di Sara Picardi
Il trentesimo anniversario di Above dei Mad Season ci ricorda quanto certe opere eccezionali siano sempre più distanti da noi in senso cronologico.
Si tratta di una creazione che sboccia negli anni ’90 e fotografa in maniera puntuale lo spirito di quel decennio: Seattle, una città sul mare quasi sconosciuta, diventa il cuore pulsante di una scena musicale destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del rock, quella grunge.
Probabilmente l’ultimo grande movimento che, trascendendo la musica, ha incarnato un fenomeno culturale di protesta sollevando importanti questioni sociali e identitarie, sfidando le disuguaglianze di genere e promuovendo l’autodeterminazione e la visibilità delle donne, sia nel panorama musicale che nella società in generale.
I Mad Season sono un supergruppo nato proprio in questo epicentro, composto da membri provenienti da band leggendarie come Alice in Chains, Screaming Trees e Pearl Jam.
Above, pur avendo influenze musicali molto varie, che spaziano dal blues al jazz, può essere considerato un “testo sacro” della musica grunge poiché racchiude molte tematiche esistenziali profonde e significative del movimento, esplorando le esperienze personali e le difficoltà dei suoi membri, tutti segnati da sofferenze, in particolare legate a problemi di dipendenza di vario tipo.
La formazione comprende Layne Staley (voce) degli Alice in Chains, Mike McCready (chitarra) dei Pearl Jam, John Baker Saunders (basso) degli Screaming Trees e Barrett Martin (batteria) degli Screaming Trees.
Tutti i membri della band sono ex tossicodipendenti, ormai disintossicati e si uniscono in un legame profondo, di supporto e quasi magico attorno a Staley che in quel periodo lotta disperatamente per liberarsi dalla dipendenza dall’eroina che lo sta consumando lentamente, sia a livello fisico che psicologico.
Dal punto di vista artistico, i Mad Season offrono a Staley una preziosa opportunità di esprimersi in modo più personale rispetto agli Alice in Chains, dove la figura di Jerry Cantrell, chitarrista e principale autore, svolgeva un ruolo fondamentale nella direzione musicale del gruppo.
La loro collaborazione, simile a quella di Lennon e McCartney nei Beatles, si basava su un processo creativo fortemente simbiotico, in cui Cantrell era una presenza chiave.
Tuttavia, all’interno di quella dinamica, il carattere insicuro di Staley è stato probabilmente schiacciato dalla personalità artistica forte del collega.
Nei Mad Season, invece, il cantante ha la possibilità di esplorare nuove dimensioni artistiche, soprattutto libero dalle tremende pressioni da parte dei discografici. Il risultato è un album straordinariamente ispirato, dove ogni traccia colpisce nel profondo.
La voce di Staley, con la sua incredibile estensione e soprattutto con la sua potente espressività emotiva, oscilla tra momenti di delicatezza e urla strazianti.
E nonostante un senso di stanchezza che permea l’album, emerge comunque una speranza che riecheggia tra le note: non tutto è perduto.
Il profondo coinvolgimento dell’enigmatico frontman degli Alice in Chains, appassionato anche di arti figurative – suo è il logo della band – lo spinge a realizzare personalmente la copertina dell’album.
L’opera, un’illustrazione ad inchiostro, è un autoritratto ispirato a una fotografia che lo ritrae insieme alla sua musa e compagna, Demri Parrott.
Immerso in una battaglia che gli imponeva l’autoisolamento per sfuggire alle tentazioni, Layne Staley cercava conforto, oltre che nei disegni, nella lettura. Un’opera in particolare, Il profeta di Kahlil Gibran, lo coinvolse al punto da farne ispirazione per il brano di apertura del disco.
Wake Up è un inno al risvegliarsi, un appello a porre fine alle relazioni distruttive che ci consumano, siano esse legate a persone, sostanze o cattive abitudini. Il brano ci invita a riflettere sul fatto che, quando qualcosa ci danneggia, siamo noi a permettere che accada.
Un chiaro monito che Staley probabilmente cercava di impartire a se stesso, e in cui infonde un trasporto palpabile attraverso una performance viscerale, che cattura l’ascoltatore senza lasciare spazio a scappatoie.
Particolare è l’inclusione nel progetto di un secondo cantante solista, Mark Lanegan, frontman degli Screaming Trees e uno dei più stretti amici di Layne Staley. Insieme, i due hanno scritto e interpretato due brani, tra cui la title track Above e uno dei pezzi più riusciti del disco Long Gone Day. Nato dalla complicità tra i due cantanti, che hanno alternato le strofe con naturalezza, grazie al loro profondo legame, il brano evoca la malinconia di un passato lontano che si tramuta in un forte senso di isolamento e abbandono. Caratterizzato da influenze jazz, rock psichedelico, rock classico e blues, Long Gone Day è arricchita dal sassofono di Skerik, aggiungendo un ulteriore strato emotivo.
Il pezzo esplora la perdita degli affetti più antichi, e di conseguenza più significativi, dove emerge la consapevolezza amara che talvolta coloro con cui si è condiviso tanto, sembrano aver dimenticato il percorso fatto insieme e sono andati oltre, lasciandoci indietro.
La scelta di sostituire la batteria con il suono moderato dello xilofono accentua la sensazione di un ricordo roseo distante e idealizzato.
Above si insinua nel tessuto del tempo proprio quando il grunge inizia a ripiegarsi su se stesso, lentamente, consumato dalle tendenze autodistruttive dei suoi protagonisti: il suicidio di Kurt Cobain – il rappresentante più noto del movimento – segna l’ineluttabile punto di non ritorno. Il disco resta un’opera unica, l’inizio della fine di un fenomeno che racconta l’estinguersi delle sottoculture musicali piegate sotto il peso del mercato. La setlist viene riproposta e ampliata dal vivo nel bootleg Live at The Moore, registrato il 29 aprile 1995, dove la band rende omaggio al leader dei Nirvana, scomparso pochi mesi prima, inserendo un accenno di sassofono a Come As You Are all’interno di Long Gone Day.
La parabola di Layne Staley si conclude in modo tragico. A seguito della morte per endocardite dell’amata Demri Parrott, il cantante perde definitivamente la sua battaglia contro la dipendenza e si chiude in una spirale autodistruttiva senza via d’uscita. Smette di avere contatti con il mondo esterno e si isola nel suo appartamento, che si trasforma in rifugio e prigione. Sopravvivrà fino al 5 aprile 2002, ma la sua fine sarà particolarmente drammatica: il suo corpo verrà ritrovato solo quattordici giorni dopo, in completa solitudine. Accanto a lui, bombolette spray di colore, l’ultimo, disperato tentativo di rifugiarsi nell’arte figurativa, l’unico mezzo rimastogli per esprimersi senza doversi più esporre al mondo esterno.
Dopo trent’anni, un periodo che segna il passaggio da una generazione all’altra, Above non mostra segni di invecchiamento. Al contrario, continua a esplorare temi universali e senza tempo: la paura della perdita e l’impossibilità di sfuggirvi, il timore di se stessi e degli altri.
Un desiderio confuso di riunificazione che non è aggressivo, ma piuttosto mite, quasi passivo. Una ricerca silenziosa di sollievo.
Nel 1970 Lester Bangs, leggendario giornalista della rivista “Rolling Stone”, recensiva Astral Weeks di Van Morrison definendolo salvifico: “Astral Weeks è curativo […] È come una terapia, una liberazione. Non c’è niente di simile nel rock. […] È un album che ti trasporta, ti fa entrare in una dimensione diversa, dove la sofferenza e la gioia sono una cosa sola”. Il meraviglioso disco del 1968 conserva ancora il suo potente impatto, ma per i millennials, la Gen Z e le generazioni successive è difficile viverlo come qualcosa di ‘proprio’.
Profondamente radicato nell’ottimismo degli anni Sessanta, trasmette un senso di libertà che appare estraneo alla società contemporanea: un’epoca globalizzata in cui l’iperconnessione, paradossalmente, riflette l’incapacità di relazionarsi in modo profondo con gli altri. Un’epoca segnata da fragilità emotive insormontabili e dalle conseguenti dipendenze: dai videogiochi, dal web, dai legami tossici e altro ancora.
Ma negli anni ’90, come un miracolo laico, un fiore che sboccia tra le crepe dell’asfalto, nasce Above – l’Astral Weeks delle nuove generazioni – destinato a dare voce e sollievo a chi è nato dopo i fasti degli anni Sessanta e Settanta. Mentre Layne Staley come un moderno e dissennato Cristo, si è fatto immortale attraverso una musica senza tempo.
Ferite ataviche, vuoti incolmabili, solitudini irrisolvibili, desiderio e paura del prossimo e dipendenze ingestibili sono fantasmi che, nell’era dell’alienazione digitale, prendono vita, quotidianamente. Ospiti terrificanti che, nei momenti di crisi, esplodono con violenza prorompente.
Di fronte a tutto ciò, l’unica vera consolazione è l’arte, quella che contiene verità, che ci aiuta a scoprire noi stessi, quella con la A maiuscola a cui non si può fare altro che genuflettersi.