di Chiara de Stefano

Dopo il successo dello scorso anno di Longlegs, Oz Perkins torna con The Monkey: una commedia horror eccentrica, esagerata e grottesca uscita nelle sale italiane lo scorso venti marzo. Si tratta di un adattamento cinematografico di un racconto di Stephen King contenuto nella raccolta Scheletri (Sperling & Kupfer, 1989) che narra la storia di due gemelli Hal e Bill (Theo James, The White Lotus) e di una vecchia scimmia giocattolo lasciata in eredità dal loro defunto padre. A prima vista, la scimmia meccanica con il suo tamburello sembra innocua, ma presto la loro curiosità si trasforma in orrore: ogni volta che azionano il giocattolo, qualcuno intorno a loro muore. In preda al panico, cercano di sbarazzarsene, ma anni dopo riappare pronta a rovinare le loro vite e a falciarne altrettante, perché la scimmia – diabolico memento mori – non si distrugge mai​. È l’eco di un passato che non muore, un doppio oscuro del padre scomparso che torna a reclamare la propria colpa sui figli. La maledizione di una tragedia antica, una Nemesi edipica che passa di generazione in generazione, riflettendosi nelle cicatrici di una famiglia spezzata: tópos ricorrente in molte altre opere kinghiane. Essa è l’oggetto che si rivela vivo in uno spazio ritualedirebbe Carlo Severi nel suo saggio L’oggetto-persona (Einaudi, 2018) – perché non è solo un feticcio animato, ma un simulacro con una volontà autonoma. Difatti, non solo uccide, ma sceglie anche chi uccidere. Il suo criterio, divino e arbitrario, fa di essa la caricatura grottesca di Dio. Un essere che non punisce secondo giustizia, ma secondo un capriccio insondabile, un sollazzo fatale. La scimmia è dunque un’entità cosmica, un motore dell’entropia​, un giocattolo maledetto che non insegue, non minaccia, ma semplicemente sceglie. E quando sceglie, la morte è già in atto. A differenza di altri oggetti maledetti del cinema (come il video di The Ring o la bambola assassina in Annabelle), la scimmia non agisce con una logica umana: è un oracolo distorto, un’entità con un’intelligenza arcana, un demiurgo della morte.

Se c’è una costante nel cinema di Perkins, appartenente al cosiddetto elevated horror, è che l’orrore si muove in sottrazione: si insinua, sibila e poi colpisce, paziente, con violenza beffarda e inquietante. Ma The Monkey è anche un’anomalia nella sua filmografia, con la sua pellicola polverosa al neon. Il precedente Longlegs (2024), il cui color grading freddo per gli esterni e caldo per gli interni, costruiva infatti un’atmosfera di terrore ipnotico e rarefatto, qui invece il male si veste di grottesco, di ironico. C’è una consapevolezza quasi camp, in cui il decesso è coreografia, una danza macabra orchestrata con eleganza dal fato stesso​. E proprio per questo The Monkey richiama il modello di Final Destination (James Wong, 2000) e per simbolo intertestuale I delitti della Rue Morgue di Edgar Allan Poe. L’orrore non è la scimmia che uccide con smisurata violenza, ma il fatto che non possiamo sfuggire alla sua imperscrutabile decisione​. Perkins gioca con le aspettative, facendo oscillare il film tra il puro splatter quasi comico e il sottile terrore psicologico. Le morti sono coreografate come in Evil Dead 2 (Sam Raimi, 1987) assurde fino al ridicolo. Ma dietro la risata c’è una verità inevitabile: la scimmia ci osserva, prima o poi suonerà il suo tamburo di morte​ anche per noi. A meno che non stiamo già girando la sua manovella.