di Cesare Battisti

Per alcuni giorni si è rintanato in cella. Uscire per l’ora d’aria voleva dire mischiarsi al carcere, sfiorare i muri e la sporcizia che li tiene in piedi, sentire il bisogno e la vergogna di accodarsi ai macchinali andirivieni. Cominciare a morire a ogni parola pronunciata solo per ispessire il tempo. Non ce la faceva e si rannicchiava, come la preda quando chiude gli occhi per negare l’attacco. E una forma di suicidio passivo, il primo tentativo al quale si abbandona ogni nuovo giunto.

È il momento in cui il carcere ci accomuna tutti, forti e deboli, grandi e piccoli, innocenti o colpevoli. Nell’impotenza più assoluta c’è qualcosa che si rompe, la diga cede e, come il martire che si offre a Dio,,/ il. ‘rovo giunto aspetta solo di essere inondato. Ma la morte liberatrice non arriva, hWrigqii.rglé, staccando il corpo dalla coperta immonda, cerca il punto dove appendere la corda, se proprio non ce la dovesse più fare. C’è chi non vuole dare un minuto in più alla prigione e allora si alza a occhi chiusi, strappa il lenzuolo, comincia a intrecciare. È noto come la maggior parte dei suicidi in carcere succedano nei primissimi giorni di prigionia.

La corda è la speranza alla quale il detenuto appende i giorni e le ore di agonia, è anche la via d’uscita che si tiene in serbo e grazie alla quale trova il coraggio di uscire allo scoperto. Di ingurgitare la pasta scotta al sugo e specchiarsi sulla faccia attonita dei compagni, assuefarsi alle espressioni burbere di guardie avvizzite dal lavoro, andare all’aria senza aspettarsi niente e dirsi che sarà solo per poco, tanto la corda non gliela può togliere nessuno. Ed è così che essa diventa tanto lunga che i piedi toccano per terra, le gambe si muovono da sole, i passi si fanno fermi e sempre più veloci. I carcerati diventano persone e le chiacchiere non sono più rumore, pare vogliano dirgli qualcosa e così il nuovo giunto si mette ad ascoltare. Poi la smette anche di guardare a terra e gli capita di incrociare anche un sorriso, un’espressione seria, un gesto che dice altre cose: è il carcere che gli entra nelle vene. Ma imparare a convivere con la caterva di codici di comportamento in carcere, non è cosa facile, sarà 1’ esame più difficile della sua carriera.

Alcuni non lo passano per difetto, altri ci rinunciano in partenza; gli uni e gli altri non avranno pace. Ma il nuovo giunto è prudente, prende il carcere a piccole dosi, vuole resistere all’omologazione, evita di farsi notare. La reclusione in sé non è forse il peggior dei mali. Star chiuso troppo a lungo può portare a crisi di follia, ma anche questo sarebbe uno sfogo umano, una sana reazione preferibile all’inevitabile appiattimento cerebrale. In uno spazio ridotto e affollato, c’è da strisciare i muri per non provocare la suscettibilità di guardie e ladri esasperati. Così il nuovo giunto impara a rendersi invisibile, a cogliere da volti spenti e tutti uguali il segnale differente che può essergli vitale. Imbrigliare la mente, ridurre i battiti del cuore sono accorgimenti necessari.

Ormai lui è un detenuto, sa di essere una macchina in stand-by. L’attesa sarà lunga, le energie vanno conservate: diventare il fantasma di sé stesso per non consegnare una molecola di vita alla prigione. Potrebbe essere una soluzione, ci vuole credere, ma non è così che funziona. Non si attraversa il fuoco senza bruciature, così come non si respira impunemente l’aria di prigione. Con astuzia e un pizzico di fortuna, si può al massimo limitare il danno, ritardare almeno l’ora in cui la mente si rifiuterà tout court di reagire. Ma alla fine, quando sarà giunto il momento tanto atteso e gli si aprirà la porta ambita, all’esperto detenuto non è rimasta più nemmeno la facoltà di capire che tutto ciò che il nuovo giunto era lo ha poco a poco usato per imbrattare un muro prigione.

Tagged with →