di Paolo Lago
Stefano Galardini, È atroce la luce, 8tto Edizioni, Milano, 2024, pp. 261, euro 18,00.
Come ha scritto Pier Paolo Pasolini nel poemetto Il pianto della scavatrice, appartenente alla raccolta Le ceneri di Gramsci, “la luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci” perché “piange ciò che muta, anche per farsi migliore”. Il poeta descrive qui il mutamento sociale e paesaggistico che sta avvenendo alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, nella fattispecie a Roma, dove prati e campagne vengono cementificati per la costruzione dei nuovi edifici delle periferie. Un processo che inizia proprio nel Dopoguerra e che vede una ininterrotta prosecuzione negli anni del cosiddetto “boom economico” per poi raggiungere il culmine negli anni Ottanta, un nuovo momento di trasformazione del paese che segna la definitiva distruzione degli ultimi lembi di natura rimasti, in un periodo di nuova ricchezza in cui, insieme alle televisioni private e al rampantismo sociale, prende piede l’esaltazione della sfera privata e del successo a tutti i costi. Sono gli anni dell’individualismo e di Tangentopoli, nonché dell’ascesa dell’ideologia berlusconiana. Anni in cui il cieco obiettivo del cambiamento e della “riqualificazione” raggiunge gli ultimi scorci d’Italia che ancora si erano salvati: il risultato lo vediamo al giorno d’oggi in cui non esiste spazio naturale, città o piccolo paese dotato di una qualche attrattiva che sia rimasto ‘autentico’, inesorabilmente trasformatosi in una specie di museo, preda della galoppante gentrification.
Alla fine degli anni Ottanta è ambientata la storia ottimamente raccontata da Stefano Galardini nel suo romanzo È atroce la luce, recentemente uscito per i tipi di 8tto Edizioni, che reca fin nel titolo l’atrocità di quella luce che, come scrisse Pasolini, non cessa di ferirci. Siamo nel paesino di Morre, uno di quei luoghi ‘autentici’ destinanti a sparire, stretto tra le montagne e il mare della Liguria: l’antico paese e la natura che lo circonda stanno per essere devastati dalla costruzione della nuova autostrada. Un microcosmo votato alla lentezza e alla ripetizione senza fine dei medesimi gesti e rituali (un universo verghiano – si potrebbe azzardare – aggiornato agli anni Ottanta del Novecento) sta per essere fagocitato da un vero e proprio “inquinamento” che, secondo l’analisi offerta da Paul Virilio, elimina e azzera le distanze1. La costruzione dell’autostrada solletica gli interessi del sindaco e di molti paesani che intendono speculare sulla nuova, invasiva infrastruttura per ricavare maggiori guadagni. A questa vera e propria violazione del loro territorio si oppongono senza mezzi termini i contadini Giuà e Rea, marito e moglie, legati da un viscerale amore alla propria terra, simile, probabilmente, a quello che provano gli abitanti della Val Susa che resistono al progetto dell’Alta Velocità, portatrice di un altro, irrimediabile “inquinamento delle distanze”.
La scrittura di È atroce la luce, accanto alle vicende del nucleo principale della storia, offre diverse finestre narrative su un passato che si srotola dal 1938 al 1968, in cui sempre protagonista è il paese di Morre che sembra immobile e bloccato nello scorrere del tempo. Alla stregua di personaggi verghiani legati alla loro terra come ostriche allo scoglio, così i paesani di Morre sembrano indissolubilmente incastonati nella pietra sulla quale lo stesso paese è costruito, caparbiamente attaccati a un territorio che diverrà gradatamente vittima degli scempi paesaggistici e culturali. Mutamenti che un potere vuoto e cieco vuole imporre per ‘riqualificare’ il territorio e renderlo attrattivo per il turismo: ‘riqualificare’, in questo caso, significa distruggere, devastare, creare i prerequisiti per frane, smottamenti, alluvioni. A un universo mitico che appare inesorabilmente perduto appartiene la figura di Delio, il fratello di Giuà che – si pensa – se n’è andato via chissà dove (come ‘Ntoni dei Malavoglia), dopo essere diventato contrabbandiere. Una figura mitica, lontana e contemporaneamente vicina, che riempie con la sua assenza la vita dello stesso Giuà e che ci può far pensare al personaggio del “cugino” che Cesare Pavese ci racconta nella poesia I mari del Sud, che apre la raccolta Lavorare stanca: “un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno”2, che “se n’andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne / e lo dissero morto”3.
Galardini ci racconta abilmente lo scontro tra un universo arcaico, anche intriso di vecchi rancori e gelosie, e una contemporaneità legata a un potere che vuole livellare paesaggi e coscienze. Morre è isolato in una valle, quasi separato dal resto del mondo, pronto a essere fagocitato insieme ai suoi abitanti dal cinismo del tecno-capitalismo. I pochi abitanti che, ancora sul finire degli anni Ottanta, hanno scelto di rimanere, sanno che al di fuori del paese e dei suoi dintorni, dei campi amati, dei boschi, c’è una città dove quella luce atroce non smette mai di accecare, perfino di notte, a causa dell’illuminazione artificiale che ancora a Morre non è arrivata in modo pervasivo. La natura sta per essere violata, insieme a una violazione che abbraccia anche le coscienze e il pensare collettivo: un mondo si sgretola, normalizzato, ‘riqualificato’, consegnato al controllo e alla mappatura, come accade al paesino laziale raccontato dal film La chimera (2023) di Alice Rohrwacher, attorniato da discariche e siti industriali. Ma i personaggi di Giuà e Rea, tenaci contadini appartenenti a un universo arcaico e crudele, dalla vita non certo facile, non sembrano arrendersi tanto facilmente. Non sembrano capaci di cedere ai compromessi causati dai “soliti, schifosissimi soldi” (è così che li definisce Paride, vecchio amico di Giuà e maresciallo dei carabinieri del paese). Spetta al lettore, adesso, introdursi nel microcosmo di Morre e scoprire un universo oggi definitivamente scomparso, dove ogni fantasma che riemerge dal passato non smette mai di sorprendere.