di Franco Pezzini
[È comparso per i tipi Polidoro, nella collana Interzona diretta da Orazio Labbate, Napoli 2025, il romanzo Morte astrale. La profezia della lapsit, pp. 432, € 18, a firma di chi scrive. Se ne propone qui uno stralcio.]
Veniva dalla direzione opposta, camminando spedito: grasso, sui cinquant’anni, gran baffi a manubrio sul viso molle, un soprabito scuro di buona fattura… ma erano stati gli occhi a colpirla, sbarrati come parevano da un panico assoluto, grottesco. Anche al primo incontro su quel tratto di strada non c’era molta gente, però lo sconosciuto aveva doppiato un poliziotto senza chiedere aiuto e si guardava attorno con angosciata circospezione. Quasi aspettandosi – le era venuto da pensare – un aggressore che sbucasse all’improvviso da un tombino, o calasse dal cielo. Al punto che si era scoperta a voltarsi, a guardarlo allontanare: e ora si rincrociavano.
Quand’era bambina, specie se si trovava fuori casa o in ansia per qualcosa di nuovo, le capitava ogni tanto di astrarsi verso un altrove più consueto e quasi tangibile: questione di un attimo, il tempo di rientrare al posto giusto tra corpo e occhi e ritrovare la realtà. Ma adesso il ricordo di essersi buttata sul letto vestita e stanchissima pareva semplicemente appoggiato da qualche parte, non le importava recuperarlo e forse neppure vi sarebbe riuscita. Solo una desta inquietudine, piuttosto, le faceva notare che la via si perdeva in un nulla biancastro, nebbia o pigrizia del sogno – se di sogno si trattava – nel riprodurre i dettagli, o forse timore che velava lo sguardo. Forse era ciò a spaventare l’ometto, che continuava a guardarsi attorno. E l’inquietudine montava, come addensandosi in foschia appiccicosa.
A un tratto Ariadne ebbe la sensazione di sentir battere il cuore dell’uomo, e si domandò se a echeggiare non fosse piuttosto il proprio – polsi, vene, e giù fino allo stomaco in subbuglio. Ma a quel punto, quasi l’udito si affinasse via via alla situazione, qualcosa davvero fremette nell’aria e palpitò ronzando, per definirsi infine in una sorta di litania ritmata, risacca ansimante e incomprensibile di voci lontane. Vibrando a tale frequenza, tutta l’immagine sembrò ora barcollare davanti ai suoi occhi, gli oggetti perdere definizione, sgranarsi in polvere pulsante, particelle elementari: e tutto affondò come in un ordito sottostante, nella vertigine di una diversa dimensione con un’eco stonata, selvaggia. Dal fondo degli occhi, Ariadne percepì confusa una frenesia di caratteri incandescenti, indefinitamente sovrapposti in sequenze come in un incommensurabile pallottoliere o nel delirio di un enigmista. Sequenze in continuo movimento, che qualcosa le suggerì alternare ripetizioni e mutamenti. A tratti il tessuto si squarciava in cascate di segni, rabbiose o invece rallentate in rispondenza al ritmo sonoro; ma poi tornava a riagglutinarsi in quell’immenso cruciverba fiammeggiante.
Fu l’intuizione di un’urgenza a costringere Ariadne a recuperare la visione: a poco a poco l’immagine riassunse una nebulosa definizione, poi la stessa scena che aveva lasciato con l’ometto e la strada. Il fremito nell’aria continuava sordo, minaccioso per quanto remoto: ma Ariadne si sforzò di non percepirlo, mentre qualcosa la richiamava al muro compatto di nebbia che fronteggiava la cancellata. Una porzione appena più scura poteva svelare l’imbocco di una via perpendicolare (le parve di ricordare che lì, in effetti, avesse quel giorno svoltato una carrozza), come una fessura d’ombra che lentamente prendesse consistenza. Certo il gelo metallico al tocco delle dita era quello delle aste del cancello, ma realmente faceva più freddo ed Ariadne avvertì quanto fosse vicina a qualcosa che stava arrivando. Anche l’ometto era paralizzato, la voce strozzata in gola, e fissava la porzione più buia della cortina traslucida.
Più che l’inizio di una via, ciò che progressivamente si definiva nella nebbia pareva il fondo di una grande nicchia, raggiato di filamenti lanuginosi come un’enorme ragnatela tra il manto stradale e i palazzi invisibili: una ragnatela, realizzò Ariadne con un misto d’inquietudine e disgusto, viscosa e abitata. Non era sicura di quanto vedesse, anzi si aggrappò all’ipotesi di un errore dello sguardo. Perché proprio adesso, circonfuso di quell’equivoca umidità, una sorta di bozzolo scuro si spingeva avanti ondeggiando in un groviglio di ramificazioni, tentacoli o zampe, allungate in tutte le direzioni come fili colossali. Quasi trascinato dall’immagine, un odore dolciastro, corrotto, permeava il gelo o ne costituiva semplicemente un altro aspetto, come i sensi faticassero a decrittare lo stimolo incongruo, storpiandolo in forme e dimensioni meglio descrivibili.
L’ometto restava incapace di reagire, mentre la cosa avanzava dondolando a mo’ di enorme ragnatela semovente. Alta come un elefante da circo, ma molto più estesa nel pigro ondeggiare dei tentacoli: e benché l’intrico di appendici tendesse a velarla, Ariadne intravide nel folto una specie di crisalide. Sembrava la caricatura malevola di un feto, ma lunga almeno quanto un uomo adulto, col molle capo puntato a tratti in un sordo digrigno. L’essere non faceva rumore, anzi avanzava tra la nebbia con la leggerezza irreale dei batuffoli di polline sparsi dal vento d’estate, le lunghissime appendici danzanti. Però il sordo raschiare della vibrazione nell’aria (che in qualche modo, avvertì Ariadne, doveva riguardarlo) si era fatto insidiosamente ripetitivo e ipnotico. Forse per questo l’ometto lo fissava come una mosca fascinata dal tessitore, sembrava inchiodato a quello spettacolo sempre più vicino, appariva spacciato.
All’improvviso qualcosa saettò. Le percezioni alterate di tempo e misura non permisero di cogliere la sequenza reale: i tentacoli-arpioni erano diretti all’uomo, e invece si abbatterono sfarinandosi sulla strada. Solo con la percezione differita dell’eco Ariadne si rese conto di avere avvertito, per un attimo, un nuovo squarcio di caratteri pulsanti e insieme molto diversi; la sensazione nell’aria di una luce o un fuoco di bizzarra forma geometrica, un orribile sfrigolio. E solo allora scorse l’altra sagoma sul fondo della strada.