di Franco Pezzini

(Per le parti precedenti, cfr. qui)

Nel buio della Notte di Valpurga (1917)

I primi due capitoli di La Notte di Valpurga ci hanno già mostrato alcuni aspetti d’interesse: in un clima crepuscolare ostaggio della guerra, visioni di miseria e contraccolpi dell’età feriscono la vita apparentemente regolata – o piuttosto asfittica – del medico di corte Flugbeil detto il Pinguino. Ombre di amori imputriditi, di malinconie fatte rancide e di fallimenti esistenziali: il modernismo incontra l’espressionismo tedesco in modo persino più riconoscibile dai frequentatori di quell’epopea cinematografica.

Il romanzo non è certo dei più simbolicamente ricchi di Meyrink, gioca su effetti forti ed eccessi che potremmo definire pop: guardando le datazioni può essere stato composto in fretta. Eppure le stroncature risultano eccessive, emblematica quella di Gianfranco Franchi sul bel sito Mangialibri:

 

Romanzo zoppicante e debole, bene ideato ma mal narrato; e decisamente più confusionario e disordinato rispetto alle altre opere di Meyrink. Stavolta, onestamente, si può concordare con quanti legano la letteratura di Meyrink al ciarpame kitsch: l’artista austriaco, in questo caso, è indifendibile. Qui davvero si può parlare di letteratura gotica tout court; ma è un gotico soporifero e demodé. Davvero un libro irrilevante, se paragonato a Il Golem o al fascino dell’incompiuto La casa dell’Alchimista o al pur disorientante Il volto verde.

 

Si può non essere d’accordo, a fronte della forte suggestione d’atmosfera, dell’uso insistito del grottesco e del torbido che sconfina nell’onirico, della presenza di alcuni personaggi (Zrcaldo, Flugbeil…) ben tessuti. Rispetto al labirintico Volto verde è un libro più “facile” e compatto, e nell’ambito del gotico si può non disprezzare – suvvia – un certo taglio demodé. Soporifero probabilmente no, visto che il lettore è incuriosito da cosa potrà avvenire. Poi è chiaro, non si discute di grande letteratura – alla quale è ascrivibile probabilmente, della produzione di Meyrink, il solo Golem – ma di letteratura interessante, rilevante per l’immaginario e godibile nelle sue trovate. Per cui leggere La Notte di Valpurga, con i suoi limiti e i suoi eccessi, ha ancora senso. E se di ciarpame kitsch si può parlare, è nel segno di quella “Bottega delle Meraviglie” emblema della realtà visitata dal protagonista del Volto verde: una panoramica sulle cantine della Storia dove, sotto il livello dei pavimenti, si conservano oggetti desueti […] Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti che hanno – ci mostra Francesco Orlando – un loro senso letterario e un loro fascino.

Il terzo capitolo, La Torre della Fame, parte da un altro dei luoghi celebri del Hradscin di Praga, la Daliborka dalla fama sinistra. Lì vive come guardiano il veterano Vondrejc – intento ora a contare le esigue mance ricevute – con la moglie e il delicato (nonché, scopriremo, cardiopatico) figlio adottivo diciannovenne Ottokar allievo del Conservatorio. Il figlio scende verso il palazzo della contessa Zahradka, ma poi invece si dirige da Lisa la boema, che lì per lì non capisce che lui intende farsi predire il futuro. Chiarito il suo desiderio, gli fa segnare dei tratti su una tavola di creta molle; poi Lisa conta i segni, numera e ordina i risultati secondo la “antica arte dei punti dei Boemi” appresa dai Saraceni.

La Boemia, recita Lisa secondo la formula, “è il focolare di ogni guerra” e menziona il nome di “Jan Zizka, Zizka il cieco, il nostro capo”. Più precisamente Jan Žižka (cioè “monocolo”, avendo perso un occhio) z Trocnova a Kalicha (c. 1360-1424) era stato un generale ceco tra i capi degli hussiti radicali, dalle innovative trovate belliche e dalla ferocia probabilmente enfatizzata dalla propaganda nemica. Incurante delle domande di chiarimenti del ragazzo, Lisa prosegue ricordando che la Moldava è piena di piccole sanguisughe perché in precedenza era rossa di sangue, e attendono che lo sia di nuovo. Poi però resta colpita dalle figure disegnate dal giovane: vuol divenire l’imperatore del mondo? E fa tutto “per quella là?”: Lisa lo pensava in amore con la cameriera Bozena – lui scuote il capo – ma da quella stia in guardia, è una succhiatrice di sangue. Come lui è della stirpe dei Borivoj, e si attraggono come il ferro e la calamita. Poi, cancellati i segni, sulla tavola, lo ammonisce a non essere lui il ferro con lei come magnete, altrimenti sarebbe perduto. Tra i Borivoij uxoricidi, incesti e fratricidi si sprecavano…

Ottokar vorrebbe ancora sapere qualcosa sulla profezia del “divenire imperatore” ma vengono interrotti dall’apparizione di un figuro grottesco con parrucca e favoriti posticci: le chiede se poco prima non si trovasse lì il medico di corte Flugbeil e Lisa lo caccia. Era Stefano Brabetz, spiega, un poliziotto privato che tenta di estorcere denaro in modi tanto goffi da non riuscirci mai. È della Praga bassa, dove tutti gli sono simili, forse per le esalazioni della terra: quando la gente si incontra, sogghigna maligna come a fingere di sapere chissà che degli altri. A Praga tutto sa di pazzia e di mistero: una pazzia diversa da quella pietrificata del Hradschin. Ora Brabetz sta appunto fiutando che qualcosa sta per accadere sul Hradschin…

Il ragazzo – che, Lisa conferma, è a sua volta pazzo, non c’è niente di male e per la follia di un sogno lei è stata amante del re di Serbia Milan Obrenowitsch (Milan IV Obrenović o Milan I di Serbia, 1854-1901, principe e poi re di Serbia, 1868-1889) – vorrebbe sapere cosa dovrebbe accadere. Ma lei gli chiede dove vada col violino: apprendiamo che andrà a suonare al palazzo della contessa Zahradka che è la sua madrina, e rendendosi conto che Lisa ha fretta di metterlo fuori, riparte. Le campane della Cappella della Santa Casa gli paiono venire da dentro di lui: raggiunge Palazzo Reale e ha la visione di una processione guidata dal principe arcivescovo. Viene colto da vertigini di fronte alle sue fantasie di essere incoronato… poi, mentre cerca di arrivare in tempo dalla contessa, nota che il portone del palazzo Waldstein è aperto: occhieggia incuriosito e vede portar fuori il cavallo impagliato appartenuto ad Albrecht von Wallenstein (o appunto Waldstein, 1583-1634), uno dei protagonisti della guerra dei trent’anni – e destinato a fama postuma anche grazie alla trilogia Wallenstein di Friedrich Schiller (1796-1799).

Dall’immagine di quel cavallo, quasi versione deformata, rigida e grottesca del cavallino a dondolo dei bambini, era stato ossessionato, ma non era mai riuscito a decifrarne il presagio. Come un enorme giocattolo piombato ora nel tempo della terribile guerra dei demoni delle macchine contro l’uomo (torniamo alla costruzione di macchine poi arrugginite nel Volto verde e al tema della macchina in I quattro fratelli della luna). In qualche modo resta comunque turbato dalla battuta scherzosa un servo che lo invita a salire sulla groppa tarlata dl cavallo…

All’inizio di primavera, la contessa è solita passare nel piccolo, cupo palazzo della sorella morta contessa Morzin, buio come ama lei, mentre il suo palazzo resta con le persiane chiuse. Il ragazzo entra nell’edificio circonfuso di storie di tesori e di spettri, e raggiunge la contessa nella scomodissima e buia stanza ricoperta di fodere – come per qualche vendita all’asta – dove attende il figlioccio povero. Unico oggetto a emergere (in parte) dalle fodere è il ritratto a grandezza naturale del defunto sposo della contessa, il maresciallo di corte Zahradka, leggendariamente (e ottusamente) crudele e duro con gli altri come con se stesso. Nemmeno i numerosi gatti del palazzo osano entrare nella stanza… La contessa verso Ottokar mostra atteggiamenti contraddittori, ma la tenerezza dura pochi secondi per essere sostituita da un freddo disprezzo forse retaggio delle antiche radici aristocratiche boeme: e più che i discorsi ciò riguarda i toni. Verso la musica che lui le offre, mostra reazioni assenti o invece contraddittorie rispetto al tono della musica – come l’odio quando lui suonava bene, forse per una sorta di lesione dei privilegi di classe. Più che le persone, in questa storia, finiscono con il rilevare le radici, il DNA e la classe di appartenenza.

(Si presentano qui alcune belle illustrazioni a incisioni di Vladimir Zimakov, dall’edizione Vita Nova del romanzo, San Pietroburgo 2009.)

Le offre dunque una canzone popolare sentimentale (la prima mai suonatale, in occasione della cresima) e vive lui il trasporto estatico della musica vagheggiando un volto femminile fantasticato – con il curioso effetto che al suo emergere reca stranamente alla musica ritmi di selvaggia crudeltà. E all’improvviso quella giovane appare dalla porta, come scaturita dal suo stesso essere: e suona per lei, rapito. Si vede con lei nel buio della cripta di San Giorgio, dove la luce di un cero illumina una scultura in marmo nero di una morta semidecomposta con un serpente sul petto, e risente le parole del monaco custode ai visitatori sull’artista: avendo ucciso per gelosia l’amante incinta era stato costretto a scolpirne il ritratto prima di finire sulla ruota… Ma ora la giovane sorridente si è posta vicina alla contessa, che la presenta come la nipote Polissena e le ingiunge di non disturbare. Ottokar, colpito, resta bloccato ma poi viene nuovamente interrotto da Polissena che ammette di aver pensato (anche lei!) alla cripta di San Giorgio. Ma la contessa ha notato con meraviglia il modo appassionato in cui Polissena ha pronunciato il nome di lui: e diviso tra le reazioni opposte delle due donne, il povero Ottokar tenta con il motivo di un organetto ambulante dalla strada – e nota che Polissena ha scappucciato l’orologio a pendolo e ha puntato le lancette ferme sulle otto. Poi la contessa loda la sua esibizione ma lo avvilisce offrendogli due banconote per comprarsi un paio di calzoni non così macchiati. Persa completamente lucidità, il giovane si trova in strada… e pensa all’appuntamento con Polissena. Ha anche l’idea di affogarsi per la vergogna nella Moldava, ma desiste devastato tra vergogna e strazio per la delusione, se lei venisse o invece mancasse all’appuntamento. Fissa la Daliborka, la torre nei cui tre piani (il più alto con i prigionieri nell’oscurità, il secondo per la morte per fame, il più basso coi corpi in decomposizione delle vittime) la gente impazziva, e che non è ancora sazia, come una fiera che si nutra di carne e sangue. Torna verso casa, la madre sospetta che a interessarlo non sia più Bozena.

Nella Daliborka una stanza è memore della prigionia della contessa Lambua, bisnonna della contessina Polissena e avvelenatrice del marito, morta pazza: aveva fatto in tempo a lacerarsi i polsi coi denti e dipingere col sangue il proprio ritratto sulla parete. Lì nella torre Ottokar attende terrorizzato l’ora dell’appuntamento: da qualche mese a Polissena pensa sempre, ma agitazione e dolore lo straziano. La loro storia pare una favola nera: si trovava per suonare per degli ospiti al palazzo Elsenwanger ed era stato rapito dal ritratto di una dama di età rococò dall’espressione crudele e sensuale, la contessa Lambua battezzata Polissena, e l’ambiente della Torre della Fame aveva contribuito a plasmare il suo mondo fantastico. Ma non immaginava che l’oggetto del suo sogno potesse esistere davvero, e un giorno nel Duomo l’aveva incontrata in carne e sangue della discendente omonima: si era gettato ai piedi di lei ed era nata una “passione selvaggia, innaturale […] come un turbine diabolico”, carica dei desideri di tutto un retaggio. Col risultato che la ragazza spensierata entrata nel Duomo ne era uscita mutata anche nell’anima nell’omonima antenata… incontrandosi proprio quando si desiderano più intensamente. Comunque lei appare all’appuntamento, e tutto quel che precedeva è inghiottito dall’oblio: le vesti di lei finiscono sparpagliate sulle sedie, lui sente “il calore della sua carne, il morso dei suoi denti sul collo, […] i suoi gemiti di voluttà” in un’estasi dei sensi di cui poi non ricorda nulla, come del fatto di aver suonato – ma si tratta di una musica venuta da lei, di voluttà, orrore e spavento (si può immaginare che le metafore usate per descrivere una consumazione sessuale risultino troppo retoriche e datate per un romanzo “elegante”, ma l’idea dell’autore è di insistere sul disturbato, sul patologico fino a sfumature grottesche). Mentre i pensieri di Polissena si trasmettono vivi al cervello di Ottokar come proiettandovi una storia evocata da una lapide della Piccola Cappella sul Hradscin. A proposito di un temerario, Borivoj Chlavec, che aveva mirato alla corona di Boemia ed era stato impalato: ma il palo si era spezzato e l’uomo, con il troncone ancora nel corpo, era riuscito a trascinarsi fin da un prete per ottenere una morte devota coi Sacramenti… Ormai Polissena se n’è andata, ma il sogno di Ottokar è di offrire all’amata, foss’anche centuplicando i tormenti dell’impalato, ciò che di più alto la volontà umana possa conquistare.

Intanto Flugbeil continua a essere di malumore per la visita a Lisa la boema e soprattutto per il riemergere del ricordo del suo antico amore per lei. Si debba attribuire all’aria languida del maggio o all’eccesso di spezie nei gulyas della trattoria Zum Schnell che rende difficile prendere sonno, resta irrequieto; e si spaventa quando, leggendo il giornale per pensare ad altro che alla giovane Lisa, prende a vedere sospetti spazi bianchi – li vede anche la cameriera, è l’opera della censura di guerra, ma il timore è che dagli spazi vuoti erutti il volto ghignante della Lisa di oggi… persino guardare nel telescopio gli richiama simili paure. Ma continua a pensare all’attore Zrcadlo e insieme non è disponibile a tornare a cercarlo. In compenso viene a sapere che Elsenwanger da quella notte non riceve più nessuno e vive nel panico che il documento invisibile evocato dal sonnambulo alluda a una revoca postuma dell’eredità da parte del morto Bogumil – e nel completo clima di sragione collettiva il nobile di Schirnding gli dà ragione, meglio non guardare nel cassetto… Flugbeil resta perplesso.

Decide a un certo punto all’improvviso di cercare Zrcadlo al Rospo verde, dove il proprietario lascia un tavolo sempre libero per il Pinguino e i suoi amici – in realtà mai più presentatisi dall’inizio della guerra. Mentre beve, Flugbeil vede la propria immagine allo specchio ripetere capovolti i suoi gesti: ma per evitare riflessioni malinconiche sull’uomo come mera maschera passiva spegne la lampada vicina. Avvista così invece nello specchio parti delle sale vicine, ricordando malinconico i propri amori con Lisa giovane su un certo divano – e nota a disagio come i ricordi emersi subito si dilatino, come a proposito del fazzoletto regalatole con le iniziali (L.K., Lisa Kossut), da lei morso per non gridare nell’amplesso… La vista grottesca di un gruppo di avventori gozzoviglianti lo spinge a recuperare episodi della giovinezza: ma all’improvviso in mezzo a loro appare Zrcadlo – non imbellettato, ha pelle gialla e la testa sembra di cera. Torniamo alla cera…

A uno dei gaudenti che vuole abbracciarlo, il sonnambulo saetta un’occhiataccia – poi Flugbeil crede di aver visto male nello specchio (come uno schermo cinematografico, per inciso), perché il volto di Zrcadlo si modella come l’orrenda maschera di un morto. Il gaudente, terrorizzato, cade al suolo con un rantolo, morto: e quando Flugbeil riaccende la luce si ritrova davanti il sonnambulo come una sorta di golem.

Cercando di restare freddo, Flugbeil gli chiede cosa cerchi e come si chiami, senza ricevere risposta; allora avvicina un fiammifero acceso alle pupille dell’altro, che non reagisce. Il polso ha un battito lentissimo, che accelera solo alla domanda del medico si chi sia lui; poi inala aria con veemenza e gli occhi sorridono innocentemente. Però non è tornato normale, e il segno intorno alle labbra e il viso del sonnambulo richiamano ora a Flugbeil il volto di lui stesso bambino. Poi l’attore pronuncia “Chi sono?”, con la voce che il vecchio medico aveva da piccolo e insieme, con uno strano duplice tono come a confonderle, con quella del presente: e inizia una sorta di responsorio delle due voci da quella stessa bocca, sul tema “Chi sono?” e sulla sordità al canto della propria anima. Flugbeil dimentica di trovarsi davanti a un incosciente, resta turbato alle accuse del lungo responsorio che in fondo riecheggia i suoi stessi turbamenti, la sua peccaminosa incapacità di gioire per una gioia che non conosca causa, la sterilità della sua senescenza – come se il suo Io l’avesse abbandonato per passare in un altro. Poi gli pare che l’attore sia libero di mente, ma ora è solo posseduto da un’altra entità, un uomo coi baffi che non a caso spiega come le persone incontrate per le strade non posseggano un Io, ma siano semplicemente invasate da fantasmi diversi – come il nostro Io tende a invadere altre persone. Zrcadlo – o come si possa definire la presenza – mostra anzi di conoscere i pensieri formulati da Flugbeil. L’Io passa attraverso gli uomini, non si esaurisce in corpo, sensi, pensiero di ciascuno. Comunque l’interlocutore spiega di essere un Manciù degli altipiani della Cina, non un morto ma un Vivente e residente in quell’Impero di Mezzo che è il centro dell’universo, dappertutto… Si accorge che Flugbeil diffida della sua ironia, ma spiega che la seriosità si addice ai vasi vuoti, mentre la “suprema sapienza va in veste di pazzia”. L’umiltà è un masochismo “ammantato d’ipocrita devozione”, un segno “meno” che unendosi con altri crea un vuoto pneumatico nel regno dell’invisibile. A quel punto è inevitabile che il vuoto chiami un segno “più”, sadistico, portatore di dolore e violenza. Ma, come il povero attore di cui si serve, ogni uomo è uno strumento, mentre l’Io non lo è e resta equidistante dai “memo” e dai “più”.

Il 30 aprile è la notte di Valpurga, ma esistono anche notti di Valpurga cosmiche, a grande distanza l’una dall’altra, e una sta arrivando: l’alto prende il posto del basso e viceversa, si susseguono avvenimenti quasi senza causa e no, non c’entrano la dimensione sessuale o le nozze di una ragazzetta borghese come nei romanzi… Se ai cani del Cacciatore Selvaggio verranno spezzate le catene, viene però spezzato anche l’obbligo del silenzio per il bene di quanti siano maturi per il “volo”. Esorta dunque colui che ha avuto la pretesa di occuparsi dei corpi di occuparsi un po’ delle anime – anche se in effetti non ha finora spiccato il volo sufficientemente in alto… coi suoi monconi di ali da pinguino. Che non significa fare qualcosa a tutti i costi, ecco il segno “più” diabolico che colora di sangue: si tratta di lasciare spazio all’Io.

Ma l’arrivo di una guardia che annuncia la chiusura del locale segna la fine della conversazione – e l’attore è silenziosamente uscito.

Merita ricordare che il romanzo, pubblicato nel 1917 a Lipsia in piena guerra, si colloca in un certo quadro di scossoni internazionali:

 

la rivoluzione bolscevica sta per trionfare in Russia, la civiltà cristiana cambiava corso, una nuova era si apriva nella storia del mondo. Ma il presentimento che ne aveva Meyrink aveva poco a che vedere con le contingenze politiche: questo veggente si interessava solo ai sommovimenti della storia invisibile, ove sono segnate le tappe della coscienza cosmica. […] Per questa risonanza storica [di capovolgimenti epocali], La Notte di Valpurga occupa un posto un po’ a parte nell’opera di Meyrink, che tratta piuttosto di esperienze individuali e di drammi personali, anche quando questi si inscrivono nel destino di una schiatta o di un ordine iniziatico occulto. Al contrario, possiamo dire che qui il dramma collettivo e i drammi personali si congiungono. Tutta una filosofia esoterica della storia emerge dalla lunga tirata che il sonnambulo Zrcadlo rivolge al medico della corte imperiale Flugbeil, che da un capo all’altro del romanzo svolge il ruolo di testimone, un testimone che porta il simbolico soprannome di Pinguino, l’uomo che ha dei monconi di ali. Questo passaggio è sicuramente uno dei più importanti dell’opera di Meyrink: ci fornisce il pensiero più avanzato, più condensato, più chiaro, anche, di un autore di cui non è sempre facile decantare agevolmente l’espressionismo non di rado ridondante e carico di simboli. Contrariamente agli altri romanzi di Meyrink d’altro canto, La Notte di Valpurga non si lascia ricollegare all’una o all’altra tradizione specifica, ma sembra semmai utilizzarle tutte. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]

 

Le speculazioni di questo capitolo, peraltro, risultano in modo robusto e tuttavia creativo debitrici di dialoghi con Bô Yin Râ (il bavarese Joseph Anton Schneiderfranken, 1876-1943), scrittore, pittore ed esoterista e dei suoi scritti, particolarmente Das Licht vom Himavat (La Luce di Himavat, 1914) e Der Wille zur Freude (La volontà di gioia, 1917): nonostante il permesso esplicito di uso dei materiali, Bô Yin Râ chiederà poi a Meyrink di non ricorrervi ulteriormente, a fronte di un uso troppo libero e letterario-occultistico di riflessioni di tipo spirituale che aveva lasciato sconcertati alcuni suoi lettori. Il Nostro, correttamente, eviterà in seguito di farvi ricorso (e Bô Yin Râ stesso ne difenderà l’onestà): ma la posizione di Meyrink è esplicitamente quella dell’artista che non pretende un’autenticità puntuale e magari vissuta degli eventi narrati, e si riserva il diritto e la responsabilità di modifiche funzionali alla vicenda – tanto più in quanto genuinamente persuaso dell’esistenza di una realtà sottostante quella della comune esperienza e di cui avverte l’influenza anche quando scrive.

Ogni 16 maggio, in occasione della festa di san Giovanni di Nepomuk patrono della Boemia, al pianterreno di Palazzo Elsenwanger viene offerta una grande cena alla servitù cui presenzia il padrone: e dalle otto a mezzanotte ci si dà del tu mangiando assieme senza divisioni sociali. Se il padrone ha un figlio o in alternativa una figlia, la maggiore d’età, quelli lo sostituiscono. Ma dall’incontro con il sonnambulo il barone è rimasto scosso e ha chiesto alla nipote Polissena di prendere il suo posto: la riceve in biblioteca, tra libri che non ha mai letto, sferruzzando una calza gialla, e suggerisce che poi lei resti a dormire lì. Polissena in realtà non lo dice, ma ha già fatto sistemare un letto nella sala dei quadri: comunque lui si addormenta, e lei non ha voglia di svegliarlo per ricadere in qualche squallido discorso, d’altra parte si sente spossata. Ripensando all’infanzia, la avverte sconsolata e asfittica, soffocata dall’intollerabile senescenza dei due zii e dalle loro terribili maschere quando sonnecchiano, maschere di vecchiaia che paiono rifrangersi nelle azioni, negli ambienti, nei ritratti alle pareti e persino nelle strade, nelle case e negli alberi muschiati della città: a dominare la giovane è un odio contro tutto ciò che è morto e una sete di vita nascosta e pronta a prorompere. La situazione, dopo l’iniziale senso di novità, non è andata meglio con l’educazione al convento del Sacro Cuore, dove la parola “amore” viene costantemente, ossessivamente abbinata al sangue – nel Crocifisso, nelle immagini di martirio o di sofferenza come il cuore trafitto da sette spade, nella luce sanguigna dei lumicini… finché il sangue come simbolo di vita non si lega indissolubilmente al fervore della sua anima. Ciò che rende Polissena la più ardente tra le nobili educande del convento e le resta dentro – l’idea di amore, ma per il sangue e ad esso associata – laddove le materie studiate evaporano.

Alla fine della vita in collegio, il ritorno nella senescenza di casa sprofonda nuovamente Polissena in un passato tombale: ma il sangue come vita resta nel suo sentire e vi collega tutto quanto è giovane, vivo e l’attrae. L’apertura a Palazzo Elsenwanger della sala con il ritratto dell’antenata Polissena Lambua le offre la sconcertante sensazione che inquadri una creatura viva, il cui destino sia strettamente legato al suo. E da matrice destinata diviene una sorta di incarnazione delle sue stesse qualità manifeste come latenti… benché non conosca la fondamentale legge magica “Se due grandezze sono simili, esse sono una stessa cosa secondo simultaneità, anche se nella loro esistenza sono separate da spazio e tempo”.

Il quadro agisce dunque su di lei come poi su Ottokar, affascinato peraltro tramite la ragazza viva che conosce, mentre lei cresce a gradi con esso identificandovisi: ma l’immagine è carica della forza magica del sangue di lei, che chiama quello di Ottokar… e al loro incontro nel Duomo è inevitabile un fatale legame, perché ciò che è latente passa in atto. Il giorno dopo Polissena è andata a confessare la propria colpa, ricordando che al convento le avevano insegnato che sarebbe morta se l’avesse taciuta: ora decide di tacere sentendo che resterà viva – ma ha ragione e torto insieme, perché l’Io vecchio cade morto ed è sostituito da un altro che corrisponde all’immagine dell’antenata. La Polissena morta della sala dei ritratti è ora viva, la viva è caduta morta ed entrambe sono innocenti, visto che una tace in confessione quanto l’altra ha commesso. E amore e sangue vanno a confondersi.

Spinta da un “desiderio dolce e voluttuoso” scambiato dai vecchi per brama di sapere, si aggira dunque sul Hradscin da un luogo di sangue e di martirio a un altro, assorbendone l’alito rosso di eccidi e torture, un’angoscia mutata in ardore.

Alle otto della sera della cena, la ragazza scende dunque nello spazio dedicato alla cena della servitù, viene accolta con baci affettuosi da un vecchio domestico e condotta a capotavola. Intorno, con Bozena che serve le pietanze, la vecchia cuoca degli Elsenwanger e altri servitori un po’ imbarazzati che Polissena cerca di mettere a proprio agio, ci sono alcuni dipendenti di altri aristocratici – in particolare il cocchiere russo Sergio e lo scudiero tartaro Molla Osman – che la fissano con aria tagliente. Ma alla fine, arrivati ai liquori, Polissena chiede notizie della comparsata dello strano sonnambulo: le risposte sono un po’ confuse, ma a un tratto il cocchiere russo chiede come si chiamasse e Polissena riporta il nome di Zrcadlo. A detta del tartaro, è “lo strumento di un ewli”, un fachiro mago che usa la bocca di un altro che si trovi in stato di morte, o dormiente o tramortito. Per quel tempo, l’ewli è come morto: e “Ciò vien chiamato aweysha” – che non ha niente a che vedere col Corano. Ma un defunto di forte volontà o con “ancora una missione da compiere sulla terra” può entrare in un essere vivente desto senza che se ne accorga, oltre che in corpi in stato di morte apparente come il sonnambulo Zrcadlo. Polissena chiede al tartaro perché un morto possa mai voler possedere un vivo, e lui offre una serie di possibili spiegazioni: per godere, per fare qualcosa in terra che non è riuscito a concludere, per provocare – se è crudele – un mare di sangue, e ciò spiegherebbe gli orrori della guerra (anche se il tartaro non spiega così la guerra in corso). Un’idea, un entusiasmo, sono infusi dall’aweysha… di cui esistono diverse specie, a partire da un semplice parlare. Certo vi è indenne chi creda solo in se stesso, sia sempre presente a sé e rifletta prima di agire… ma poi Molla Osman risulta elusivo. Polissena è irritata, non si tratta che di uno stalliere: “E che cosa mi direbbe qualora io gli domandassi, se anche dei ritratti possono fare aweysha?”, offesa nel proprio orgoglio di casta per non aver mai trovato tanto interessante il dialogo con qualcuno dei propri parenti. Vagheggia che, fosse in suo potere, gli farebbe tagliare la testa, ma la fantasia non la soddisfa: “Non poteva sentire delle crudeltà, se ad essa non si accoppiava anche l’amore o la sensualità”, ai quali il tartaro non offre appigli.

Poi Polissena coglie un po’ di agitazione tra i servi, e le parole di un giovane boemo, “ciò che il proletariato, al massimo, può perdere, sono le sue catene”, “la proprietà è un furto”; ma poi spuntano anche il nome Jan Zizka, reazioni scettiche, “Basterà muovere un dito, a che ci sparino addosso. Mitragliatrici!”, risposte del cocchiere russo, e a un tratto il nome Ottokar Vondrejc. Si protende per sentire, ma smettono di parlare. Decide di ignorare il borbottio, ma Bozena – con cui Ottokar aveva avuto una relazione – è rimasta indifferente, dunque il discorso non tocca la sfera privata.

Rammenta allora di alcuni fermenti, brontolii di rivolta che non giungono al Hradscin e a lei non interessano. Ma quando fissa il russo avverte l’odio di lui, distoglie lo sguardo, e coglie come un brivido voluttuoso la prospettiva che possa scorrere del sangue. Un sangue che erompe dal suolo di Praga… e ora è il russo a mostrarsi vinto. Tra sé commenta gelida che ci vorrà ancora tempo prima che il loro proletariato possa spezzare le catene: e matura la certezza di sapere – lei e il suo ceppo – fare aweysha da secoli.

Conclusa la cena, Polissena non si sente di andare subito a dormire, si domanda se Ottokar dorma e per un attimo la prende il desiderio: poi però realizza che i propri sogni sono diversi, ben più selvaggi e ardenti di quelli del fragile giovane, e si chiede se davvero lo ami. E cosa accadrebbe se lo lasciasse… non riesce neppure a sentire dolore al pensiero che Ottokar, malato di cuore, possa persino essere morto. Come se lui avesse confidato quella situazione a un quadro – quello dell’antenata o uno degli innumerevoli altri che ora, passando, la sua candela illumina e che se fossero vivi le rimarrebbero estranei ma ora le paiono cadaveri…

Sente che dabbasso i domestici stanno congedandosi e spia dalla finestra a candela spenta. Il cocchiere russo attende qualcuno e poi viene raggiunto dal giovane lacchè boemo, lei sente solo la parola Daliborka. C’entra con Ottokar? Decide di seguirli o meglio precederli alla torre, anche per evitare di restare tutta la notte con quegli orribili ritratti. Scende, evita crocchi di persone, sale verso il castello; a un tratto le pare di cogliere il tabacco del russo, intravede un volto illuminato dalla luce di una sigaretta e corre oltre fino alla torre dove un gruppo di persone sta puntando. Raggiunta una finestra di casa del giovane, lo chiama piano. Si accorge che all’interno qualcuno sta pregando: è l’anziana madre adottiva di Ottokar – pensa Polissena, riconoscendola per la vecchia governante – che prega perché i peccati di Ottokar non siano imputabili a “colei, che io amo”, cara come una figlia (Polissena, evidentemente) e lui per quella passione non si macchi le mani di sangue assieme a coloro che meditano assassinii. La vecchia chiede nella preghiera di potersi caricare pesi e peccati del giovane o di lei oppure di far morire il giovane ancora innocente. A quel punto Polissena – o piuttosto l’immagine dell’antenata che la possiede e sta per essere scacciata dal suo cuore – non resiste più e fugge.

Nel piano di mezzo della Daliborka si è riunito tutto un gruppo di cospiratori, ma Polissena raggiunge il piano superiore e, distesa bocconi, spia. Sono soprattutto operai di officine e fabbriche di munizioni, al cui confronto Ottokar pare un bambino; in disparte c’è anche Zrcadlo, come addormentato. Ci sono il lacchè boemo e il russo, parlano di ribellarsi contro stato, chiesa, nobiltà e borghesia e di sterminare la nobiltà. A quel punto Ottokar si dichiara contrario, suscitando l’irritazione del russo e scaldando il dibattito. “[…] non è che un musicante!” lo difende un conciaiolo. Il russo, che cerca di tenere le redini e non crede all’attuazione delle teorie nichiliste, brandisce un opuscolo dell’anarco-comunista Pëtr Alekseevič Kropotkin (1842-1921) – in sé di famiglia aristocratica – che annuncia una rivoluzione universale contro chi ha promesso con le industrie un’esistenza umana degna di quel nome e ha invece consegnato il popolo alla miseria, ha promesso la pace e invece ha trascinato in una guerra infinita… e contro uno stato che contrasta la liberazione del proletario. Mentre le classi dominanti giocano solo all’alternanza sui propri interessi: il lacchè boemo vede la soluzione nel massacrare ebrei e nobiltà, il russo fissa Zrcadlo (che però continua ad apparire assente) e propone di ribellarsi, ora che le truppe sono al fronte. Il conciaiolo obietta che con telegrafi e ferrovie i soldati piomberebbero loro addosso, il russo risponde che allora sapranno morire. Vagheggiano di predare i tesori di chiese e palazzi per sostenersi, e a un certo punto intervengono gli operai: discendenti di hussiti, vogliono sapere cosa dica Dio – Zrcadlo ne sarebbe la voce – e hanno abbastanza esplosivi da far saltare tutto il Hradscin.

Dall’apertura del pavimento, l’agitatissima Polissena vede allora l’attore alzarsi, e comprende che il russo vuol fare aweysha con lui, per renderlo proprio ventriloquo. Lei si ribella a quell’idea: non ha capito molto dello scambio politico, sa solo che la plebe vuole rovesciare l’assetto sociale, per

 

la brama dello schiavo di divenire il signore: un pogrom sotto altra forma. Che tale non fosse stato l’originario intento dei creatori di simili teorie, di Kropotkin, di Michele Bakunin e dello stesso Tolstoi – che essa metteva nello stesso gruppo – non lo sapeva: quei nomi essa li aveva sempre odiati, dal più profondo dell’anima.

 

per cui la sua volontà cerca di impedire a Zrcaldo di fare da altoparlante al russo. Ovvio, un certo modo di vedere i rivoluzionari popolari fa montare la saliva alla bocca agli eredi del gruppo di Ur: ma in realtà Meyrink, che è un moderato e non banalizza i distinguo ideali, non vede in modo più positivo la feroce classista Polissena.

Ma tra le due forze in contrasto per prendere il sopravvento e che lo fanno dapprima vacillare, è infine una terza a offrirgli voce. Non è cercando contraddittoriamente – annuncia – la voce di Dio altrove che in noi, senza fede nel fatto che Lui è dappertutto, o cercando il destino deciso da Dio con la pretesa di diventarne signori ma da semplici uomini, che possiamo cambiare le cose: occorre vedere il divino in noi stessi. La domanda non verte dunque sul perché Dio abbia fatto scoppiare la guerra, ma sul perché gli uomini – “voi stessi” – l’abbiano lasciata scoppiare. Dio non vi rivela il futuro, ma “perché non credete di essere Dio” e dunque senza comprendere che sono gli uomini a crearlo per la propria parte, e di lì si potrà prevedere il resto. Mentre restano schiavi di un destino che rotola come un masso caduto da una cima…

Ma solo ora si verifica la creazione dell’uomo dal soffio e dal fango, chi è testa ne diverrà la testa, chi è un essere debole e sensitivo ne formerà il mero sentimento. Persino nel chiedere, questa gente lo fa in modo asfittico, rivolgendosi a uno che chiamano Zrcadlo, specchio, invece che a Dio… ma viene interrotto dal lacchè boemo che domanda chi vincerà la guerra – forse i tedeschi? – e quale sarà la fine. Ormai il sonnambulo si sta afflosciando, risponde che il principio della fine sarà l’“incendio di Londra e la rivolta delle Indie”, e invano la gente gli si accalca addosso. Il losco cocchiere russo capisce a quel punto che, scatenato il fanatismo religioso, lui si trova tagliato fuori.

Intanto Polissena, abbacinata dalla lampada all’acetilene che illuminava il sonnambulo, vede il riflesso impresso sulla propria retina… e presto altre immagini prendono ad affiorarvi, “parti fantasmatici di una notte di Valpurga dell’anima”. Ma mentre le parole dell’attore risvegliano qualcosa in lei, al piano di sotto una vertigine fanatica travolge i presenti. E quando Polissena torna a guardare le appaiono figure spettrali, prima delle quali un doppio di Ottokar come un’ombra del passato con lo scettro in mano, quindi un uomo con la benda sull’occhio, cioè Jan Zizka l’hussita, e poi la stessa antenata Polissena Lambua impazzita in quella torre. E si mescolano invisibili ai rivoltosi… Il doppio di Ottokar si fonde con il giovane vivente, Zizka scompare in Zrcadlo, lo spettro della contessa stringe le mani al collo del russo che prende a respirare affannato. La ragazza allora comprende cosa le immagini suggeriscano e concentra la volontà su Zrcadlo pensando al concetto di aweysha – per cui il sonnambulo si rianima. Una lama d’ombra gli copre un occhio come una benda, e il cenciaiolo e poi tutti gli altri ravvisano in lui Jan Zizka come profetizzato (ricorda qualcuno) da Lisa la boema. Lo sentono borbottare e poi muovere la mano – Polissena, anzi, vede la scena – come quando Zizka fracassava il cranio dei monaci alla testa delle sue truppe con falci e mazze. Rivede anche mentalmente l’eccidio degli Adamiti nudi massacrati dagli hussiti, e il realizzarsi della maledizione dai primi scagliata, l’accecamento del suo unico occhio. “E poi… e poi la cosa più terribile: Zizka, morto di peste, eppure tuttora vivo!”, la cui pelle stesa su un tamburo mette in fuga gli avversari. Così “il cieco e lo spellato – spettro su di un cavallo decomposto – cavalca invisibile alla testa delle sue orde e le conduce di vittoria in vittoria”: e forse, sospetta orripilata Polissena, è proprio lui che ha penetrato il corpo dell’attore e dà ordini ai ribelli. Lei non capisce cosa dica, ma un fuoco selvaggio si è acceso negli occhi di quegli uomini. Intorno al collo del russo si vedono sempre le dita spettrali dell’antenata… Polissena pensa così di essersi liberata da quelle immagini dell’anima divenute spettri che ora compiono la propria opera – e spera a quel punto di poter possedere un proprio autonomo Io.

Intanto Ottokar ha alzato gli occhi al soffitto in direzione – non lo sa – dell’amata, ma la preghiera della vecchia sul preservarlo dal peccato è stata ascoltata (comprende Polissena) e così non sente la voce di Zizka. Ma Polissena coglie anche l’immensità dell’amore di lui, incarnato in quel doppio spettrale di Ottokar con scettro e corona: e capisce che l’amore che lei prova è solo un pallido riflesso di quello di lui. E le giungono come lontane le parole di Zrcadlo sull’antico splendore e la futura grandezza della Boemia, mentre Ottokar trema cereo come lottando per non cadere al suolo. Mentre la gente proclama che Jan Zizka sarà il loro capo, il sonnambulo addita Ottokar che perde i sensi. Polissena grida il nome di lui, ma a quel punto la sentono e guardano in alto, si ritrae e urta contro qualcuno nascosto nel buio, forse la persona incontrata sulla scalinata del palazzo reale, per cui fugge fuori nella nebbia.

(9-continua)

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