di Luca Baiada

Dicono che non deve piacerci, dicono. Dicono che fu una cosa brutta, dicono. Qualcuno dice anche che le cifre tonde degli anniversari non significano niente, che sono come tutti gli anni. Ma in tempi neri, mentre i neri occupano tutto, in Italia e fuori, quella fine meritata non la vogliamo ricordare?

Dicono che contano altre cose, dicono. Dicono che a fare la storia è solo l’economia, oppure la geopolitica, o anche le classi, oppure la geografia, o magari l’energia, o invece le materie prime, anzi la demografia. Tutto fa la storia, e le persone no?

E invece furono persone, a impadronirsi del potere. Persone, non cose, forze, numeri, astrazioni, formule, teorie. Lo fecero in pochi anni, tra la fondazione dei Fasci di combattimento, Milano 23 marzo 1919, e le leggi fascistissime dopo il delitto Matteotti del 1924. Furono quelle persone, a massacrare le condizioni del lavoro, della vita, dei rapporti umani. Furono loro, a distruggere la libertà. Vent’anni di macelleria sociale, di prepotenze, di ruberia organizzata, di ottundimento della coscienza, di bugie, di propaganda senza pause e senza ritegno. Furono loro, a scaraventare il popolo italiano in cinque guerre.

Furono loro, a vanificare in poco tempo i successi delle generazioni risorgimentali: loro ricostituirono il potere temporale del papa, quasi subito, nel 1929; loro consegnarono il paese ai tedeschi, pochi anni dopo. Poi per cacciare i tedeschi ci vollero gli Alleati, e adesso le basi degli Usa e della Nato sono ancora qui, anche quelle con armi atomiche, legate a catene di comando imperscrutabili. Se come compimento dell’Unità si guarda alla presa di Roma nel 1870, l’indipendenza dell’Italia è durata – amara realtà – meno della metà di questo secolo e mezzo. E c’è ancora chi dice patria ma si scalda al fuoco fatuo del Msi, liquidato da Pier Paolo Pasolini: «Arista / o tetro vegetale guizza cerea / nel mezzo la fiammella fascista»[1].

Furono loro, a dare al mondo una cattiva lezione. Lo strano popolo ficcato in mezzo al Mediterraneo, aggrappato a una penisola rugosa e a isole in mari diversissimi, rimasto per secoli accomunato da una lingua romanza contesa, sparsa in dialetti lontani sino all’incomunicabilità, e da una cultura con mille varianti orgogliose e capricciose, un popolo stretto da troppo tempo fra la miseria di tanti e il quieto vivere di pochi, aveva dato l’esempio con l’unificazione e col ridimensionamento del potere del clero. Ma di colpo, ecco che insegnava al mondo un modello e una parola, il fascismo, che ancora adesso elettrizza tutti gli sfruttatori, i prevaricatori e gli schiavisti del pianeta.

Chissà perché, di un po’ di pulizia ci si dovrebbe vergognare. Perché chi fa la cosa giusta poi deve dare spiegazioni, farsi l’esame di coscienza, pulirsi le unghie, pettinarsi, darsi il deodorante, mettersi sull’attenti. E anche così, chiedere scusa.

E non va bene che si debba distinguere: perché bisognava fare il processo pubblico, perché fra quelle camicie nere qualcuno era meno carogna, perché la Petacci poverina, perché qualcosa di buono c’era stato, in quegli anni.

E quanto agli argomenti di chi giustifica, in fondo non vanno neanche quelli: cercano il contrappeso, l’appoggio, la motivazione. Non è decisivo neanche il fatto precedente: la fucilazione degli antifascisti, nel 1944, nello stesso posto. Come se fosse accettabile un contrappeso, un prezzo gettato all’ultimo momento su una bilancia. Forse non vanno bene certi argomenti proprio perché giustificano, mettono ordine, e così finiscono per sottintendere una colpa, almeno un’accusa, un sospetto, un’ombra, una macchiolina. Proclamando l’innocenza, finiscono per incolpare.

Ma poche cose sono chiare, necessarie, come quella punizione magra, però punizione, e quel piazzale di Milano, disadorno allora e oggi. Uno slargo con una bruttezza confusa che scorre invariabile, coerente e parlante, dai casamenti dell’Ottocento e del primo Novecento sino a quelli dello sviluppo, poi della Milano da bere e poi della Milano da esposizioni, Milano che corre, Milano che non la ferma neanche il covid, Milano con la cocaina nelle acque di scarico. Quello snodo è un posto da illustrazioni in bianco e nero, di quelle di una volta, con la didascalia; eppure, «saluti da piazzale Loreto» sarà sempre tutt’altro che «saluti da Milano».

I signori del cannone e della cartapesta ebbero il loro degno palcoscenico finale, non c’è che dire. Un piazzale periferico, allora, e ancora adesso informe, convulso, da spartitraffico. Un posto anonimo e distratto. Un piazzale da distributore di benzina.

 

 

[1] Pier Paolo Pasolini, Comizio, in Le ceneri di Gramsci, Garzanti, Milano 2021, p. 27.