di Sandro Moiso
Diego Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 348, 22 euro.
Fondamentalismo religioso, populismo, capitalismo d’assalto, uso distorto delle tecnologie: le origini del presente sono da ricercare negli anni Ottanta, quando tutto cominciò con due attentati: uno al papa, che si salvò e uscì vincitore dallo scontro con il “mostro” sovietico; l’altro a John Lennon, trafitto da quattro colpi di pistola alla schiena all’angolo della 72 ͣ con Central Park West. Faceva un freddo becco, quel giorno. Il mondo stava cambiando. (Diego Gabutti, Ottanta)
Giunti ancora una volta ad un marinettiano e, ormai, tutt’altro che futuristico «estremo promontorio dei secoli» del mondo che conosciamo, o che credevamo di conoscere, torna utile riandare, con il testo appena pubblicato da Neri Pozza nella collana Colibrì, ad un altro svolto storico importante del secolo passato: quello degli anni Ottanta.
Diego Gabutti, con la sua lingua tagliente e lo sguardo ironico come al solito, ci conduce a rivisitare un momento in cui le illusioni dei due decenni precedenti, o forse quattro considerando tutto il tempo intercorso tra la fine del secondo conflitto mondiale e gli anni di cui si parla nel libro, sarebbero finite o, perlomeno, sarebbero state messe seriamente in crisi.
Sia chiaro, ad essere rimesse in discussione non furono soltanto le foscoliane illusioni del cuore, ma tutto l‘insieme di certezze di vario colore e senso politico, economico e culturale, su cui si era retto il mondo dei cosiddetti “Trenta ruggenti” ovvero gli anni intercorsi grosso modo tra il 1945 e il 1975, marcati da un’espansione economica che ebbe nell’Occidente, e in particolare nell’Europa del Mercato Comune, il suo baricentro consumistico e di benessere sociale.
Un ribaltamento delle prospettive che ha permesso in seguito di parlare di una sorta d nuova rivoluzione “conservatrice”, ammesso che una rivoluzione possa mai essere conservatrice, di cui Ronald Reagan, papa Wojtyla e Margaret Thatcher avrebbero costituito, ma soltanto col senno di poi, i deus ex-machina. Ma il cui primum movens fu forse quello di riportare nelle tasche dei “ricchi” ciò che per un illusorio momento era finito nelle tasche dei “poveri”.
Tutto questo secondo l’autore, e proprio in ciò risiede il maggior pregio del libro, non fu pianificato a tavolino, come troppo spesso le letture eccessivamente semplificate della storia e della politica vogliono suggerire, ma fu invece la conseguenza di una miriade di fatti di cui, pur non potendo elencarli tutti, l’autore ci racconta, più che spiegare, l’essenza in trentadue capitoli, più un Prologo ed un Epilogo, che vanno dal capodanno del 1980 con l’invasione sovietica dell’Afghanistan alla caduta del Muro di Berlino. Insomma: Dieci anni che sconvolsero il mondo, come giustamente recita il titolo.
C’erano state, nel giro di soli trent’anni, due guerre devastanti, guerre al di là d’ogni indignazione, perché come ci sono vignette comiche senza parole ci sono anche tragedie mute, o meglio ammutolenti: nubi di gas tossico sulle trincee, città incenerite, pietà l’è morta, il genocidio pianificato degli ebrei e degli zingari e prima ancora degli armeni, campi di lavoro, filo spinato, bombe nucleari, il nazifascismo e il bolscevismo sciamanti in ogni continente come la cavalleria dell’Apocalisse. Sembrava, ed era, la fine del mondo. Nell’ombra delle due guerre mondiali, vinte dai buoni ma non del tutto perdute dai cattivi, prendevano forma la cosiddetta «guerra fredda», che impazzava da un capo all’altro del pianeta, e il suo doppio sociologico: la guerra civile in permanenza che attraversava (e ancora attraversa) le società aperte, e che è la vera eredità del Novecento.
[…] Eppure, inconfutabile, di un’evidenza abbagliante, ecco il miracolo del secondo dopoguerra: rock’n’roll, piena occupazione, anticoncezionali e automobili col sedile ribaltabile che cambiano per sempre la vita sessuale dell’umanità occidentale, televisione, radioline a transistor, lo sbarco sulla Luna, la Beat Generation, Hollywood, un ascensore sociale funzionante a pieno regime, Volare oh-oh, il nascente turismo di massa, Elvis Presley, My Way, i Beatles, Satisfaction, la decolonizzazione, mutui facili da estinguere, il boom edilizio, i cineclub, Agente Lemmy Caution: missione Alphaville e Ma papà ti manda sola?, le vacanze al mare, sindacati potentissimi, generose (e precoci) pensioni per tutti, libertà di pensiero come nemmeno nei sogni più arditi degl’illuministi, libri economici diffusi in milioni di copie, il west di Sergio Leone, il movimento studentesco, la bestemmia non è più un reato, il femminismo, l’educazione permissiva, Il Padrino, la chirurgia dei trapianti e quella estetica, i vaccini, ogni sorta di miracoloso farmaco salvavita, l’età media che sale ad altezze vertiginose. Mai nella storia universale s’erano viste nazioni così opulente e generazioni così sazie, così istruite, così edoniste, e così politicamente impegnate, così militanti, e soprattutto così forever young, decise a rimanere giovani per sempre, come nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945-46 e i primi Settanta, quando l’Occidente conosce una crescita e una trasformazione senza precedenti. Isole incantate e mari blu fin dove arrivava l’occhio.
[…] il capitalismo, qualunque cosa se ne sdottoreggi in giro, non è regolato da leggi; e non è nemmeno autocosciente, a differenza delle malmostose e iettatorie IA o intelligenze artificiali dei film di fantascienza (e oggi anche degli editoriali chic-choc dei giornali). Come sia capitato il secondo dopoguerra, e perché sia capitato, o dove abbia affondato le sue radici, non lo sa dunque nessuno, tanto meno lo stesso «grande capitale» (così s’ostinano a chiamarlo, duri, i marxisti pomposi e irriducibili) che pure di questa speciale festa è stato il generoso anfitrione. Non lo sa «il sistema», altro nome del babau sociologico che tutti sovrasta, e non lo sanno i chiromanti né gli economisti. Figurarsi se lo sanno gli editorialisti dei giornali, che tanto meno sanno e capiscono tanto più montano in cattedra. Capitato e basta – prima non c’era niente di simile o anche solo di paragonabile ed ecco che d’un tratto l’abbondanza era lì e il mondo si vestiva a festa – questo portento non suscitò sorpresa, ma fu dato per scontato, o meglio per dovuto, come se ci fosse sempre stato e così dovesse restare, eterno e inviolabile come un contratto sottoscritto col sangue nello studio odoroso di zolfo d’un notaio da melò luciferino1.
Eppure, eppure…un giorno o un anno o un decennio,,, all’improvviso…
Non ci fu mai, intendiamoci, una brusca frenata, tanto meno la crisi spaventosa profetizzata da Marx e corifei, come quando la produzione di beni si schianta, le banche falliscono, la gente si tuffa giù dai tetti e le strade si riempiono di senzatetto (tipo Furore di Steinbeck) che dormono all’addiaccio, arrostendo patate e cipolle rubate nei campi al fuoco crepitante dei falò. Niente di tutto questo. Solo che a un certo momento si dovette ammettere che il party dell’abbondanza era finito. Uno schianto, dopotutto, c’era stato.
[…] Morale: a metà dei Settanta, i nodi del boom (anzi dei boom, al plurale) vennero rapidamente, o meglio fulminea mente, al pettine – e la festa abortì. Un attimo prima rock’n’roll, l’attimo dopo ogni band taceva.[…] Nessuno s’aspettava né aveva previsto il saltafosso degli anni Ottanta esattamente come nessuno – venti, trent’anni prima – s’era aspettato o aveva previsto l’incantato Paese dei Balocchi del secondo dopoguerra. Non di meno l’incanto ci fu, e poi svanì2.
Tra tutte le storie che Gabutti ci narra nei capitoli successivi per illustrare, più che cercare di capire, le infinite cause che avrebbero portato al ribaltamento dei valori e delle tasche nel corso degli anni Ottanta, sembra particolarmente significativa la vicenda dell’incontro fatale, dostoevskiano si potrebbe quasi definire, tra una delle icone della cultura pop degli anni Sessanta e Settanta e un giovane sconosciuto e depresso della fine di quel periodo, che avrebbe in qualche modo contribuito a definire l’inizio del nuovo.
La data è fatale: 8 dicembre 1980, il primo anno del nuovo decennio sta per concludersi e, dal capodanno afgano all’elezione di Ronald Reagan, ha già visto succedere some weird things, alcune cose che, qualche tempo prima, sarebbero state considerate “strane” oppure impossibili. Ma lì, in quel momento e sulle scale che scendono dal Dakota Building, dove John Lennon vive con Yoko Ono, il sogno del punk più feroce di far fuori il rock e le rockstar precedenti, si avvera. Con spari, sangue, morto e tutto il resto. Altro che Sid Vicious nell’esilarante e feroce performance di My way messa in scena nel film The Great Rock’n’Roll Swindle di Julian Temple (uscito anch’esso nel 1980).
Il giovane (tenete a mente questo aggettivo) Rodion Romanovič Raskol’nikov, protagonista di Delitto e castigo, quando nella realtà si presenta sulla scena per fare la posta al cantautore di Imagine, veste i panni e i malesseri esistenziali di Mark David Chapman, bambino difficilissimo di Fort Worth, Texas occidentale, che in tasca non ha soltanto una Charter Arms Undercover calibro.38, ma anche una copia di The Catcher in the Rye, da noi Il giovane Holden, il romanzo di J.D. Salinger apparso in prima edizione nel 1951, all’inizio di tutto. «Holden Caulfield, il protagonista del romanzo, è l’Ur-adolescente –l’adolescente originario dei Fifties e Sixties e Seventies a venire.» Con Holden era cominciata l’avventura dei giovani ribelli «che si conclude bruscamente ventinove anni più tardi, l’8 dicembre del 1980, quando Mark David Chapman spara a John Lennon. Parentesi aperta, parentesi chiusa.»3
[Lennon] È stato un giovane della classe operaia inglese che ascolta Mystery Train e Rock around the Clock alla radio e capisce la musica meglio di quanto capisca o presti attenzione a qualunque altra cosa. Incontra un’anima affine, Paul McCartney, un altro musicofilo di Liverpool stregato come lui dal rock’n’roll, col quale mette in piedi una band e porta le canzonette orecchiabili dove non sono mai state prima: «tra i modelli di comportamento», dove secondo il filosofo [Bob Dylan] sono state di guardia fino a quel giorno, cioè prima dei Beatles e di quel che ne è seguito, soltanto le opere d’arte4.
Forse Chapman, oltre che di americanissimo cibo spazzatura, si è nutrito di quelle canzonette e di quei modelli comportamentali. Mentre John, dopo l’incontro con Yoko, per così dire, si è intellettualizzato. Una miscela potenzialmente esplosiva:
patatine fritte nell’olio saturo e affogate nella maionese, manuali controculturali che inneggiano al furto e alla guerriglia, poster di Che Guevara, hot dog stracarichi di senape e ketchup e bacon e salse senza nome, John Lennon che canta Power to the People e Woman is the Nigger of the World (insomma canzoni sempre più ruffiane tirandosela da militante di sinistra, proprio lui che, quando cantava Revolution con Paul e Ringo e George, metteva bene in chiaro a futura memoria che non gli piacevano tutti quei ritratti del presidente Mao in giro per le strade e che non era il caso di chiedere soldi per la rivoluzione a lui e agli altri ragazzi, che di quelle sciocchezze non ne volevano sapere). Proprio Lennon ricapitola da solo l’intera stagione dei boom5.
Il fatidico incontro tra il “creatore” e il suo prodotto culturale e sociale, proprio come in Blade Runner di Ridley Scott (1982) i replicanti umanoidi cercano il loro ideatore per risolvere i loro problemi oppure ucciderlo, non potrà essere che catastrofico, finendo col definire una delle infinite linee di tendenza che avrebbero contribuito a fare degli anni Ottanta ciò che, poi, sarebbero stati.
Gli altri trentuno capitoli procedono in ordine cronologico accompagnando il lettore a scoprire i sintomi del cambiamento all’epoca in atto e l’infinito disordine che regna in un mondo retto da nessun fato. Di cui soltanto il caso e il caos possono delinearne il divenire futuro, al di fuori di ogni oggettività data per scontata e di ogni impossibile e fasullo sogno di “geometrica potenza” rigeneratrice.
D. Gabutti, Prologo o delle utopie realizzate in D. Gabutti, Ottanta. Dieci anni che sconvolsero il mondo, Neri Pozza Editore, Vicenza 2025, pp. 12-15. ↩
Ivi, pp. 15-17. ↩
D. Gabutti, Pop. John Lenno e le culture della società opulenta in D. Gabutti, op. cit., pp. 58-59. ↩
Ivi, pp. 59-60. ↩
Ibidem, p. 59. ↩