di Mauro Baldrati
[Si pubblica di seguito un estratto di Bologna cowboy pubblicato poche settimane fa per i tipi di DeriveApprodi. Mauro Baldrati, l’autore, ambienta nella Bologna del 2047 un giallo che contiene un noir. L’agente speciale Nicodemo riceve l’incarico di identificare dei resti umani rinvenuti in una fossa anonima. Da un dattiloscritto emergono le vicende di un giovane fotografo che realizza un servizio durante la manifestazione seguita all’omicidio di Francesco Lorusso nel 1977. LC]
La notizia arrivò come un corpo contundente, un’ondata di gelo che li paralizzò tutti.
Jimi era al lavoro in camera oscura, con la radio accesa, alle 14 di venerdì 11 marzo. A Bologna, durante un’assemblea di Comunione e Liberazione, un gruppo di studenti del movimento aveva tentato di entrare ma era stato respinto brutalmente dai ciellini. Erano seguiti tafferugli, e un intervento della Celere che aveva caricato i contestatori, benché fossero già stati aggrediti e malmenati dal servizio d’ordine di CL. Gli scontri proseguirono per le vie del centro finché all’incrocio di Via Mascarella due molotov colpirono un automezzo dei carabinieri. Ci furono degli spari. Un attivista di Lotta Continua, Francesco Lorusso, di 25 anni, era stato colpito. Morì alle 13, riverso sull’asfalto.
Si precipitò fuori dalla camera oscura, salì al primo piano, afferrò il telefono e cercò i ragazzi. Si stavano preparando a partire per Bologna. Telefonò anche a Milonga, ma inutilmente. Era uscita, probabilmente già sul posto.
Prese la macchina fotografica, raggiunse l’R4 e partì verso Lugo. In un negozio di fruttivendolo comprò tre limoni e si sincerò di avere in tasca almeno un fazzoletto di cotone.
Non si fermò a mangiare dai ferrovieri. Prese la San Vitale e guidò in apnea fino a Bologna.
Parcheggiò dietro la Stazione Centrale e imboccò Via Indipendenza.
Fu colpito dall’atmosfera spettrale. I portici, di solito gremiti a tutte le ore, erano quasi deserti. Molte vetrine erano abbassate, drappelli di studenti camminavano veloci, tesi e silenziosi, verso Via Ugo Bassi. In una delle strade laterali altri ragazzi erano al lavoro per costruire una barricata. Ammassavano cassonetti della spazzatura, sedie da bar, tavolini, tutto ciò che costituiva un volume.
Arrivò in Via Ugo Bassi, dove l’atmosfera era simile. Un presidio dei carabinieri sostava all’incrocio, con un gigantesco gippone corazzato. Poco più in là un furgone della Celere con quattro poliziotti in strada, altri a bordo.
Si guardò intorno, annusò l’aria. Gli opliti erano vicini, lo sentiva. Erano pronti. Carichi. Le vedette degli studenti correvano in varie direzioni, sparivano giù per via dell’Archiginnasio, Via Fossalta, Via Oberdan. Poi tornavano e puntavano verso Via Zamboni. Probabilmente avevano individuato alcuni assembramenti di poliziotti e correvano a informare il servizio d’ordine.
In Via Zamboni la ressa aumentava ad ogni passo. I vari gruppi si dirigevano verso Piazza Verdi dove c’era uno dei punti di raccolta. La piazza era piena, alle 16. Tutti erano immobili, silenziosi. Le facce erano scure. Alcuni indiani avevano disegnato un teschio sulle facce dipinte di bianco; e poi tante bandiere, e il grande drago dell’Autonomia. Un ragazzo col megafono gridava che era stata un’esecuzione. Partì uno slogan, urlato da migliaia di gole frementi, un suono cupo, minaccioso, disperato: “Francesco è vivo e lotta insieme a noi!” Radio Alice, dalle decine di radioline accese, aggiornava sulle posizioni di carabinieri e polizia. Dalle squadre degli autonomi si alzavano le mani col simbolo della P.38. Dai gruppi di ragazze si univano gli indici e i pollici. Radio Alice informò che un gruppo si stava dirigendo verso la Stazione Centrale, per bloccare i treni.
Jimi cercava Milonga, frugava con gli occhi i gruppi femminili. Continuava a non vederla. Ma era presente, ne era certo. Intanto scattava foto, col grandangolo, a distanza ravvicinata, e col teleobiettivo, per i primi piani e i particolari.
In piazza Verdi trovò i ragazzi di Mezzaluna. Si unì a Guido Pasi, Kocis, il Mostro, Pitagora, Dennis, Rambò, Torquato, Elio. Con loro c’era il giornalista del manifesto Mauro Paissan, che seguiva gli eventi per il giornale. Disse che si aspettava scontri molto duri. I poliziotti e i carabinieri erano numerosi e l’omicidio di Lorusso dimostrava che non si sarebbero fermati. Tutti volevano la guerra.
Si spostò, fendendo la folla compatta come un corpo solido, alla ricerca di Milonga. La vide. Era nei pressi del Piccolo Bar, col suo gruppo di coinquiline e altre ragazze. Cercò di attirare la sua attenzione, gridò “Milo!” e finalmente lei lo vide. Lo salutò con un braccio ma fece “no” con la testa al suo invito a raggiungerlo. Era ovvio. Nessuna femminista avrebbe abbandonato un picchetto per unirsi a un fidanzato, o un amante.
Così era. Così doveva essere. La salutò a sua volta, e tornò nel suo gruppo.
Quando le ombre del pomeriggio iniziavano ad allungarsi il corteo, lentamente, come un pachiderma che si alza e si mette in cammino facendo tremare la terra, partì.
Avanzarono per Via Zamboni preceduti da tre servizi d’ordine: quello dell’autonomia, un gruppo di Lotta Continua e una nutrita delegazione milanese, i temibili Katanga, reduci del Movimento Studentesco del ‘68. Non figuravano molti striscioni e cartelli, non c’era stato il tempo di prepararli. Appena sentita la notizia tutti si erano precipitati in strada, furiosi, angosciati.
Verso la fine di Via Zamboni, quando a circa 200 metri si vedeva lo sbarramento degli opliti dei carabinieri con gli elmetti lucidi e gli scudi di plexiglass, un gruppo rovesciò un’auto e la piazzò di traverso in mezzo alla carreggiata, lasciando solo due stretti passaggi ai lati. In caso di ritirata sarebbe stata una barriera che avrebbe rallentato i carabinieri.
Dall’alto del suo metro e ottantacinque, saltando, Jimi cercò di capire le dimensioni del corteo. Si snodava a perdita d’occhio fino alla piazza, un serpentone compatto che invadeva anche il portico. Non meno di ventimila persone. Poi, col tesserino “Stampa” che gli aveva rilasciato un settimanale di Ravenna, riuscì a posizionarsi dietro le linee della polizia per scattare altre foto.
I Katanga avanzavano lentamente, brandendo i manici delle bandiere, mentre gli autonomi avevano le chiavi inglesi Usag.
Il contatto con la falange avvenne di colpo, con la carica dei carabinieri, preceduta da un suono di fischietto. Partirono come un corpo unico dopo un nutrito lancio di candelotti lacrimogeni, una linea orizzontale che avanzava senza piegarsi né sfilacciarsi.
Il problema, per loro, era che i servizi d’ordine erano preparati. E avevano pronta una controffensiva. Nel ’68 i Katanga avevano studiato la tecnica del generale cartaginese Annibale, che durante la seconda guerra punica aveva distrutto le legioni romane. Si basava sulla creazione di un cuneo rovesciato che attirava lo schieramento nemico verso l’interno, mentre ai lati le truppe di Cartagine si richiudevano, annientandoli.
La cosa funzionò, non completamente perché la strada era stretta, e non permetteva grandi manovre. Inoltre il fumo dei candelotti era denso, irrespirabile.
Jimi si legò il fazzoletto imbevuto di succo di limone sulla faccia, coprendo bocca e naso, e si strofinò altro succo sotto agli occhi e sulle palpebre. Faceva effetto, ma non abbastanza. Gli occhi erano trafitti da decine di spilli, la gola bruciava come il fuoco e a tratti gli sembrava di non avere più ossigeno. Qualcosa lo colpì in fronte, forse il manico di una bandiera, vide le stelle lampeggiare ma non si fermò.
[Le foto pubblicate appartengono a una documentazione sulle subculture giovanili realizzata da Mauro Baldrati tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, inserita nel libro]