di Sandro Moiso
Wulliam T. Vollmann, L’atlante, Edizioni minimum fax, Roma 2023, pp. 545, 20 euro
Alcune puttane lo fissarono immobili. Altre in stivaloni gli fecero ciao e gli fischiarono dietro allegramente. Andò da tre di loro e disse: Scusate, non ho più soldi, ma potrei baciare una di voi?
Va bene, caro, disse una rossa. Ti bacio io. Succhiò un attimo la gomma da masticare, andò da lui, lo prese per la testa e gli sputò in faccia (W.T. Vollmann – Cinque notti solitarie. Berlino, Germania 1992)
Se c’è un tratto che colpisce nei maggiori autori nordamericani degli ultimi decenni (Auster, De Lillo, Wallace, Pynchon) è sicuramente quello di aver indirizzato la loro letteratura verso una sorta di smaterializzazione, in cui la realtà è spesso rappresentata più da simboli che dalla concretezza dei fatti cui ci aveva abituato il realismo di tanti autori statunitensi precedenti.
Un risultato che sembra dovuto, più che alla riflessione sulla “leggerezza” contenuta nelle Lezioni americane di Italo Calvino1, all’inevitabile influenza culturale esercitata sulla stessa letteratura dal processo, avvenuto in Occidente nel corso degli ultimi quattro decenni in ambito economico e produttivo, che ha portato al trionfo della produzione immateriale su quella concretamente industriale e del capitale fittizio su quello investito nella produzione industriale di beni materiali.
Una sorta di guerra che vede simbolicamente, ma non soltanto, scontrarsi, da un lato, la “volatilità” finanziaria dei giganti del NASDAQ2 e, dall’altro, l’industria manifatturiera che l’attuale presidente statunitense sta cercando di riportare, non senza difficoltà, negli Stati Uniti, insieme al lavoro, da anni in caduta libera nel settore un tempo sviluppatosi in quella che oggi viene ancora definita Rust Belt.
Una “guerra” in cui lo scrittore e saggista americano William T. Vollman sembra aver scelto di schierarsi dalla parte della Rust Belt, non tanto per il contenuto dei suoi scritti, quanto piuttosto per essersi messo, fin dalle sue prime opere, sulle tracce della concretezza del mondo, convinto che dovesse ancora esistere e che ha saputo ritrovare in ogni occasione possibile. Seguendo percorsi allo stesso tempo simili eppure molto diversi da quelli di Hemingway, Faulkner, Dos Passos, Steinbeck e dello stesso Kerouac, i cui viaggi on the road rappresentavano una scusa per incontrare le varietà di una società sospesa tra il benessere del dopoguerra e il desiderio di fuggirlo.
Occorre partire da Kerouac, infatti, per comprendere i viaggi, spesso pericolosi, intrapresi da Vollmann in ogni angolo degli Stati Uniti e del mondo: da San Francsco a New York e dal Madagascar all’Afghanstan fino alla Thailandia e alla Cambogia. A differenza del più significativo scrittore della beat generation, però, i suoi viaggi non avvengono solo nel tempo sincronico del presente della sua scrittura, ma anche lungo diverse coordinate temporali.
Ripercorrere il passato e le origini degli attuali States, o dei fatti che condussero e accompagnarono il secondo conflitto mondiale oppure, ancora, la lunga onda della violenza che sembra aver accompagnato la storia della specie umana, costituisce il nerbo di tutta la sua letteratura in cui il presente non può esistere senza il passato, mentre il passato non avrebbe senso alcun se non ne si ritrovasse ancora traccia nella contemporaneità.
Ma il filo rosso che attraversa crudelmente tutte le sue opere, sempre sospese tra cronaca, autobiografia e invenzione, è rappresentato dal dolore che sembra accompagnare l’esistenza in ogni suo attimo. Che si tratti dei nugoli di zanzare che tormentano selvaggiamente i viaggiatori nelle terre del Nord americano, oppure di quello mascherato da sorrisi delle giovani prostitute dell’estremo oriente oppure malgasce e tedesche, o, ancora, la solitudine di uomini che cercano nel sesso a pagamento un amore perduto o forse mai incontrato, il dolore sembra non abbandonare mai gli esseri umani durante la loro esistenza.
Le storie dei soldati, guerriglieri, nativi americani soppressi con le armi e con il vaiolo, oltre che di esploratori destinati soltanto ad affacciarsi sul nulla dell’esistenza, si accompagnano anche a quelle dei danni, e quindi metaforicamente al dolore, subiti dall’ambiente e dalle altre specie animali. Che si tratti delle zone colpite dal disastro nucleare di Fukushima o delle foche uccise dagli Inuit oppure dai ben più avidi e scellerati cacciatori “bianchi”, le manifestazioni del dolore, fisico e psichico, non cessano mai. In una sorta di muto colloquio dell’autore con un fato che non veste nemmeno i panni razionali della Natura dialogante con un islandese di una delle più note Operette morali di Giacomo Leopardi.
Però, più che Leopardi che, per l’epoca in cui visse, seppe leggere in senso materialistico lo strazio delle vicende umane, individuali e collettive, in Vollmann a trionfare è lo sguardo addolorato, spesso rabbioso, di Louis-Ferdinand Céline. Quello dell’uomo che si rivolta contro le sue condizioni di esistenza, senza però mai intravedere un filo di speranza, impossibilitato a ritrovare il filo di quell’umana social catena che nella Ginestra leopardiana poteva, almeno, fungere da possibile, e forse unica, consolazione.
Nei testi di William T. Vollmann siamo quindi lontani anni luce da qualsiasi forma di leggerezza o immaterialità mentre i suoi simboli sono sempre estremamente concreti, fatti di carne e di sangue, poiché su un altro versante della letteratura si pone l’autore, lontano sia dalla ricerca del sensazionalismo politico e sociale ricercato dagli scrittori muckraker della fine del XIX secolo che dal distacco della scrittura dall'”oggetto” narrato.
Vollmann, invece, guarda in faccia il dolore e ce lo sbatte sul muso, senza inutili pietismi e senza mai risparmiarci il sangue, la merda, la puzza, lo sperma che spesso lo accompagnano. Come per Cèline, l’invito rivolto al lettore è lo stesso: accomodati al mio desco e consuma con me questo piatto indigesto e quasi sempre ripugnante oppure lasciami perdere a vai a farti fottere da chi immagina e parla di un mondo migliore. Magari anche divertente.
Roba per stomaci forti, per proseguire con la metafora gastronomica, di cui il testo pubblicato nel 2023 da minimum fax rappresenta il menù sostanzialmente completo, dagli antipasti ai secondi piatti, dolci assolutamente esclusi. Dall’estremo Nord alla Jugoslavia devastata dalla guerra civile; dalla Somalia alle autostrade americane, dalla Thailandia a Pompei: come si è già detto, non c’è quasi terra o contesto umano che William Vollmann non abbia esplorato e raccontato.
L’atlante costituisce così il diario di viaggio di questa erranza continua e irrequieta, ricostruita attraverso cinquantadue “capitoli” diseguali per lunghezza e per tono, ma accomunati dallo stesso brutale incontro/scontro con la vita concreta. I frammenti e i racconti sono organizzati in una struttura palindroma: il primo testo viene ripreso dall’ultimo, il secondo dal penultimo, e il racconto centrale contiene tutti gli altri, come una silloge ideale. Alcuni testi rappresentano una versione compressa dei libri che Vollmann al momento della pubblicazione aveva già scritto. Mentre altri anticipano, in qualche modo, quelli ancora non scritti all’epoca della loro stesura.
William Tanner Vollmann è nato a Santa Monica, California, il 28 luglio 1959 e ha vissuto in seguito nel New Hampshire, a New York e San Francisco. Quando aveva nove anni, la sorella di sei anni annegò in uno stagno e lui si sentì responsabile della sua morte e, secondo lo scrittore, questa perdita avrebbe finito con l’influenzare gran parte del suo lavoro.
Dopo l’università, frequentata alla Cornell di Ithaca, lavorò come segretario in una piccola compagnia di assicurazioni, a San Francisco, per alcuni mesi e con i soldi ricavati da questo impiego, partì per l’Afghanistan durante l’invasione sovietica, scrivendo poi le sue esperienze in An Afghanistan Picture Show, or, How I Saved the World (Afghanistan picture show. Ovvero, come ho salvato il mondo, Alet, Padova 2005 e minimum fax, Roma 2020) pubblicato nel 1992, quasi dieci anni dopo quel primo viaggio.
Libro in cui racconta a posteriori un’esperienza sostanzialmente fallimentare, attraverso uno sguardo più adulto e disincantato, capace di guardare senza nostalgia al proprio io più giovane e ingenuo, che riusciva a porre le domande più sbagliate alle persone sbagliate, mentre si contorceva tra i dolori della dissenteria. Tra conversazioni piene di equivoci ed estenuanti camminate nell’impervio territorio afgano, trascinato e talvolta trasportato pietosamente dai mujahiddin, lo scrittore mette in scena l’idealismo ingenuo e il colonialismo dello sguardo americano sul mondo, in un’opera ibrida che si muove già, come molte altre successivamente, tra romanzo e diario, saggio storico e reportage. Che è per molti versi assimilabile agli scritti raccolti da Mark Twain sotto il titolo Gli innocenti all’estero in cui lo scrittore, più che ai paesi visitati durante diversi viaggi intorno al mondo, guardava ai comportamenti dei suoi concittadini messi al cospetto di una realtà molto diversa da quella della madrepatria da cui provenivano.
Successivamente Vollmann avrebbe pubblicato scritti di viaggio e articoli per la rivista «Spin», per il «New Yorker» e nella «New York Times Book Review», mentre all’inizio del 2003, dopo molti rinvii, ha pubblicato Rising Up and Rising Down: Some Thoughts on Violence, Freedom and Urgent Means (San Francisco, McSweeney’s Books, 2003), un trattato sulla violenza in sette volumi di 3.300 pagine, di cui una versione ridotta a un solo volume, di circa mille pagine, è stata pubblicata l’anno seguente da Eco Press (Come un’onda che sale e che scende. Pensieri su violenza, libertà e misure d’emergenza, Mondadori, Milano 2007; nuova edizione minimum fax, Roma 2022).
Elaborato nel corso di vent’anni, il testo si basa da un lato su un colossale lavoro sulle fonti (filosofia, teologia, biografie di tiranni, signori della guerra, criminali, attivisti e pacifisti), dall’altro su una serie di esperienze dirette, spesso estreme, che hanno portato l’autore nel cuore dei conflitti di fine Novecento e nelle zone più degradate delle grandi metropoli. Con l’attenzione rivolta sia a figure storiche che a persone comuni che della violenza hanno fatto un metodo, di difesa o di offesa: tutti abbracciati da uno sguardo profondo e partecipe.
Opera cui è possibile avvicinare anche Europe Central, che tratta di un ampio gruppo di personaggi coinvolti nella guerra tra Germania nazista e Unione Sovietica nel corso del secondo conflitto mondiale, che ha vinto nel 2005 il National Book Award per la narrativa (Mondadori, Milano 2010.). Romanzo che può ricordare, per molti versi, Vita e destino (in russo Жизнь и судьба, Žizn’ i sud’ba) di Vasilij Semënovič Grossman, scritto in Russia nel 1959 e pubblicato in Svizzera soltanto nel 1980, sedici anni dopo la scomparsa dell’autore (ed. italiane: Jaca Book, Milano 1982; Adelphi, Milano 2008), drammaticamente incentrato sugli avvenimenti ruotanti intorno alla battaglia di Stalingrado e di cui si parlerà nel prossimo futuro in questa stessa serie di articoli.
Sempre di carattere storico è un’altra opera monumentale di Vollmann, ovvero il ciclo di romanzi I sette sogni: un libro di paesaggi nordamericani, previsto in sette volumi, di cui pubblicati fino ad ora soltanto cinque e del quale in Italia sono stati tradotti tre titoli: La camicia di ghiaccio (The Ice-Shirt, New York, Viking, 1990; trad. italiana Alet, Padova 2007), Venga il tuo regno (Fathers and Crows, New York, Viking, 1992; Alet, Padova 2011) e I fucili (The Rifles, New York, Viking, 1994); Minimum Fax, Roma 2018) I due titoli non ancora pubblicati in Italia sono Argall: The True Story of Pocahontas and Captain John Smith (New York, Viking, 2001) e The Dying Grass (New York, Viking, 2015). Mentre i due annunciati e mai pubblicati sarebbero: The Poison Shirt e The Cloud-Shirt.
Si tratta, com’è facilmente intuibile dai titoli, di una lunga e sofferta narrazione della conquista europea del continente nord-americano e della fine delle società native conseguita a ciò, dai tempi dell’arrivo dei Vichinghi alla fine degli Indiani delle pianure, passando per la cristianizzazione dei nativi canadesi e la colonizzazione tecnologica degli Inuit. Raccontando un mondo che è scomparso non soltanto per quanto riguarda le differenti etnie e le loro tradizioni e forme di organizzazione sociale, ma anche, e talvolta soprattutto, dal punto di vista ambientale.
Ad uno dei romanzi, I fucili, rimanda uno dei racconti pubblicati sull’Atlante: Un vecchio dai vecchi kamik grigi – Coral Harbour, isola di Southampton, Territori del Nordovest, Canada (1993).
Tutti accompagnati dalla precisazione della località in cui sono ambientati e, in un apposito dizionario geografico posto all’inizio dell’antologia, dalle precise coordinate spaziali e geografiche, che le indicano in termini di longitudine e latitudine. In questo caso specifico: 64.10 Nord – 83.15 Ovest. Una precisione che non è pedanteria, ma attenzione a mappare esistenze, storie e drammi destinati a costruire un autentico reticolo del dolore sulla superficie terrestre e a penetrare più in profondità nella coscienza del lettore.
Ma l’opera che, per quanto riguarda chi stende queste note, pare più adatta a riassumere la visione del mondo dello scrittore nordamericano è la cosiddetta Trilogia della prostituzione, composta da tre testi di cui soltanto due pubblicati per ora in Italia: Puttane per Gloria (Whores for Gloria, New York, Pantheon Books, 1991; Mondadori, Milano 2000 e minimum fax, Roma 2024), Storie della farfalla (Butterfly Stories: A Novel, New York, Grove Press, 1993; Fanucci, Roma 1999 e minimum fax, Roma 2019) e The Royal Family (New York, Viking, 2000).
Storie e cronache in cui la ricerca della soddisfazione sessuale e la delusione che deriva dai rapporti con donne obbligate ad “offrirla” permette a Vollmann di esplorare fino in fondo i danni provocati dalla concezione spesso superficiale che un Occidente ricco e colonialista ha del mondo, anche quando questo sembra assumere sembianze innocue, turistiche, umanitarie o, peggio ancora, romantiche. Storie di emarginazione, abbrutimento, miseria e ignoranza che alcuni racconti contenuti nell’antologia sottolineano con vigore, anche se magari in poche pagine: Inutile piangere – Bangkok, provincia di Phra Nakhon-Thumburi (1993); Cinque notti solitarie – San Francisco, California, Usa (1984) – New York, Usa (1990) – Berlino, Germania (1992) – Antananarivo, Madagascar (1992) – Nairobi, Kenya (1993; Storie della farfalla (1 e 2). Queste ultime quasi tutte ambientate a Phnom Penh, Cambogia oltre che a Bangkok, Thailandia e a Sacramento, California tra il 1991 e il 1994.
Nella vita privata, Vollmann rifiuta la fama letteraria e l’utilizzo di dispositivi moderni quali cellulari e carte di credito e viene talvolta descritto come misantropo e schivo, tanto che in un saggio del 2023, intitolato Life as a Terrorist, Vollmann ha rivelato quanto l’attenzione ai temi di “anti-progresso” e “anti-industrializzazione” dei primi lavori abbia cambiato la sua vita, descrivendo, utilizzando proprio i file ufficiali, ottenuti attraverso il Freedom of Information Act, l’inchiesta a suo carico condotta dal Federal Bureau of Investigation alla metà negli anni novanta, ritenendolo sospettato nel caso Unabomber.
Oltre a diversi romanzi, spesso ancora inediti in Italia, Vollmann ha pubblicato varie raccolte di racconti: I racconti dell’arcobaleno (The Rainbow Stories, New York, Atheneum, 1989 – Fanucci, Roma 2001); Tredici storie per tredici epitaffi (Thirteen Stories and Thirteen Epitaphs, New York, Pantheon Books, 1991- Fanucci, Roma 2005 e minimum fax, Roma 2025) e Ultime storie e altre storie (Last Stories and Other Stories, New York, Viking, 2014– Mondadori, Milano.2016).
Tra le opere lontane dalla fiction vanno segnalate almeno quelle pubblicate in Italia che, oltre a Come un’onda che sale e che scende, comprendono I poveri (Poor People, New York, Ecco, 2007- Minimum Fax, Roma 2020) e Zona proibita. Un viaggio nell’inferno e nell’acqua alta del Giappone dopo il terremoto (Into the Forbidden Zone, New York, Byliner, 2011– Mondadori, Milano 2012). quest’ultimo recensito qui su Carmillaonline.
Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (Garzanti 1993) è un libro di Italo Calvino basato su una serie di lezioni preparate in vista di un ciclo di sei discorsi da tenere all’Università di Harvard per l’anno accademico 1985-1986. Fu pubblicato postumo nel 1988, vista la morte improvvisa dell’autore prima della partenza per gli States. ↩
National Association of Securities Dealers Automated Quotation, ovvero Associazione nazionale degli operatori in titoli con quotazione automatizzata, primo esempio al mondo di mercato borsistico elettronico, che costituisce, essenzialmente, l’indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana in cui sono quotate compagnie di molteplici settori, tra cui quelle informatiche come Microsoft, Cisco Systems, Apple, Googl, Facebook, Amazon e Yahoo, basato esclusivamente su una rete di computer e sulla capitalizzazione in borsa dei medesimi titoli. ↩