di Maurizio Marrone
Ήθος ανθρώπω δαίμων.
Il daimon è per ciascuno il suo carattere.
(Eraclito, fr. 119 D.-K.)
Oltre la costruzione identitaria del nemico
Mai come in questi giorni cupi, in cui l’Antropocene sembra voler immortalare il proprio suicidio simbolico nell’istantanea di un corpo che annega nelle sue stesse deiezioni, la percezione del mondo è per lo più filtrata da una nozione di soggettività posticcia che, come mera appropriazione identitaria, si nutre di separazione; una divergenza progressiva che esaspera, fino a farla esplodere, non solo la dialettica amico/nemico, ma anche la nozione stessa d’identità dell’individuo in quanto tale, espungendone alla radice l’alterità intrinseca che la costituzione più intima del soggetto stesso reca in sé, come proprio fondamento inespresso. In forza di questo costante svuotamento di senso, entrambi i termini della relazione – io/altro, amico/nemico – si presentano spesso come significanti vuoti e, soprattutto la nozione di nemico, declinata a uso e consumo di una propaganda dissennata, rimane irrimediabilmente cristallizzata in una sterile costruzione identitaria ad escludendum in forza della quale dalla parte giusta della storia ci siamo noi e da quella sbagliata ci sono gli altri, i nemici, gli stranieri, gli usurpatori, da additare ed eliminare, come gli ultracorpi nel celebre remake del film di Don Siegel. Con buona pace di Edmond Jabès quando ci dice che «lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»1.
Mai come in questi giorni cupi sarebbe invece opportuna una riflessione ponderata proprio sulla figura del nemico; un’analisi critica, depurata da ogni hybris etnocentrica, capace di restituirne la complessità proteiforme e di scardinare la logica tanatopoietica che, in forza di una fatwa perenne e di una separazione postulata ma fittizia, domina la costruzione del soggetto come mera appartenenza identitaria. Ma di tale riflessione non v’è traccia perché, si sa, la sfida della complessità è merce rara, mentre la semplificazione è in saldo in tutte le vetrine dell’impero. Ciò a cui si assiste, al contrario, è una saga del declino in forma di farsa, messa in scena da una grottesca schiera di saltimbanchi dell’apocalisse che, se non fosse drammaticamente reale, potrebbe a pieno diritto figurare come episodio pilota di una serie distopica di grande successo. Mentre a Gaza va in scena l’atto finale di uno sterminio annunciato e i tecnocrati del dominio giocano a dadi con il nostro futuro. Il vero è diventato un momento del falso, avrebbe detto Debord; e dato che il vero si presenta ormai come un deserto di senso, per trovarne traccia, come spesso accade, è utile volgere lo sguardo proprio al falso, alla finzione, ovvero al territorio dell’immaginario.
Nel vasto panorama della recente produzione fantastica – sia letteraria che cinematografica o seriale – vale la pena di citare almeno due esempi di indubbia originalità e acume. Il primo è il romanzo incompiuto di Valerio Evangelisti intitolato La fredda guerra dei mondi (Mondadori, 2023) che doveva essere composto da 45 capitoli di 5 pagine ciascuno e, nella volontà dell’autore, avrebbe dovuto rappresentare l’ampliamento dell’omonimo racconto uscito nel 2020 in un fascicolo Urania Millemondi chiamato Distopia, (Mondadori, 2020). Data la scomparsa prematura di Evangelisti, del libro, purtroppo, sono disponibili solo i primi 17 capitoli, con l’eccezione del capitolo 10 che il curatore Franco Forte non è mai riuscito a trovare nel lascito dello scrittore bolognese. Il secondo esempio è Scissione (Severance), la serie televisiva creata da Dan Erickson, la cui seconda stagione è da poco andata in onda su Apple Tv.
La fredda guerra dei mondi
Nella Fredda guerra dei mondi Evangelisti mette in scena un conflitto globale che vede come protagonisti da una parte la Terra (o meglio le potenze occidentali) e dall’altra una presunta razza aliena dalle sembianze vagamente umanoidi. Una potenza «straniera» venuta dallo spazio profondo, dotata di tecnologie sofisticatissime che sta distruggendo, uno a uno, tutti i monumenti delle principali città impegnate nei combattimenti, senza però fare alcuna vittima, né tra i civili né tra i militari. L’esistenza degli alieni è nota ai governanti di turno da molti anni – da quando cioè alcuni di loro sono stati catturati – ma è stata tenuta nascosta alla popolazione civile, fino a quando «gli extraterrestri» individuano i loro compagni rapiti e scatenano l’attacco contro la Terra per riportarli a casa. Il conflitto è gestito da un’entità sovranazionale, composta da capi di stato, militari e tecnocrati che, senza alcun mandato, si sono intestati il diritto di condurre la parte sana dell’umanità alla vittoria, costi quel che costi; ed è lecito presumere che il tempo della narrazione, ambientata tra Parigi e Tolosa, sia più o meno quello del nostro presente. Le vicende legate alla guerra, però, intersecano anche quelle di una scalcinata accolita di malviventi dalla raffazzonata quanto traballante vocazione anarchica. Il capo, soprannominato «il Reverendo», durante una rapina a casa di un generale, assiste per caso a una videoconferenza tra i potenti della Terra, dalla quale apprende dell’invasione aliena. Seguendo le gesta del Reverendo e della sua banda di sodali, si scoprirà che in realtà gli invasori alieni non sono altro che gli umani di un lontano futuro che, grazie a un entanglement spazio-temporale, sono tornati a salvare i loro fratelli tenuti prigionieri. Per questa ragione non uccidono i propri presunti nemici: perché la morte di ciascun nemico nel presente eliminerebbe migliaia di loro nel futuro. La chiamata alle armi e la rivelazione della minaccia aliena – con il consueto corredo di fanatismo nazionalista e vaneggiamenti su una imminente sostituzione etnico-culturale – vengono annunciate a reti unificate, senza però svelare la reale provenienza degli invasori. Perché, dice Evangelisti per voce del segretario di Stato americano, «L’uomo del popolo deve individuare confusamente chi è il nemico e starsene al riparo a sostenere chi combatte, oppure arruolarsi e obbedire agli ordini». Lo stato di guerra contro un nemico di cui non si rivela mai il vero volto (perché è il nostro), consente al potere di perpetrare se stesso e di stroncare sul nascere ogni forma di dissenso, così come di giustificare impunito – in nome di una ragione superiore – qualsiasi ripugnante metodo repressivo. Ma la chiamata alle armi nasconde anche un duplice e più agghiacciante obbiettivo: in moltissime città, a contingenti di 20 mila per volta, i riservisti che si sono offerti volontari per combattere gli alieni, vengono sterminati col gas, come bestie da macello. Perché, annuncia tronfio un autorevole burocrate dello sterminio, il sacrificio di 20 mila dei nostri nel presente, annienterà all’istante milioni dei loro nel futuro dal quale provengono.
Il romanzo in sostanza si conclude qui. Purtroppo Evangelisti ci ha lasciati prima di poter comporre il puzzle ma, tenendo fede al finale dell’omonimo racconto del 2020 e avendo una qualche dimestichezza con l’universo narrativo dello scrittore bolognese, è lecito avanzare qualche ipotesi. Fatte salve le sorti, rimaste indecise, del Reverendo e della sua banda possiamo infatti immaginare che un entanglement spiraliforme travolga nel suo vortice il presente della narrazione, per proiettarlo in un tempo X dalla struttura ignota, nel quale però un altro gruppo di ladri e puttane deciderà che resistere non è mai inutile.
Rispetto alle questioni relative allo statuto del nemico/straniero sollevate nella nostra breve quanto sommaria premessa, è utile ribadire come Evangelisti, soprattutto nel ciclo di Eymerich, si sia confrontato principalmente con la natura del potere, che egli incarna nella figura dell’inquisitore catalano: una natura spietata, pervasiva ma, allo stesso tempo, estremamente seducente (tutti i lettori tifano per il Magister) e, per questo, ancor più subdola e pericolosa. Lo stesso personaggio di Eymerich, tuttavia, diventa anche un topos narrativo di sperimentazione nel quale soprattutto da un punto di vista archetipico, agisce proprio la questione del nemico come alterità consustanziale al soggetto. Perché se è vero, da una parte, che il Magister rappresenta il villain per eccellenza (spietato, determinato, feroce, astuto, implacabile e quasi sempre malvagio), dall’altra il lettore è portato a schierarsi sempre dalla sua parte e, in tutto il ciclo, sembra mancare un vero e proprio antagonista in senso narratologicamente codificato. Perché, in realtà, i vari avversari che Eymerich inesorabilmente sconfigge nel corso delle sue imprese e investigazioni (eretici, catari, giudei, alchimisti, falsi profeti e soprattutto donne, alle quali egli imputa il peccato originale dell’empatia e della carnalità), in virtù di un rovesciamento tanto intrigante quanto sofisticato, rappresentano il lato vitale di sé, che egli detesta e dal quale è terrorizzato. Corpus vs dogma, il volto lunare di Ecate e del femminile vs fede e ragione. Ogni forma di partecipazione emotiva e di contatto col corpo vivo del mondo, che Eymerich avverte dentro di sé, viene vissuta come l’azione strisciante del demonio, repressa e esternalizzata in una schiera di nemici da abbattere ad ogni costo.
Nella Fredda guerra dei mondi, per quanto è dato rilevare vista l’incompiutezza del romanzo, questo medesimo meccanismo di rifiuto e outsourcing del rimosso viene declinata in modo più esplicito e secondo uno schema più squisitamente politico e interno alle dinamiche di conservazione del potere. Non importa, infatti, che gli umani si facciano la guerra tra di loro perché, purtroppo, è cosa fin troppo comune; non importa neanche che siano disposti ad annientarsi come specie, perché anche questa, purtroppo, è un’ipotesi sul tavolo. Importa però in maniera cogente che gli umani del futuro, universalmente trattati come nemici da eliminare, vengano costantemente definiti e considerati «alieni», anche e soprattutto da chi è a conoscenza della loro vera natura, che è la nostra. Importa l’incapacità di accettare un corpo – e un volto – che il tempo ha trasformato e verso il quale non si nutre alcune curiosità o empatia, ma disgusto e derisione. Importa la reductio a semplice entità malevola (l’alieno da abbattere) di una specie – la nostra – che ha percorso milioni di anni di storia a ritroso nel tempo e nello spazio per salvare i propri fratelli. Per tornare a Jabès, importa la manifesta e patologica volontà di disconoscere lo straniero che è in noi. Ma, soprattutto, in chiave sociopolitica, importa l’arroganza del potere che, per affermare e salvaguardare se stesso, è disposto a cancellare con un gesto milioni di possibili storie future. E rileva importa che la vera natura degli invasori, tenuta sapientemente nascosta alla popolazione, sembra venir dimenticata anche da chi siede nella stanza dei bottoni. Perché, appunto, il nemico deve rimanere un significante vuoto, uno stereotipo strumentale che definisce per via negationis tanto il soggetto quanto la sua appartenenza ad una comunità di eletti che blinda il proprio perimetro al grido di «Morte all’invasore, morte al mostro!».
Scissione
Scissione (Severance) – il secondo dei nostri esempi – è una serie del 2022 targata Apple Tv, di cui per ora sono disponibili due stagioni, anche se è già stata annunciata la messa in onda della terza. Ideata da Dan Erickson e prodotta da Ben Stiller (che dirige magistralmente anche metà degli episodi) rappresenta un piccolo capolavoro, sia per quanto riguarda la scrittura che le scelte estetico-formali. La vicenda, situata in un tempo imprecisato, ma ragionevolmente prossimo tanto al nostro passato recente, quanto al nostro futuro imminente, è ambientata in parte nella desolata cittadina di Kier – nello stato di New York – e in parte negli uffici della Lumen Industries, un’azienda tanto misteriosa quanto potente, che ha brevettato una procedura neurologica in grado di scindere la coscienza dei propri impiegati in due entità completamente distinte e irrelate. I dipendenti che sono stati sottoposti al processo di scissione – gli interni – sono completamente ignari di quanto accade loro al di fuori dell’ambiente lavorativo, mentre i loro corrispettivi mondani – gli esterni – non sanno nulla di ciò che avviene negli uffici dell’azienda con la quale hanno sottoscritto il contratto di assunzione. L’unica differenza di consapevolezza tra le due parti del sé scisso è che gli esterni hanno scelto di sottoporsi alla procedura, mentre gli interni l’hanno subita. Oltre a ciò, ed è un distinguo di non poco conto nell’economia dell’impianto narrativo, solo gli esterni possono risolvere il contratto, a significare che gli interni sono, loro malgrado, imprigionati in una realtà che non hanno scelto e dalla quale, al contrario degli alter ego che gli hanno in qualche modo generati, non possono evadere se non al prezzo del loro stesso autodissolvimento. Quanto alle ragioni che hanno portato ciascuno dei protagonisti a sottoporsi alla procedura e ad avere – si fa per dire – una seconda vita ignara della prima, sono sia di carattere personale (l’incapacità di sopportare il dolore di una perdita, un’omosessualità repressa vissuta come colpa, il senso di fallimento per la mancanza di un lavoro stabile) che dettate da deliri di marketing aziendale (l’erede al trono della famiglia Eagan – proprietaria della Lumen – che decide di sottoporre se stessa al processo di scissione per santificarne la fulgida efficacia).
L’ambiente lavorativo è asettico, labirintico, claustrofobico, volutamente estraniante, dominato da un bianco privo di spessore e di tempo; mentre la vita lavorativa degli interni – che è l’unica di cui dispongono – è sempre identica a se stessa, se non per il fatto che, di tanto in tanto, è costellata da surreali siparietti fatti di recite, cappellini e premi produzione della portata di un dolcetto in più da consumare durante la pausa pranzo. Per il resto il loro lavoro consiste nell’individuare e rimuovere numeri «pericolosi» da enormi set di dati, senza sapere realmente quale sia il loro significato. Una surreale distopia dell’assurdo che però scompare dalla memoria una volta oltrepassata la soglia dell’azienda. Così come scompaiono lo sfruttamento, le vessazioni e le torture psicologiche a cui vengono sottoposti gli interni ogni volta che cercano di evadere dalla routine alienante.
Un dispositivo espropriante quasi perfetto che però si inceppa quando un ex collega di Mark (il personaggio principale della serie) viene ucciso dopo aver contattato il suo esterno e avergli fatto capire che è possibile la reintegrazione parziale delle due parti scisse e che la Lumen non è esattamente quello che sembra. È questo l’evento scatenante che, in una atmosfera cupa e straniante, nella quale si fondono noir, thriller, spy story e qualche venatura horror, mette in moto il meccanismo che porterà gli interni a voler accedere con la coscienza intatta al mondo dei propri esterni, per carpire le ragioni di un esilio che è tutt’uno con la loro nascita tardiva.
Oltre il rimosso
Come si evince da questa breve ricostruzione la trama, di cui non sveleremo altro, è molto sofisticata e si presta a molteplici livelli di lettura. Se in forma piuttosto esplicita l’idea centrale della serie allude a Freud e al rapporto tra Io e Es (anche se ovviamente in forma rovesciata, visto che la parte rimossa non è quella sofferente ma quella apparentemente felice che trova nel lavoro una distrazione dalla nevrosi del quotidiano), il modo in cui evolve il racconto intercetta una serie di riflessioni e di tematiche ognuna delle quali meriterebbe di essere trattata a parte. Alienazione (nel senso marxiano del termine), disumanizzazione, dominio, controllo, potere, memoria, identità; e, anche se in forma non immediata, ma non per questo meno stimolante, la questione del nemico posta in relazione proprio con il concetto di identità scissa e alterità rimossa. Perché dal momento in cui ciascuno degli interni, grazie a un breve episodio di reintegrazione, entra in contatto con la parte a lui sconosciuta della propria vita, si innesca un movimento a spirale che porterà le due metà della coscienza disgregata a diventare una nemica dell’altra; un processo di progressiva e sistematica ostilizzazione del rimosso che, se declinata in chiave politico-sociale, rischia di congelarsi in una frattura insanabile – quasi un nuovo nomos della Terra in forma di muro – che pone come inaggirabile e costituente del nostro stesso patto fondativo la distinzione fittizia tra «noi» – i buoni – e «loro» – i nemici. Dicevano Chamosieau e Glissant che «Ogni volta che una cultura o una civiltà non è riuscita a pensare l’altro, a pensarsi con l’altro, a pensare l’altro in sé, queste rigide difese di ferro, di filo spinato, di reti elettrificate o di ideologie chiuse si sono innalzate, sono crollate e ora ritornano con nuovi stridori»2. Perché se è vero che l’identità pensata come «muro» è presente in tutte le culture, è in Occidente che ha mostrato (e continua a mostrare) tutta la sua forza di devastazione.
Per ora non è dato sapere se l’umanità presente e futura della Fredda guerra dei mondi troverà un modo di convivere pacificamente o se i personaggi di Scissione riusciranno a ricomporre la lacerazione che, per loro stessa mano, ha precipitato parte della loro identità in territorio ostile. Certo è che solo accettando l’altro che è in noi riusciremo ad abbattere il muro da noi stessi edificato e forse, come auspicava il compianto Alessandro Leogrande, a farci testimoni dell’unicità di ogni ferita, compresa la nostra.