di Chiara de Stefano

Opus – Venera la tua stella di Mark Anthony Green, USA 2025.

C’è qualcosa di spettrale e carnale in Opus – Venera la tua stella, primo lungometraggio del giovane regista Mark Anthony Green, approdato nelle sale italiane lo scorso ventisette marzo. Una lunga seduta medianica, in cui l’anima della vecchia stella del pop Alfred Moretti – incarnata con grazia ieratica da John Malkovich – aleggia come un idolo secolare piangente nella cattedrale profana del culto contemporaneo: la fama.

Green ci trascina infatti nei recessi arcani dell’America mistica, tra canyon che paiono scolpiti dalla volontà di un dio edace e silenzi saturi di presagi, per narrare una storia che è insieme thriller, horror e allegoria perturbante.

Una villa-tempio sperduta nel nulla, chiesa e prigione, diventa teatro di un sabba estatico in cui critici, influencer e giornalisti – sibille del mondo patinato dello spettacolo – si radunano per ascoltare in anteprima il nuovo album del profeta-pop star Moretti. Ma è solo Ariel Ecton (Ayo Edebiri), la giovane protagonista redattrice con la t-shirt dei Radiohead, a scorgere sin da subito la dannazione e la perversione dietro la divinità pop: il culto, il rito e, infine, il sacrificio.

Per questi stilemi, Opus richiama altri celebri film come The Wicker Man (Robin Hardy, 1973), The Invitation (Karyn Kusama, 2015), Apostle (Gareth Evans, 2018), Midsommar (Ari Aster, 2019) e Speak No Evil (Christian Tafdrup, 2022). Green però tinge il suo film di un pop acido e nevrastenico, dove la tensione è perfino sensuale e l’estasi sonora diventa completa possessione di tutti i personaggi: sia dei Livellisti, gli adepti vestiti di blu, che degli ospiti in abiti eleganti e monocromatici come le vecchie pedine del Cluedo. La liturgia che ne deriva è una decomposizione rituale dell’identità: il sacrificio non è solo figurato, ma necessario. Ariel è l’offerta pensante, l’elemento deviante, e dunque, come afferma René Girard, il capro espiatorio perfetto, immolato sull’altare di un desiderio collettivo condizionato. Difatti, il meccanismo mimetico – l’imitazione isterica dei desideri altrui – trova qui la sua forma contemporanea: la subcultura sclerotica dei fan, l’idolatria digitale, la massificazione della devozione.

Dal punto di vista tecnico, Opus è una sinfonia elettrica in chiaroscuro: la saturazione cromatica della pellicola accompagna il lento climax degli eventi e la luce negli esterni, dominati da una luce naturale rarefatta, evoca un misticismo desolato.  Gli interni sono invece rappresentati come ossessivi, colmi di claustrofobia chic, ma eremitica. Per questo utilizzo della luce richiama il chiaroscuro del cinema espressionista tedesco, ma lo tinge di paillettes, danze estatiche e cibi fluorescenti.

La scenografia è metafora architettonica del vuoto interiore delle coscienze vuote e impazienti di essere colmate. Le stanze minimaliste e spoglie, svuotate di ogni appiglio alla quotidianità, sospingono i personaggi in un limbo identitario, ma li sospendono nel miraggio del lusso postmoderno.

Il sound design alterna vibrazioni psichedeliche e pulsazioni dance, pezzi orecchiabili che danno un ritmo alla narrazione. I silenzi, usati con sapienza musicale, sono pieni di presagi che rendono il corso degli eventi piuttosto prevedibile. Si intuisce presto il risvolto sacrificale già  nel suono martellante delle canzoni inedite che soffoca i suoni della normalità, per fare spazio a una nuova e inquietante armonia. La sonorità del film appare quindi come un’eco del rito sacrificale, che travalica la dimensione musicale e si fa anche visiva e psicologica.

L’inquietudine che il film lascia dietro di sé è simile a quella dei grandi miti tragici: il sacro non salva più, perché ha perso il suo volto. La stella fissa, eterna e impassibile, è il nuovo idolo: non brilla più per guidare, ma per annientare.

Green dunque non si limita a raccontare la dinamica del sacrificio: egli la trasfigura, la innalza a condizione ontologica. Moretti, profeta e carnefice, è l’immagine della divinità postumana, di un Dio algoritmico che finalmente non è più silente, ma canta con l’autotune.