di Sandro Moiso

Tano D’Amico, I nostri anni, Milieu edizioni, Milano 2025, pp.96 con 6 fotografie dell’autore, euro 14,90

Tutto è scritto nelle immagini, nelle immagini fatte, realizzate, nelle immagini del passato, quelle che portano al passato, permettono di ripercorrerlo, chiamano a ripercorrerlo (Tano D’Amico, I nostri anni)

Le fotografie di Tano D’Amico hanno colto i momenti più significativi e, forse grazie proprio a lui, più iconici di quegli anni che un imbolsito ex-leader di movimenti studenteschi definì come “formidabili” e i media asserviti alla cattiva coscienza borghese come “di piombo”. Ma nel testo appena pubblicato da Milieu, nella collana “Settanta”, il fotografo si trasforma in scrittore e, con uno stile sospeso tra aforisma e haiku, riesce a trasmettere al lettore la medesima potenza poetica, sospesa tra rabbia e “gioia rivoluzionaria”, delle sue immagini più famose.

Tano D’Amico è giustamente considerato uno dei più importanti fotografi viventi. Nato nel 1942 nell’isola di Filicudi si trasferì a Milano dove conseguì la maturità classica per poi frequentare la facoltà di Scienze politiche. Dopo essersi trasferito definitivamente a Roma nei mesi immediatamente precedenti l’esplodere del ’68, iniziò a testimoniare l’essenza delle rivolte giovanili e operaie degli anni successivi attraverso fotografie scattate per riviste e giornali, tra i quali «Potere operaio» e «Lotta continua», di cui fu anche uno dei “fondatori” e dei più stretti collaboratori.

I soggetti privilegiati dei suoi scatti sono stati spesso operai, disoccupati, senza-casa, detenuti, donne, studenti, operai. Ma ha lavorato anche sul piano internazionale, documentando l’Irlanda della guerra civile, la Grecia dei colonnelli, la Spagna franchista, il Portogallo della Rivoluzione dei garofani, la guerra in Bosnia, il conflitto in Palestina e la resistenza in Chiapas.

Proprio in una delle prime pagine del testo, Tano afferma che: «Le immagini nascono prima dei pensieri. Le immagini sono punti di partenza per i pensieri e per le parole»1. Suggerendo così immediatamente la potenza evocativa di ogni immagine che finirà col depositarsi nell’immaginario e nell’inconscio soggettivo e collettivo, ma anche la necessità di ridurre al massimo il numero di parole necessarie per ribadire concetti o disseppellire ricordi troppo spesso soffocati dalla retorica oppure dall’autoindulgenza che contribuiscono soltanto a cancellarne la fulminante esplosione dell’istante o degli istanti su cui si costruisce la memoria storica.

Immagini che scaturiscono dai sentimenti, ancora prima che dall’occhio che guarda, e che altrettanti sentimenti scateneranno in chi avrà il coraggio di guardarle. Sì, perché guardare, così come pubblicare le immagini, è una questione di coraggio. Coraggio che quasi sempre mancò a chi avrebbe dovuto usarle negli anni in cui le fotografie di Tano D’Amico furono scattate.

Se si vuole, gran parte della narrazione si articola intorno al movimento del ‘77 e all’omicidio di Giorgiana Masi da parte della polizia e di un potere infoiato dalla necessità di reprimere e uccidere chi aveva il coraggio di opporglisi. Soprattutto se si trattava di donne.

Mai nella storia come in quell’anno le donne avevano potuto elaborare le proprie istanze senza doversela vedere con gli uomini. Gli uomini elaboravano le loro, incomplete, come da sempre, istanze. Si può dire che le donne portavano avanti pensieri, sentimenti per tutto il genere umano. Quelle donne erano contagiose per tutte le altre donne e per tutti gli uomini.
Lo Stato, il potere, sentì ancor il bisogno di vittime. Almeno ancora una, e doveva essere una donna, ancora un rogo, almeno uno2.

Certo, tra le morti raccontate da Tano non c’è soltanto quella di Giorgiana, ci sono anche quella di Francesco (Lorusso) e di Walter (Rossi) e anche quella di Antonio (Custra) che stava dall’altra parte, ma è proprio quello di Giorgiana a far sì che il ricordo di quell’anno e di quel movimento debba per forza mescolare la festa, il pane e le rose. con il sangue e la morte. L’amore per la vita con il suo miserabile disprezzo.

Il movimento veniva reso sempre più un mostro. Rompeva le vetrine, quindi era lecito sparargli. Le vetrine vennero sempre più sacralizzate, le vite dei rivoltosi private di qualsiasi valore. Sui giornali, tutti, si piangeva più sulle vetrine che sui giovani e sulle ragazze che lasciavano le loro vite sulla strada. Il fotografo non dimentica i loro volti che diventavano sempre più bianchi sul nero dell’asfalto3.

Così il 12 maggio di quell’anno, a Roma, a metà strada tra l’uccisione di Francesco a Bologna e di Walter ancora a Roma: «Due ragazze furono colpite metre correvano. Vennero soccorse dai compagni. Elena morirà poi di dolore e Giorgiana, una pallottola bucherà una sua vertebra e impazzirà nelle sue viscere, uccidendola.»

Più avanti ritornerà più di una volta, come in una ballata di un tempo, una frase o poco più: «I genitori della ragazza morirono di dolore. La vicenda non è ancora chiusa. Il fotografo si illude che siano le immagini a mantenerla aperta nella memoria.» Sì, perché Tano non è mai stato fotografo per mestiere e come tale non è mai stato visto dai movimenti di cui è stato fratello e amico, né dai media e dal potere, che ne hanno sempre percepito l’inimicizia e l’esser schierato. Dall’altra parte della barricata. Un cercatore di immagini, ancor prima che un loro “produttore” o, ancor peggio, sfruttatore.

Le immagini nuove irrompono nella storia dai suoi squarci, quando c’è conflitto. Quelle immagini rimangono e preannunciano, e segnano, i cambiamenti, svolte, conflitti. Sono loro a rendere visibili i sentimenti che fanno la storia4.

Sentimenti che devono essere sconfitti, demonizzati, dimenticati, brutalizzati, come cercarono, ancora, di fare con le donne, nel maggio del 1977, il potere, lo Stato, la sbirraglia.

Il giorno dopo le donne si riunirono sul luogo dell’omicidio di Giorgiana. C’era ancora il suo sangue sull’asfalto. Coprirono di fiori quel sangue, comparirono biglietti, lettere, poesie, tanti altri fiori.

[…] Il traffico rallentò, non c’era un clacson che suonava, anche gli autobus rallentavano per non fare rumore. Quel cerchio di donne che piangevano e ondeggiavano tutte insieme si impresse per sempre nell’anima di chi guardava. Qualcuno se ne accorse. Arrivò un reparto di poliziotti e uno di carabinieri. Caricarono quel cerchio di donne, lo scompigliarono, lo disgregarono, lo distrussero, disperdendo le donne. Gli uomini armati tagliarono ogni via di fuga. Ognuna venne picchiata. Tutte tentarono di tornare a ricomporre il cerchio. Poliziotti e carabinieri si alternavano a distruggere con sempre più ferocia e spietatezza ogni tentativo, ogni abbozzo, ogni intenzione di cerchio. Le donne non urlarono, aprirono la bocca ma le grida non uscivano. Due ragazze con la maschera della tragedia, la bocca spalancata, senza suono, senza voce, senza grida andarono verso il fotografo. Sempre più numerosi, gli armati intercettarono le donne che tentavano di fuggire e le percossero con i manganelli. Altri uomini armati oltraggiarono quel letto di fiori, uel che rimaneva di un rogo. Il rogo di Giorgiana, il sangue di Giorgiana.

Nessun giornale volle quella foto che qui è malamente descritta5.

E’ l’immagine tranquilla di un operaio che mangia un panino al prosciutto quella che apre la breve rassegna di fotografie che accompagna il testo. Seguiranno quelle della violenza e delle rivolte. Tutte entrate nel mito, nella storia dei movimenti e nella memoria. Anche di quella di chi quei momenti, per ragioni anagrafiche e geografiche, non le ha vissute. Tutte a riaffermare l’irriducibilità del conflitto e della speranza in un mondo migliore che nessun potere riuscirà mai a cancellare.

Grazie, allora, Tano, per le tue fotografie e per i ricordi, i sentimenti, la rabbia e l’amore che hai voluto e saputo condividere e trasmettere ai lettori, anche con le parole.


  1. T. D’Amico, I nostri anni, Milieu edizioni, Milano 2025, p. 12.  

  2. Tano D’Amico, op. cit., p. 17.  

  3. Ibidem, p. 16.  

  4. Ivi, p. 82.  

  5. Ibidem, pp. 20-21.