di Sandro Moiso

“Il nazismo è una forma di colonizzazione dell’uomo bianco sull’uomo bianco, uno choc di ritorno per gli europei colonizzatori: una civiltà che giustifica la colonizzazione […] chiama il suo Hitler, voglio dire il suo castigo. (Hitler) ha applicato all’Europa dei processi colonialisti afferenti, fino a quel momento, solo agli arabi d’Algeria, ai servi dell’India e ai negri d’Africa” (Aimé Césaire)

“L’antifascismo è il peggior prodotto del fascismo” (Amadeo Bordiga)

La vera novità del nuovo giro di valzer di “The Donald 2.0” e dai suoi cavalieri dell’Apocalisse hi-tech è rappresentata dall’aggressività di carattere economico, ma anche politico, nei confronti degli “alleati” europei e non solo. Da lì deriva lo smarrimento manifestato da editorialisti, opinionisti, rappresentati politici e pennivendoli di vario livello di fronte ad un’America che rischierebbe di perdere le sue prerogative di custode dell’ordine liberal-democratico occidentale e, quindi, planetario.

Ecco allora alzarsi, dal World Economic Forum di Davos o dall’aula parlamentare di Bruxelles per voce di Ursula von der Leyen così come dalle pagine di «Repubblica», del «Corriere della sera » o dalla penna di uno stagionato rappresentante dei nouveaux philosophes come Bernard-Henri Lévy, un autentico peana per l’età dell’oro perduta e di rimpianto per quando l’America, gli States, la Land of Freedom svolgevano davvero il lavoro affidatogli dal Manifest Destiny1 ovvero proteggere e sviluppare gli interessi occidentali, quindi anche europei, in tutto il mondo.

Purtroppo, però, per gli autori di questi plaidoyer per i principi e i diritti perduti, l’attuale politica americana porta alla luce ciò che ha sempre sotteso la democrazia bianca e liberale trionfante nel corso del secolo americano. Una politica di feroci disuguaglianze all’interno e all’estero, di repressione indiscriminata nei confronti di qualsiasi opposizione o resistenza, una politica imperiale sapientemente divisa tra il big stick delle armi, delle flotte e dei bombardamenti indiscriminati e la carota degli aiuti “umanitari” e dei dollari distribuiti a pioggia tra gli alleati più fedeli a garanzia dell’ordine imperiale mondiale.

Tanto da spingere la giornalista italo-marocchina Karima Moual a chiedere provocatoriamente ai politici italiani ed europei: «Come ci si sente se Trump tratta l’Europa da debole? Come ci si sente se i diritti e la giustizia sono sottomessi al business? Tutto questo lo conoscono bene e da tante tempo i popoli arabi e quelli dell’Africa»2.

Certo, c’è da dire, le posizioni espresse dall’attuale amministrazione americana, dal possibile ritiro dall’impegno militare in Europa e nella Nato fino ai dazi sui prodotti europei e canadesi (oltre che cinesi) e al disconoscimento di organizzazioni internazionali ormai fallimentari come l’ONU o il tribunale penale internazionale dell’Aja o l’estromissione dei maggiori paesi europei da qualsiasi trattativa diplomatica riguardante le sorti dell’Ucraina, non sono, come molta stampa liberaldemocratica vorrebbe far credere, frutto di decisioni improvvise e inaspettate. Piuttosto, invece, sono il frutto obbligato di una crisi dell’Occidente che ha finito, inevitabilmente, col riflettersi nel voto americano, prima, e nel sistema delle alleanze interne allo stesso ordine occidentale, dopo.

In fin dei conti la brutalità e la “mancanza di tatto” del presidente statunitense, la nuova ricerca di una nuova condivisione del governo del mondo, successivo al tanto agognato nuovo ordine mondiale ventilato fin dalla caduta del muro, e il rifiuto di coinvolgere ancora l’Europa e i suoi rappresentanti nelle politiche globali, ha almeno un pregio: quello di togliere il velo che nascondeva la finzione insita nelle roboanti dichiarazioni atlantiste e liberali sul ruolo dell’Occidente e di un’Europa sempre più evanescente sulla scena politica mondiale, dell’ONU e degli altri organismi internazionali nel governo democratico del mondo e sulla diffusione di valori e diritti liberali dati per scontati, ma scarsamente condivisi in diverse aree del globo.

Per ll destino del nostro continente il segnale era stato dato immediatamente dal fatto che Trump avesse nominato come nuovo ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Europea Andrew Puzder, ex-dirigente di alcune delle più note catene di fast food in America, come dire che il buongiorno si vede fin dalla colazione. Il tutto poi aggravato dalle dichiarazioni rilasciate, al canale televisivo Fox News, dal mediatore per la guerra in Ucraina Steve Witkoff, che ha definito i leader europei come dei sempliciotti, “tutti convinti di essere dei nuovi Churchill”3. O, ancor peggio, i giudizi espressi in una comunicazione che avrebbe dovuto rimanere riservata tra J.D. Vance e Pete Hegseth, capo del Pentagono, a proposito di un possibile intervento militare contro gli Houthi dello Yemen, portato a termine nei giorni successivi4.

Anche per questi motivi gli europei e gli europeisti si son trovati di fronte al dilemma di come sopperire al venir meno della protezione prima offerta dal fratello maggiore, optando naturalmente per un piano di riarmo che dovrebbe contribuire sia a proteggere l’Europa dalla novella barbarie asiatica di Putin che a rilanciare la stagnante economia europea. Basata principalmente su un antiquato modello guidato dal settore dell’automotive come si è già sottolineato in un precedente articolo (qui).

Forse mai come in questo periodo lo stretto legame tra crisi dell’imperialismo (economica e politica), corsa agli armamenti e guerra è stato dichiarato, da Draghi a Ursula “bomber” Layen, così apertamente e chiaramente. Passando, altrettanto, dall’inossidabile rampollo della famiglia Agnelli, John Elkann, che nei giorni scorsi ha chiarito, con uno straordinario giro di parole e di non detti, che la riconversione bellica non sarà la soluzione dei problemi dell’industria automobilistica, ma che quest’ultima, nella sua incarnazione in Stellantis, si adeguerà ai flussi di investimenti destinati a risollevarne le sorti. Ovvero che il piano ReArm Europe sarà alla fine il solo disponibile, sia nella sua forma “europea” che in quella degli interessi nazionali.

Sì perché, intanto, ancora una volta si è palesato il fatto che il vero ostacolo alla tanto strombazzata necessità di costruzione di una difesa europea non è rappresentato per ora dall’opposizione politica, o autodefinentesi tale senza alcun merito, né dalla protervia del nuovo babau americano o dall’aggressività russa, ma semplicemente dal fatto che gli interessi del capitale europeo restano comunque nazionali ed ognuno cercherà di tirare l’acqua al proprio mulino in termini di investimenti, raccolta di flussi finanziari e produzione di armi e mezzi corazzati, aerei, droni, sistemi elettronici e navi. Così come rivelano anche le divisioni, manifestatesi nel più recente vertice europeo del 20 marzo, a proposito di debito comune, eurobond, invio delle truppe in Ucraina e politiche nei confronti dei dazi, della Nato e degli Stai Uniti.

Una scelta, quella del riarmo, che comunque, nell’intento generale espresso da von der Leyen e Kaja Kallas, ha escluso i produttori di armi degli Stati Uniti dal nuovo massiccio piano di spesa per la difesa dell’Unione Europea, in cui precedentemente gli stessi avevano ormai raggiunto una quota del 64% della stessa, e dal quale anche il Regno Unito è stato, per ora, escluso.

“Dobbiamo comprare di più europeo. Perché ciò significa rafforzare la base tecnologica e industriale della difesa europea”, ha dichiarato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Peccato, però, che nel tentativo di rafforzare i legami con gli alleati, Bruxelles abbia coinvolto paesi come la Corea del Sud e il Giappone e l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel suo programma che potrebbe arrivare a una spesa di 800 miliardi di euro per la difesa.

Fino ad ora, circa due terzi degli ordini di approvvigionamento dell’UE sono andati a industrie belliche statunitensi, ma il cambiamento radicale dell’ordine internazionale indotto dalle scelte di Trump e dal suo nuovo rapporto “privilegiato” con la Russia di Putin ha fatto dire a Kaja Kallas, il massimo rappresentante diplomatico dell’UE, che «Non lo stiamo facendo per andare in guerra, ma per prepararci al peggio e difendere la pace in Europa»

La proposta più concreta è l’impegno della Commissione a prestare fino a 150 miliardi di euro ai paesi membri da spendere per la difesa nell’ambito del cosiddetto strumento SAFE.
Mentre i prestiti saranno disponibili solo per i paesi dell’UE, anche gli stati amici al di fuori del blocco potrebbero prendere parte all’acquisto congiunto di armi.
L’aggiudicazione congiunta nell’ambito della proposta SAFE è aperta all’Ucraina; Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein dell’EFTA; nonché “i paesi in via di adesione, i paesi candidati e potenziali candidati, nonché i paesi terzi con i quali l’Unione [europea] ha concluso un partenariato per la sicurezza e la difesa”.
Alla fine di gennaio, l’UE aveva sei partenariati di difesa e sicurezza con Norvegia, Moldavia, Corea del Sud, Giappone, Albania e Macedonia del Nord. Anche la Turchia e la Serbia, in qualità di paesi candidati all’adesione all’UE, potrebbero potenzialmente aderire.
Ciò lascia fuori gli Stati Uniti e il Regno Unito, anche se lo status della Gran Bretagna potrebbe cambiare […] Il Canada ha anche chiarito di volere relazioni di sicurezza più strette con l’UE. Mercoledì la Commissione ha anche proposto una maggiore cooperazione in materia di difesa con Australia, Nuova Zelanda e India. «Ci sono molte richieste in tutto il mondo di cooperare con noi», ha detto un alto funzionario dell’UE5.

Un invito ad un banchetto finanziario che nasconde come a tale punto di crisi e necessità di riconversione bellica si sia giunti dopo tre anni di conflitto in Ucraina che hanno visto i paladini della democrazia, del liberalismo e dell’antiautoritarismo europeo sposare la causa della guerra e, soprattutto, delle sanzioni alla Russia di Putin senza mai chiedersi quanto tutto questo potesse gravare, così come è stato, sull’economia e le società del continente. Il dato di fatto è talmente visibile da non meritare certo altre contorte considerazioni, se non la sottolineatura del fatto che quegli stessi stati democratici hanno saputo, e tutt’ora sanno, soltanto dichiarare che per ottenere la pace non serve la diplomazia, ma soltanto preparare la guerra.

In un’autentica orgia di dichiarazioni belliciste una gran parte degli imprenditori europei, e non solo, ha fiutato l’odore dei soldi e del sangue, mentre, senza alcuna vergogna, i governanti si son precipitati a dichiarare l’inevitabilità della guerra, compresa quella nucleare. “La Polonia deve perseguire le capacità più avanzate, comprese le armi nucleari e le moderne armi non convenzionali. Questa è una gara seria – una gara per la sicurezza, non per la guerra” ha dichiarato il primo ministro polacco Donald Tusk al parlamento di Varsavia all’inizio di questo mese6.

Anche se il dibattito sull’ombrello nucleare europeo ha contribuito a mettere in risalto la differenza di interessi tra Macron, Starmer e dell’avatar di Olaf Scholz che già governa la Germania pur non avendo ancora messo in piedi un vero governo, Friedrich Merz. Oltre che le stesse difficoltà insite nel programma di allargamento del programma nucleare militare ad altri paesi europei, mentre «l’obiettivo di Parigi potrebbe essere quello di scaricare le spese per l’ombrello nucleare sui Partner comunitari, liberando risorse per le spese nazionali […] Parlare poi di buy European in assenza di una politica sulle materie prime fa semplicemente sorridere. Secondo le stime di JP Morgan, il consumo europeo di acciaio derivante dal solo piano di riarmo tedesco registrerà un balzo annuo dell’8-12%, oltre le 10mila tonnellate; ma forse non tutti sanno che oggi in Europa esiste un solo produttore certificato di acciai balistici, il che pone un problema serio di dipendenza. La guerra del rame in corso tra Washington e Pechino potrebbe inoltre creare forti carenze nel mercato dell’ottone, ostacolando i piani di produzione (e di ripristino delle scorte) di munizionamento»7.

Secondo Fabian Rene Hoffmann, ricercatore presso l’Oslo Nuclear Project, anche se una delle potenze europee della Nato fosse intenzionata a sviluppare armi nucleari proprie, anziché semplicemente ospitarle, si troverebbe a partire da zero.
“Il problema principale che i Paesi europei si trovano ad affrontare è che non dispongono di infrastrutture nucleari civili per avviare un programma di armi nucleari o, se dispongono di infrastrutture nucleari civili, che sono altamente ‘resistenti alla proliferazione'”, ha dichiarato a Euronews.
“Per esempio, Finlandia e Svezia hanno solo reattori ad acqua leggera, che non sono adatti alla produzione di plutonio per armi. Inoltre, nessuno di questi Paesi ha impianti di ritrattamento chimico, necessari per separare gli isotopi ricercati da quelli indesiderati nella produzione di materiale fissile”, ha poi spiegato l’esperto.
“Quindi, anche se volessero lanciare un programma nucleare, non potrebbero farlo con le infrastrutture esistenti, almeno nel breve periodo. Questo è il caso di tutti gli Stati europei non dotati di armi nucleari con un programma nucleare civile in questo momento”. Hoffman ha riconosciuto una discutibile eccezione: la Germania.
“Sebbene non disponga più di un’infrastruttura nucleare civile significativa, ha una grande scorta di uranio altamente arricchito per scopi di ricerca”, ha spiegato. “In teoria, queste scorte potrebbero essere riutilizzate per creare materiale fissile per le armi”.
“Ma anche in questo caso sarebbe sufficiente solo per circa 5-15 testate nucleari, quindi non sarebbe sufficiente per dispiegare quello che chiamiamo un deterrente nucleare “robusto””, ha poi detto Hoffman8.

In un contesto in cui anche il concetto di “volenterosi” inventato dal premier inglese si fa di giorno in giorno più ambiguo. Considerata anche la diffusione da parte della testata tedesca «Welt am Sonntag» di una fake news sull’offerta cinese di invio di truppe in Ucraina per garantire la pace, smentita dal portavoce del ministero degli Esteri cinese, Guo Jiakun9.

Naturalmente mentre l’italietta meloniana, ancor più inconsistente della falange comune europea, si adegua al motto secolare: «Franza, America o Alemagna pur che se magna». Travestendo il tutto da raffinata tattica politica e diplomatica, con l’Italia ponte tra Europa, America e Nato, oppure cercando di nascondere l’autentico gioco delle tre carte portato avanti dal ministro dell’economia Giorgetti rispetto al debito italiano e possibilità di investimenti privati nel settore della difesa. Sì, se non ci fosse di mezzo il pericolo, ormai quasi certo, del deflagrare di un nuovo macello imperialista mondiale, ci sarebbe soltanto da ridere.

La risvegliata, ma tutt’ora esanime armata Brancaleobe europea deve, però, fare i conti con un altro problema, rappresentato proprio dalle società che si intendono governare e trascinare nei conflitti a venire e si parla qui di conflitti e non di conflitto poiché, come già sottolineava Trockji nei suoi scritti sulla guerra oppure in altri scritti comparsi anche qui su Carmilla, una volta che la guerra è nell’aria l’unica cosa sicura è che ci sarà, ma su quali saranno alla fine i veri contendenti o i fattori scatenanti sarà solo il disordinato e caotico divenire degli eventi a dirlo.

Infatti, per tornare a quanto si diceva della società europee, è proprio la ritrosia che si manifesta in gran parte dei cittadini delle stesse ad impugnare le armi per cause non meglio definite, ma sicuramente contrarie agli interessi vitali ed economici degli stessi, a sabotare quello che i maggiorenti delle istituzioni europee vorrebbero vendere come unico percorso possibile per uscire dalla crisi dell’Occidente e dei suoi “valori”, oltre che da quella economica e di rappresentanza politica e diplomatica.

Un recente sondaggio dell’istituto Gallup ha infatti rivelato che, a partire dalla Polonia, dove la percentuale di coloro favorevoli alla difesa in divisa della propria nazione, nonostante i propositi sempre bellicosi di Tusk, è del 45 per cento, la medesima percentuale scende rapidamente negli stati i cui governanti con tanta facilità sembrano volersi impegnare in un conflitto. In Germania con il 23 per cento, mentre in Belgio si dice disponibile solo il 19 per cento. Nei Paesi Bassi ancora meno, il 15 per cento. Risale in Francia e Spagna con un 29 per cento e in Austria il 20 per cento e ancora in Gran Bretagna con il 33 per cento. Ultima viene l’Italia con il 14 per cento. Considerati anche gli stati “più combattivi” (Finlandia 74%, Grecia 54 % e Ucraina 62%) si giunge ad una media europea del 34% ben distante da una entusiastica risposta ad una mobilitazione generale10.

Occorre poi ancora sottolineare come il dato ucraino sia poco affidabile, considerata la diffusa resistenza alla leva manifestatasi negli ultimi anni e nell’ultimo periodo che ha visto almeno un milione di uomini di età arruolabile lasciare clandestinamente il paese, mentre numerosi soldati, circa 1.700, dei 5.800 inviati in Francia per essere addestrati hanno preferito disertare una volta giunti lì. Esattamente come hanno fatto, fino ad ora, almeno 100.000 soldati ucraini incriminati per diserzione11. Cui bisogna ancora aggiungere il provvedimento di Zelensky per impedire a giornalisti e artisti di abbandonare l’Ucraina con permessi speciali di cui facevano buon uso non ritornando in patria e la sempre più forte resistenza all’arruolamento forzato dei giovani che ha visto assalti agli uffici di arruolamento e, in alcuni casi, l’omicidio degli ufficiali incaricati dell’arruolamento da parte di parenti dei giovani cercati per essere inviati al fronte12.

In Germania, dove il progetto di riarmo sembra voler riportare la nazione mitteleuropea ai suoi nefasti splendori militareschi del Primo e Secondo macello imperialista, la resistenza della cosiddetta “Gen Z”, i nati dopo il 1997 che oggi sarebbero i primi reclutati dalla leva, è evidentissima. Lo dimostrano i dati degli obiettori di coscienza (coloro che dopo essersi arruolati hanno poi lasciato le forze armate) che sono aumentati del 500% nel 2023 dopo lo scoppio del conflitto ucraino. Nel dettaglio 1 su 4 dei 18.810 uomini e donne che si erano arruolati nel 2023 hanno lasciato le forze armate entro 6 mesi. Dati guardati con preoccupazione da parte del ministero della Difesa in un momento in cui la Germania punta sempre di più sul rafforzamento della difesa nazionale e che potrebbe prevedere una leva obbligatoria sia per gli uomini che per le donne.

Da quando la Russia ha lanciato la sua invasione su larga scala dell’Ucraina nel febbraio 2022, la Germania ha avviato uno sforzo di riarmo su vasta scala. L’esercito tedesco può contare su 181mila soldati, con un’età media di 34 anni (Più dell’Italia che conta 161mila effettivi, mentre la Francia ne ha circa 260mila). Tuttavia un ultimo rapporto ufficiale evidenzia alcune criticità, il 28% delle posizioni nei ranghi più bassi non sono coperte e mancano il 20% degli ufficiali che sarebbero necessari. A questo si aggiungono gli alti numeri delle defezioni del 2023 (il 25% dei neo-assunti). Anche per far fronte a questi problemi in parlamento si è tornato a discutere di leva obbligatoria. La proposta è arrivata dal parlamentare Florian Hahn che ha dichiarato alla Bild che “Già da quest’anno i primi soldati di leva devono entrare nelle caserme”. Ricordando che il mondo è diventato più insicuro e la Germania «ha bisogno di un deterrente credibile dato proprio dalla capacità di aumentare gli effettivi. Obiettivo che può essere raggiunto anche attraverso cittadini in uniforme siano essi volontari o di leva». In Germania il servizio militare obbligatorio è stato abolito nel 2011. Era stato istituito nel 1956. Tuttavia né la minaccia russa né il crescente clima di tensione internazionale sembrano motivare i giovani tedeschi ad arruolarsi, tanto che, come riporta il Financial Times in un reportage l’esercito ha “Sempre più difficoltà a trovare giovani della Gen Z pronti per la guerra”. «Meglio sotto occupazione che morto», la frase pronunciata da Ole Nymoen, giornalista freelance ventisettenne tedesco, sta facendo discutere la Germania insieme al suo libro dall’eloquente titolo “Perché non combatterei mai per il mio paese”. Il saggio è uscito questa settimana e analizza il punto di vista di molti ragazzi: «La nazione si trasfigura in una grande comunità solidale, che tutti devono servire con gioia. E questo dopo decenni di desolidarizzazione, durante i quali i politici neoliberisti hanno dichiarato che l’impoverimento di ampie fasce della popolazione era l’unica opzione»13.

E adesso, proprio mentre l’America di Trump dimostra, con la sua politica che cerca di ristabilire una equilibrata ripartizione del mondo oggi con la Russia di Putin, ma in un ancora incerto futuro, forse, anche con la stessa Cina, di essere giunta a un punto di non ritorno della sua pretesa egemonia mondiale e i governi europei sbandano dandosi come unico “obiettivo” comune quello di entrare in un’economia di guerra, si riattivano anche i corifei dei diritti umani, delle liberà, delle democrazie solo e sempre parlamentari e dell’antifascismo europeista tornano a dimostrare l’esattezza dell’assunto di Amadeo Bordiga secondo il quale: Il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo. Un’affermazione che va però inserita in una più ampia riflessione sulle caratteristiche del fascismo che vale la pena qui di riportare:

Il fascismo venne da noi considerato come soltanto una delle forme nelle quali lo Stato capitalistico borghese attua il suo dominio, alternandolo, secondo le convenienze delle classi dominanti, con la forma della democrazia liberale, ossia con le forme parlamentari, anche più idonee in date situazioni storiche ad investirsi degli interessi dei ceti privilegiati. L’adozione della maniera forte e degli eccessi polizieschi e repressivi, ha offerto proprio in Italia eloquenti esempi: gli episodi legati ai nomi di Crispi, di Pelloux, e tanti altri in cui convenne allo Stato borghese calpestare i vantati diritti statutari alla libertà di propaganda e di organizzazione. I precedenti storici, anche sanguinari, di questo metodo sopraffattore delle classi inferiori, provano dunque che la ricetta non fu inventata e lanciata dai fascisti o dal loro capo, Mussolini, ma era ben più antica.[…] Divergendo dalle teorie elaborate da Gramsci e dai centristi del Partito italiano, noi contestammo che il fascismo potesse spiegarsi come una contesa tra la borghesia agraria, terriera e redditiera dei possessi immobiliari, contro la più moderna borghesia industriale e commerciale. Indubbiamente, la borghesia agraria si può considerare legata a movimenti italiani di destra, come lo erano i cattolici o clerico-moderati, mentre la borghesia industriale si può considerare più prossima ai partiti della sinistra politica che si era usi chiamare laica. Il movimento fascista non era certo orientato contro uno di quei due poli, ma si prefiggeva d’impedire la riscossa del proletariato rivoluzionario lottando per la conservazione di tutte le forme sociali dell’economia privata. Fin da molti anni addietro, noi affermammo senza esitazione che non si doveva ravvisare il nemico ed il pericolo numero uno nel fascismo o peggio ancora nell’uomo Mussolini, ma che il male più grave sarebbe stato rappresentato dall’antifascismo che dal fascismo stesso, con le sue infamie e nefandezze, avrebbe provocato; antifascismo che avrebbe dato vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati, giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici14.

Ecco allora arrivare oggi alle nostre orecchie lo schiamazzo osceno di chi, non sapendo in quale altro modo chiamare i giovani e le società intere al massacro bellico, non può far altro che riscoprire un antiamericanismo di maniera, patriottico e nazionalista, oppure il richiamo all’antiautoritarismo liberale in difesa della democrazia offesa dall’autocrate Putin, con manifestazioni di piazza e chiamate alle armi velenose e subdole. Degne sì di essere chiamate fasciste e contrarie a qualsiasi altro interesse di classe e della specie, visto che le posizioni espresse dalla Schlein su difesa europea e debito comune sono molto simili a quelle espresse dalla Meloni e dal suo governo. Oppure, come hanno fatto i verdi tedeschi, si ammanta l’approvazione dello sforzo bellico con la necessità di una “transizione ecologica” o ancora, com’è successo l’estate scorsa in Francia, con il voto della France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon ai candidati di Macron, il principe dei guerrafondai europei tenuto a freno solo dalle considerazioni di carattere economico della Banca di Francia, per opporsi a Marine Le Pen.

Mobilitazioni di carattere principalmente ideologico cui, però, fa da corollario il piano della commissione europea che, mescolando tra di loro i pericoli rappresentati da guerre, pandemie e disastri ambientali affiancati alle politiche securitarie portate avanti da tutti i governi nel corso degli ultimi decenni, è stato presentato in bozza a Bruxelles per una “Strategia di preparazione dell’Unione” o di “Vigilanza” che formula la necessità per le famiglie di accumulare scorte di medicine, batterie e cibo per resistere 72 ore in caso di guerra e per le scuole e gli insegnanti di preparare gli allievi ai “pericoli” della guerra, non certo in chiave antimilitarista (qui e qui).


  1. Il Destino manifesto è un’espressione che indica la convinzione che gli Stati Uniti d’America abbiano la missione di espandersi, diffondendo la loro forma di libertà e democrazia. La frase “destino manifesto” venne all’inizio usata principalmente dai sostenitori della democrazia jacksoniana negli anni 1840, per promuovere l’annessione di buona parte di quelli che oggi sono gli Stati Uniti d’America occidentali (il Territorio dell’Oregon, l’Annessione texana e la Cessione messicana) a partire dalla presidenza di James Knox Polk. Il termine venne riesumato negli anni 1890, questa volta dai sostenitori repubblicani, come giustificazione teorica per l’espansione statunitense al di fuori del Nord America e alcuni commentatori ritengono che questi aspetti del destino manifesto, in particolare il credo in una “missione” statunitense per promuovere e difendere la democrazia in tutto il mondo, abbia continuato a lungo a influenzare la politica statunitense e la sua narrazione, in patria e fuori.  

  2. K. Moual, Hey, amici, come ci si sente con la Ue trattata come uno staterello africano?, Huffington Post, 20 Febbraio 2025.  

  3. E. Franceschini, “Putin super intelligente, Ucraina falso Paese”. L’assurda intervista di Witkoff, inviato di Trump, «la Repubblica», 24 marzo 2025.  

  4. JD. Vance: «Penso che stiamo commettendo un errore: solo il 3% del commercio Usa passa dal Canale di Suez, contro il 40% di quello europeo. C’è il rischio reale che il (nostro) pubblico non capisca perché questa azione sia necessaria […] Se ritenete che dovremmo comunque farlo, allora andiamo. Però detesto l’idea di salvare gli europei ancora una volta».
    P. Hegseth: «Condivido in pieno la tua critica degli approfittatori europei. E’ patetico.» in R. Fabbri, Vance-Hegseth e l’odio per l’Ue. La chat segreta, «Il Giornale», 25 marzo 2025.

     

  5. Si veda: G. Sorgi, J. Barigazzi e G. Faggionato, EU slams the door on US in colossal defense plan, «Politico» 19 marzo 2025.  

  6. A. Naughtie, Un altro Paese europeo potrebbe sviluppare le proprie armi nucleari?, «Euronews», 23 marzo 2025.  

  7. G. Torlizzi, Armi, il piano di Parigi per escludere l’Italia, «Il Giornale», 26 marzo 2025.  

  8. A. Naughtie, art. cit.  

  9. Cfr: Cina: “Le nostre truppe di peacekeeping in Ucraina? Fake news”, «la Repubblica», 24 marzo 2025. 

  10. Per tutto quanto riguarda i risultati del sondaggio dell’istituto Gallup, si vedano: Se scoppiasse una guerra, combatteresti? Cosa farebbero gli italiani, Adnkronos, 18 marzo 2025 e E. Pitzianti, Combatteresti per il tuo Paese? Ecco la risposta degli italiani, Esquire Italia, 7 marzo 2025.  

  11. Si vedano: F. Kunkle, S. Korolchuk, Ukraine cracks down on draft-dodging as it struggles to find troops, «The Washington Post», 8 dicembre 2024; A. D’Amato, I soldati ucraini che hanno disertato in Francia: «Erano nelle caserme, avevano diritto di uscire», «Open.online», 7 gennaio 2025; Ucraina diserzioni, 19mila soldati hanno già abbandonato. Kiev depenalizza il reato per chi lascia la prima volta: l’altro fronte odioso della guerra, «Il Messaggero», 8 settembre 2024; D. Bellamy, Decine di migliaia di soldati hanno disertato dall’esercito ucraino, «Euronews», 30 novembre 2024.  

  12. N. Scavo, Agguati contro i reclutatori. Kiev teme la rivolta interna, «Avvenire», 4 marzo 2025.  

  13. Leva obbligatoria, la Germania vuole reintrodurla ma la Gen Z si rifiuta: «Meglio sotto occupazione che morto», «Il Messaggero», 18 marzo 2025.  

  14. Edek Osser, Un’intervista a Amadeo Bordiga, giugno 1970 (qui)