di Valerio Evangelisti
Il 1° ottobre esce il film Lavorare con lentezza, che solo il pubblico della Mostra del cinema di Venezia ha finora potuto vedere. Rimandando ogni giudizio sulla pellicola, mi preme per ora segnalare il sito che le è dedicato. Non è il classico sito messo su in tutta fretta per pubblicizzare un film, e destinato a essere abbandonato subito dopo. Qui siamo di fronte a un percorso ragionato, che ruota attorno all’evento chiave su cui è imperniata la pellicola di Guido Chiesa: la rivolta che scosse Bologna l’11 e 12 marzo 1977, dopo l’uccisione da parte della polizia del militante di Lotta Continua Francesco Lorusso.
Abbiamo così, oltre al classico trailer e ai diari di lavorazione, materiali inusuali. Per esempio un forum, in cui molti interventi sono a carattere squisitamente politico, e a volte sono firmati da diretti protagonisti dell’11 marzo bolognese. Poi una raccolta straordinariamente ricca di reperti sonori, una serie di fotografie (dalle barricate ai murales fioriti in tutto il centro cittadino), la riproduzione dei titoli di prima pagina apparsi sui giornali di allora, articoli, brevi saggi, testimonianze, estratti da libri e riviste. Preziosi anche i link a siti in grado di fornire ulteriori informazioni. In sintesi, tutte le risorse del web sono messe a disposizione della ricostruzione, per frammenti ma non per questo meno organica, di fatti ancora ben vivi nella memoria ma troppo perturbanti (proprio perché troppo vivi, vale a dire “politicamente attivi”) per essere richiamati con la dovuta frequenza.
Cos’è che disturba tanto nella rivolta (già il termine farà storcere il naso a qualcuno) bolognese del ’77? Nel sito lo si coglie con chiarezza. Anzitutto le barricate furono erette non solo contro la polizia o le “forze di destra”, di fatto invisibili, ma anche e soprattutto contro il PCI che governava la città, e che subito invocò (e ottenne dal governo) la più ferrea repressione. Per chi manifestava allora, era già perfettamente evidente, in trasparenza, il percorso che — prima ancora che la lotta armata emergesse con virulenza — stava collocando la sinistra istituzionale italiana, sotto la guida del suo maggiore partito, sulla via che l’avrebbe portata all’accettazione del liberismo, all’alleanza con i magistrati più forcaioli, all’arma della delazione per disfarsi di forme di antagonismo fastidioso, a una collocazione di centro adottata come strategia.
Bologna, nel ’77, era già laboratorio di ciò che sarebbero stati il “girotondismo” e la repressione di Genova 2001 (attuata dalla destra ma premeditata dal centrosinistra). Per chi reggeva la città, i ceti medi erano ormai soggetto prioritario di riferimento, e il capitalismo lo si superava diffondendo la piccola e media impresa e ricercando, a livello sindacale, quell’antenato della “concertazione” che fu la politica delle compatibilità cara a Luciano Lama. Contro questa deriva della sinistra insorsero — non solo a Bologna – quelli che furono poi sbrigativamente classificati come semplici “studenti”.
Ripeto, non ho visto Lavorare con lentezza, però so che impernia la propria storia su un gruppetto di ragazzi di periferia che, mentre cercano di scavare un tunnel per raggiungere le casseforti di una banca, sono raggiunti quasi loro malgrado dalle sirene della ribellione. Ebbene, chiunque sia stato testimone o partecipe dei “fatti” di Bologna ’77, sa che di giovani di quel tipo, calati dai quartieri suburbani, ve ne furono a bizzeffe. Fu facile per loro solidarizzare con gli studenti e confondersi tra essi. Gli universitari dell’epoca, in larga misura di estrazione meridionale, rimanevano per anni parcheggiati negli atenei data la generale mancanza di prospettive d’occupazione. Campavano con lavoretti precari, così come gli studenti medi degli istituti tecnico-scientifici, che spesso, la sera, prestavano la loro opera nelle piccole fabbriche sommerse dalle commesse — salvo venirne allontanati quando le commesse venivano meno. Condizione non troppo diversa da quella dei giovani operai delle piccole imprese, privi di diritti sindacali e partecipi della precarietà del tessuto produttivo in cui erano inseriti.
Ebbene, a tutti costoro il PCI bolognese proponeva quale modello il decentramento produttivo di cui erano le vittime, raccomandava la concordia sociale trascurando il fatto che i diritti sindacali erano ignoti, e spostava il proprio interesse da loro ai ceti che si arricchivano in tempi di crisi. Ebbe in risposta una rivolta di tutto il proletariato giovanile, inclusi i soggetti meno controllabili, che per la prima volta lo additò quale nemico, e lo costrinse a gettare la maschera. Sotto la guida dei Berlinguer e gli incitamenti dei Lama, il PCI scelse la via delle autoblindo e dei manganelli, mentre nella manica nascondeva già le carte della “mobilità” e della “flessibilità” che avrebbe giocato in futuro. Così facendo, aprì la strada agli anni dei gruppi armati, nel ’77 già presenti ma privi di vera influenza.
Il tema era già stato trattato, in forma allegorica, in un film di Roberto Faenza del 1980, Si salvi chi vuole (in cui una festa elegante in casa di un pezzo grosso del PCI, trasparente controfigura del sindaco Renato Zangheri, viene sconvolta da un’orda di teppisti di periferia). Se il film di Guido Chiesa rispecchia almeno in parte questi argomenti, si tratta veramente di un evento, e non solo dal punto di vista cinematografico. Intanto chi li rispecchia è il sito che ho indicato, percorso tra l’altro da un’irrefrenabile vena di allegria. La stessa che provò chi visse gli eventi di Bologna ’77, plumbei solo per quanti, scegliendo di digrignare i denti e di rifiutare il confronto, prepararono il nostro grigio presente.