di Mauro Baldrati

Terrarossa, Bari 2025 pagg 267 € 17.90

Esce questo romanzo di Giacomo Sartori, che vide la luce per la prima volta 21 anni fa per l’editore Sironi. A quel tempo fu un romanzo fortemente innovativo, che può essere inquadrato agli albori dell’autofiction. E’ anche un iper testo, infatti si può leggere partendo da un punto qualsiasi e in qualsiasi direzione. Perfetta, infatti, è l’omogeneità del ritmo narrativo, e della scrittura, precisa, chirurgica. Passa con grande scioltezza da fasi di formazione, al ritratto di personaggi, fino a incursioni in un noir paradossale e allucinato. Il tutto senza mai scivolare nell’autocompiacimento o nello sfogo di una rabbia compressa. Sul testo aleggia un’aura di straniamento, come un’epica remota che arriva fino a noi con echi selvaggi di avventure e vite perdute. Il nucleo centrale è il personaggio del padre, che il narratore segue fino alla lenta agonia, in una sorta di dolente omicidio della figura paterna. Un personaggio enorme, un gigante dotato di una forza incrollabile, che sembra sgorgare dalla sua formazione totalitaria di fascista che non conosce il dubbio né il pentimento, e tanto meno il pudore della negazione. “Per lui quello che importava sopra ogni cosa era comportarsi come un vero fascista, o comunque – quando il fascismo non esisteva più da anni – come la sua nostalgia del fascismo gli facesse credere che bisognasse comportarsi”. Tutta la famiglia sembra pervasa – dominata – da questa granitica resistenza all’avanzare della modernità. Un ambiente famigliare rarefatto che ricorda Il deserto dei tartari, in una grande, lussuosa villa, ma senza una lira, come un’aristocrazia che non accetta di morire. Con la tecnica dei piani temporali il narratore salta dal suo passato di bambino debole, sofferente, schiacciato dalla figura del padre che disprezza qualsiasi forma di debolezza, al presente di un inutile lavoro per un improbabile “Centro di Lotta contro la Desertificazione”. Poi ci troviamo all’interno di pagine psichedeliche in cui il narratore – forse per una inevitabile forma di ribellione verso il golem paterno? – sprofonda nella clandestinità e nella lotta armata. Ecco una pagina, segnata da una paradossale confusione mentale, in cui il narratore, che partecipa a una rapina proletaria come autista-palo, aspetta i compagni:

E invece all’improvviso attraversa la strada e punta verso di me, da davanti. Deve fermarsi per lasciare passare una ragazza con un passeggino, ma è chiaro che viene verso di me. Cammina in fretta, si avvicina sempre di più. Io apro il finestrino con la manovella, e penso che devo tirare fuori la pistola, devo puntargliela contro. Ma non posso, riesco solo a stare in ascolto dei tonfi del mio cuore. Poi invece non so come me la ritrovo in mano: scivola nel palmo sudato. Mi sporgo sulla sinistra per poter mettere fuori il braccio, e gliela punto contro. Lui continua però ad avanzare, come se non si fosse accorto di niente. Mi ripeto che devo tirargli almeno nelle gambe, devo farlo. Se non altro per gli altri, per la responsabilità che ho nei loro confronti. Ma non riesco a premere il grilletto. Il tipo è ormai a due metri, sta facendo uno scarto per avvicinarsi alla mia portiera. Mi dico che la aprirà da fuori, mi viene istintivamente, anche se il finestrino è aperto, da abbassare la sicura. Aspetto lo scatto della serratura. E invece c’è uno scatto diverso, che viene dalla mia pistola ma anche da altrove, e cade per terra. È come se d’improvviso le sue gambe fossero di stoffa: si avvitano su se stesse, schiacciate dal peso del busto e della testa. Io non posso crederci che stia bocconi contro l’asfalto, che dalla sua testa esca un liquido rosso. Io ho mirato alla gamba sinistra, non alla testa. Lo guardo per capire se è davvero ferito alla testa. Mi sembra impossibile che un proiettile gli abbia trapassato il cranio, anche se effettivamente devo aver premuto il grilletto.

Esistono, o sono esistiti, scrittori cosiddetti minimalisti, o dell’incomunicabilità. Per le atmosfere segnate da un distacco, doloroso benché segnato da una sorta di sommesso fatalismo, e da un sé che sembra continuamente fuori fase, Giacomo Sartori può essere definito un poeta dello straniamento. Di seguito pubblichiamo la postfazione, nella quale l’autore ragiona sulla genesi e sulle implicazioni della sua opera.

Quando ho iniziato a lavorare a questo romanzo – sono trascorsi più di venti anni – non immaginavo che la scrittura sarebbe stata accompagnata da una tormentata immersione nel fascismo. Intendevo parlare di mio padre, dei suoi ultimi mesi. E invece mi sono presto reso conto che non potevo dire niente di quella persona che pensavo di conoscere bene, e tanto meno descrivere la grinta titanica con la quale aveva combattuto contro il cancro, il nucleo palpitante alla base del libro, senza avere dimestichezza con la sua epoca, e l’affanno di morte che ne aveva presso possesso. Lottava per restare vivo perché per lui vivere voleva dire sfidare e avere la meglio sulla morte. Per lui, fascista e repubblichino mai davvero ravveduto, la massima aspirazione era stata una morte eroica sul campo di battaglia, o al limite sfidando una montagna: una bella morte. Non poteva rassegnarsi all’umiliazione di una fine qualsiasi, quella pedissequa di qualsiasi essere umano.

Più mi documentavo più scoprivo quanto ci fosse nelle sue parole e nei suoi modi della grande malattia che aveva colpito il suo tempo. Scoprivo che certo era un personaggio unico, con il suo innegabile carisma e il suo burbero manicheismo, la sua brutale franchezza e la sua rettitudine, il suo amore per la montagna e la sua insofferenza nei confronti della religione e dell’ipocrisia, la sua aggressività verbale e la mitezza della sua indole, il suo enorme coraggio e le sue ben celate debolezze, il suo narcisismo e la sua tolleranza, ma tanti di questi suoi ingredienti erano quelli della sua epoca. Non sgorgavano solo dal suo carattere così particolare, come avevo sempre dato per scontato, venivano in gran parte dalla Storia. Il suo destino individuale era anzi paradigmatico, e il vero interesse della sua vicenda stava nella complessa articolazione tra elementi intimi e epocali. Per delineare con crescente precisione quel personaggio che era mio padre, ma che non era più solo quello che avevo conosciuto io, era anche il fenotipo di un codice genetico più diffuso e generale, leggevo allora resoconti e biografie e diari, che si rivelavano illuminanti per chiarire il suo funzionamento: come succede quando si trovano finalmente le istruzioni di un apparecchio molto complicato. Li divoravo, ma il mio fine non era erudirmi, non era farmi una cultura astratta sul fascismo, non era imbastire una nuova teoria: in ogni caso questi compiti mi erano preclusi. Andavo più semplicemente a caccia dei mattoni che mi servivano per costruire la mia storia, per darle la profondità che altrimenti sarebbe mancata, per far sì che mirasse sempre alla verità, evitando i luoghi comuni e le autoassolutorie semplificazioni che imperavano, sbarazzandomi delle compiacenti mitologie della mia famiglia. Li rincorrevo traversando di corsa le pagine come un segugio, e come un segugio sapevo stanarli e dissotterrarli, senza mai lasciarli scappare. Al pari di sempre la scrittura non era la trascrizione di qualcosa che già sapevo, era un pericoloso viaggio di scoperta.

Io non avrei dovuto esserci in questo romanzo. E nemmeno un personaggio che per tanti aspetti mi assomiglia. Scrivendolo mi sono invece reso conto che senza punizione dei responsabili e senza esami di coscienza, senza alcuna cerimonia di interramento, la fine del fascismo era indissolubilmente legata alla violenza degli anni che avevo vissuto in prima persona. Ne era anzi la lontana e per certi versi ben mimetizzata fonte. La bestia nera che non è mai stata sepolta era risorta con i suoi agguati e le sue unghiate di crudeltà, in parallelo al rianimarsi altrettanto cruento degli storici nemici. Non si poteva capire la stagione insanguinata della mia adolescenza, senza fare riferimento alla guerra civile di trent’anni prima, quella vissuta da mio padre: ne era l’anacronistico proseguo. Ma era soprattutto la mia vita privata a aver ricevuto le eredità di quell’epoca che i più consideravano ormai lontana, e che io stesso avevo faticato a disseppellire. Quindi parlare di lui era anche parlare di me e del mio percorso, e riesumare l’origine delle mie scelte di vita. Scoprivo che ero molto più legato a lui di quanto pensassi, anche se avevo perso l’occasione di farglielo capire, come spesso succede nella vita, che nella sua rassicurante lentezza schizza via in fretta.