di Stefania Consigliere
Matthieu Amiech, L’industria del complottismo. Social network, menzogne di Stato e distruzione del vivente. Prefazione di Elisa Lello. Malamente, Urbino 2024.
Come si comincia la recensione di un testo importante, in un tempo in cui l’umana attenzione è imprigionata nelle macine del plusvalore? Come si fa, fra vacche magroline, a invitare chi legge a sganciare 16 euro per un oggetto tanto fuori corso quanto un libro? E perché ostinarsi ad argomentare, a fronte di un discorso pubblico che non si cura più neppure del principio aristotelico di non contraddizione? Ci proverò in cinque passaggi “clinici”.
Malessere senza nome
È una questione estetica, ha a che fare con la percezione. Molti di noi avvertono in sé una dissonanza, la non-coincidenza fra quel che sentiamo e quel che siamo tenuti a pensare; fra quel che sappiamo e il modo in cui viviamo; fra i timbri della comunicazione e i sussulti del diaframma. A volte la distanza si fa insostenibile e ci si trova allora a fuggire dagli odori dei grandi magazzini; angosciati per le file di TIR in autostrada, di dentifrici al supermercato, di uomini armati in centro città; atterriti dalle rassicurazioni dei politici; perplessi per un biglietto aereo che costa meno di quello del treno per l’aeroporto; attraversati da improvvisi impulsi luddisti – e via dicendo, ciascuno secondo un proprio spettrogramma di sensibilità lese. È raro che la dissonanza arrivi a piena coscienza: più spesso se ne resta nelle retrovie del sentimento come scarto o angoscia senza nome, una fibrillazione da silenziare subito perché, se ascoltata, subito ci renderebbe incoerenti rispetto al mondo in cui viviamo. Folli, dunque, o più probabilmente depressi, intristiti a morte per qualcosa che sentiamo ma non sappiamo nominare.
Primo e secondo consulto
In linea con la strategia globale della modernità, ogni dissonanza è letta come disfunzione individuale. Depressione, ADHD, crisi di panico, ecoansia, anoressia, paranoie complottiste, dropout scolastico, dolore cronico: tutte queste fratture sono interpretate, diagnosticate e infine curate come malfunzionamenti dell’individuo, pensato – in linea con tutta la filosofia moderna – come entità ontologica a sé stante, autosufficiente, che intrattiene con il mondo e con gli altri soggetti relazioni di tipo estrinseco e utilitaristico, che non ne mutano l’essenza.
Per ragioni del tutto imponderabili, alcuni individui portano in sé difetti di programmazione, bachi fisici o psicologici che non permettono loro di funzionare come si deve. Per fortuna però – così prosegue il ragionamento – grazie al progresso tecnico e alle sue creature, oggi è possibile sopperire a questi malfunzionamenti dei singoli con un mix ben dosato di innesti tecnici, (psico)farmaci e distrazioni.
Su questo piano inclinato si ritrova rapidamente chiunque decida di restarsene al calduccio nella doxa del progresso. Sono pochi, e assai malvisti, i protervi che non si accontentano della via larga e vanno in cerca di altre diagnosi e letture diverse della realtà.
Alcuni di loro atterrano nei cosiddetti movimenti olistici (ex new age), una galassia pirotecnica di filosofie, pratiche di vita e sistemi terapeutici – talvolta seri e affidabili, talaltra ambigui e cialtroneschi – accomunati dal proporre eziologie indubbiamente altre. Dai movimenti delle orbite al flusso del qi nei meridiani, dalla divinazione all’incontro con le piante, queste piste sono rifiutate in blocco dai custodi della verità in quanto non scientifiche. Qui si aprirebbe in discorso lunghissimo, che provo a riassumere nel modo più antipatico possibile: antropologicamente parlando, la scienza è solo uno dei molti modi conoscitivi sviluppati dagli umani e la sua presunzione di superiorità deriva in primo luogo dall’essere il sistema di conoscenza dei colonizzatori (chi avesse voglia di approfondire troverà grandi soddisfazioni nei testi di Philippe Descola, Piero Coppo, Eduardo Viveiros de Castro, Boaventura de Sousa Santos, Mike Singleton, Ramon Grosfoguel).
Qui mi interessa invece sottolineare che, spesso, neanche i movimenti olistici superano il presupposto dell’individualità del dolore: come nella biomedicina, anche qui l’attenzione è quasi sempre messa sul singolo, sulle cause soggettive del malessere e sulla guarigione intesa come processo personale.
Altri, presi da sconcerto davanti a un mondo così incredibilmente malmesso, giungono invece a pensare che la stragrande maggioranza dei malesseri, delle dissonanze e delle insopportazioni che avvertiamo in noi è perfettamente giustificata dallo stato del mondo intorno a noi. Questa consapevolezza è ciò che, nella sfera comunicativa para-totalitaria di questi anni, bisogna rintuzzare a ogni costo: i pochi che provano a dire altro sono subito violentemente irrisi e tacitati, nel silenzio – spesso intimidito, a volte compiaciuto – di una maggioranza che al momento, come cantava De André, sta: come una malattia, una sfortuna, un’anestesia…
In alcuni casi, le operazioni di censura sono fin troppo facili. Forse per via del poco allenamento all’analisi critica, alcuni fra i refuseniks del mondo-così-com’è vengono agganciati da spiegazioni risibili (i rettiliani, QAnon, la grande sostituzione), che i guardiani della ragione non faticano a squalificare. Pur nella loro puerilità, tuttavia, queste narrazioni hanno due pregi notevoli: spostano la causa del malessere dall’interiorità del soggetto allo stato di cose in cui è immerso, e forniscono una ragione per i mali del mondo senza nascondere il disastro il corso (sono quelli che Wu Ming 1 in La Q di Qomplotto chiama “nuclei di verità”; un eccellente approfondimento della questione “complottismo” si legge nella prefazione di Elisa Lello, scaricabile qui).
In altri casi, invece, l’insopportazione allunga le sue radici nell’analisi storica, nel confronto con forme altre di umanità, nell’archeologia filosofica, nell’esperienza di piccole comunità che “fanno altro”: in breve, nel terriccio del grande pensiero critico a cui il libro di Amiech, di fatto, appartiene.
Esame obiettivo
L’industria del complottismo funziona come bussola, come lenitivo e come parte di una diagnosi complessa, in cui sofferenza individuale e stato del mondo, intimo e politica, non sono separabili. Per certi aspetti, l’incedere di Amiech ricorda quello dell’Encyclopédie des Nuisances, una delle più straordinarie imprese contro-culturali transalpine, la cui intelligenza critica non ha perso un grammo di mordente (ne approfitto per menzionare almeno i nomi di Jaime Semprun, René Riesel e Jacques Philipponnau; in Italia, il principale alleato dell’Encyclopédie è stato a lungo Piero Coppo, non a caso pioniere dell’etnopsichiatria: v. sotto).
L’accusa di complottismo, nota l’autore, equivale a una psichiatrizzazione della critica. Se sentiamo di non poterci fidare della narrazione pubblica, non è perché siamo paranoici o psichicamente farlocchi, ma perché leggiamo correttamente i segni: della narrazione pubblica non c’è proprio da fidarsi. La carrellata degli orrori comincia, a ragion veduta, con la storia del nucleare. Attingendo a un altro ottimo libro di recente pubblicazione (J.M. Royer, Il mondo come progetto Manhattan. Dai laboratori nucleari alla guerra generalizzata alla vita. Mimesis, Milano-Udine 2023), Amiech mostra, dati alla mano, come il nucleare sia probabilmente il segreto meglio custodito e la menzogna più colossale di tutti i tempi. Lascio volentieri a chi leggerà il piacere di scoprire i dettagli, un crescendo di atrocità che, diverse volte, mi ha costretta a interrompere la lettura per riprendere fiato. Qui basti dire che, dall’inizio dell’era nucleare, i morti causati dalla sua filiera si contano a decine di milioni e che la crisi climatica stessa potrebbe avere origine dalle sperimentazioni nucleari.
La commistione di interessi industriali, statali, militari e medici rende pubblicamente invisibile e imparlabile ciò che lavoratori e vittime vedono benissimo. Il caso del nucleare è il più colossale, ma non certo l’unico: Amiech prosegue con la storia del piombo e dell’amianto, con la menzogna della transizione green, con il saccheggio delle risorse fossili, con l’estrattivismo “di superficie” spacciato per meno dannoso di quello fossile, con la sciagura dell’informatizzazione coatta descritta come accesso a una vita smart e sicura.
C’è di che mettersi a battere i coperchi.
Diagnosi (dove sta la follia?)
Secondo una celebre ipotesi eziologica, la schizofrenia insorge a seguito dell’esposizione a messaggi contraddittori da parte di qualcuno la cui “versione dei fatti” non può essere contestata. Così, un genitore che malmeni un figlio dicendogli che lo fa perché gli vuole bene, rischia di produrre dissociazione: al figlio, infatti, non è possibile né ipotizzare che il genitore sia disfunzionale, né tenere insieme due messaggi così contraddittori.
L’insieme della comunicazione a cui siamo esposti presenta più di qualche analogia con questa situazione. Qualche esempio: il tecno-entusiasmo, con la promessa che il progresso tecnico risolverà tutti i problemi (e chi non ci crede è un oscurantista), unito alla consapevolezza che lo sviluppo tecno-industriale è la causa prima della catastrofe ambientale; la diffusione dell’agribusiness per “nutrire il pianeta” (e chi non ci crede è un cinico) e le ondate di suicidi fra i contadini; una green transition che punta dritta all’ossimoro del “nucleare pulito” e l’impossibilità di bonificare i siti dei disastri nucleari; il green pass descritto come strumento di prevenzione del contagio e vaccini nel cui bugiardino stava scritto che non proteggevano dal contagio. Per non dire dei molti conti che non tornano: non torna che nel migliore e più progredito dei mondi la maggioranza delle persone sia afflitta da durevole tristezza; che la sola impresa conoscitiva valida non riesca neanche più a prevedere che tempo farà domani; che la lotta di tutti contro tutti possa portare alla maggiore felicità possibile. E via dicendo.
Mala tempora currunt quando la lingua del potere può ignorare la logica e imporre la sua versione unica dei fatti; peggiori ancora, e già prossimi al totalitarismo, quando le menti dei sudditi si acconciano al bipensiero, a tener per vere nello stesso momento due cose contradditorie, a scivolare nella dissociazione pur di non ammettere che la follia è quella del mondo che ci circonda, degli infami che lo governano, della struttura stessa del dominio e del plusvalore.
Cura, cure
I Rage Against the Machine hanno scritto uno dei versi più angoscianti nella storia del rock: There is no other pill to take, so swallow the one that makes you ill. Non c’è cura, finché si resta nell’orizzonte del sistema. Bisogna guardare altrove.
Antropologia medica ed etnopsichiatria hanno descritto un buon numero di sistemi terapeutici non occidentali in cui si fa di tutto per sganciare la malattia dal soggetto che la manifesta, costruendo complesse eziologie sociali. Sono luoghi dove guarire una malattia non significa guarire l’organo malato, e neanche la persona che sta male, ma sciogliere i nodi, gli incastri e i nessi sociali che sono la causa prima del malessere. Coltivata, in tempi migliori, anche dall’antipsichiatria e dalla medicina sociale, questa intuizione è stata poi spazzata via dal riduzionismo e dai protocolli dell’attuale medicina biotech.
Il pensiero critico le è in qualche modo imparentato. Spostando lo sguardo dall’interno all’esterno, dal malessere del singolo allo stato del mondo in cui vive, mette a fuoco il nesso che lega i soggetti all’ecologia complessa in cui sono immersi; accantona le epistemologie della cecità e le ontologie della dissociazione imposte dal pensiero macchinico; non nasconde la portata del disastro in corso; e, nei casi migliori, non rinuncia a cercare strumenti per sciogliere il dolore e rimettere il mondo sulle sue gambe.
Che il nostro mondo è orribile lo sentiamo anche senza saperlo coscientemente. Ma non è l’unico: un po’ perché ancora ne esistono altri (quelli che il colonialismo ci ha insegnato a disprezzare), un altro po’ perché ecologie vivibili di umani e non umani non sono impossibili da immaginare e mettere in pratica. Amiech dà qualche indicazione di massima: disintossicarsi dal digitale; ripensare le forme di autonomia e sussistenza; coltivare la vita comune e le decisioni collettive. E cioè tornare in sé e al proprio mondo.
(Infine, e fra parentesi, un breve nota che riporta all’estetica, alle qualità del sentire. I luddisti non lottavano tanto contro le macchine in sé, quanto contro l’inabissamento dell’autonomia delle collettività e la perdita di qualità – dei prodotti, del tempo, della vita – che ciò comporta. Ebbene, a differenza di quanto accade comunemente presso editori ben più blasonati, il libro di Amiech è ben tradotto, privo di errori di stampa, curato nell’impaginazione e quindi piacevole da leggere. Se lo scopo della rivoluzione è la qualità del nostro quotidiano collettivo, allora bisogna farla finita anche coi libri impaginati a caso, tradotti con DeepL, mai riletti e stampati su carta dozzinale.)