti bancari o visionare le telecamere presenti nella zona della scomparsa. Le ricerche dei desaparecidos, inoltre, sono state minate dall’inutile temporeggiamento dei funzionari pubblici che spesso hanno invitato chi denunciava la scomparsa a tornare dopo 72 ore in violazione di ogni procedimento. Oppure, che sono arrivati all’assurdo di chiedere a parenti e amici dei desaparecidos di indagare autonomamente le persone o le autorità sospette, mettendoli in una condizione di serio pericolo. Infine, in tantissime occasioni, i funzionari non hanno avviato le ricerche perché convinti che la vittima fosse tale in quanto membro di una qualche organizzazione criminale. Insomma, tra partecipazione diretta e inefficienza le responsabilità dello stato in quella che HRW definisce “la più profonda crisi in materia di sparizione forzata” degli ultimi decenni in America Latina, sono molte.
Per quanto le ricerche in questione puntino il dito soprattutto contro il governo di Felipe Calderón, pare che neanche l’attuale governo abbia intenzione di mettere un serio argine al fenomeno. Al contrario, mentre i morti per omicidio, secondo cifre ufficiali, sono in leggera diminuzione, le sparizioni forzate sembrano essere in aumento e, come nel caso di Teodulfo Torres, coinvolgono sempre più di frequente attivisti e difensori dei diritti umani. Solo nei primi dieci mesi del governo Peña Nieto, infatti, sono già stati registrati 13 casi di sparizioni forzate ai danni di membri di organizzazioni e movimenti sociali, come denuncia alla Jornada Nadín Reyes, coordinatrice del Comité Hasta Encontrarlos.
A quasi un anno dall’insediamento di Peña Nieto, i peggiori timori suscitati dal ritorno al potere del PRI paiono essere confermati. L’apertura della stagione delle cosiddette riforme strutturali e la risposta repressiva data alle proteste delle ultime settimane hanno sancito il ritorno di uno stile che, unito all’intensificarsi del fenomeno delle sparizioni forzate e alla cooptazione delle opposizioni al governo attraverso il Patto per il Messico (sorta di larghe intese in salsa messicana), ha ridotto sensibilmente i margini di agibilità democratica nel paese, e costituisce un quadro assai preoccupante per il futuro prossimo della (già fragile) democrazia messicana.
*Andrea Spotti è un giornalista indipendente collaboratore di Contropiano, MilanoX, Carmilla, Sos Fornace, PopOffGlobalist.