di Andrea Di Vita
“Isaac era autenticamente orgoglioso e felice dei suoi traguardi. Dopo la sua morte, trovai un pezzo di carta sul quale aveva scritto a inchiostro (forse dopo la prima volta che si era ammalato): ’Nel corso di quarant’anni, ho venduto un pezzo ogni dieci giorni in media. Nel corso dei successivi vent’anni, ho venduto un pezzo ogni sei giorni in media. Nel corso di quarant’anni, ho pubblicato una media di 1000 parole al giorno. Nel corso dei successivi vent’anni, ho pubblicato una media di 1700 parole al giorno.’ Scrivere ciò che voleva e stata una gioia per lui, che l’ha aiutato a rilassarsi e dimenticare i suoi guai.”
Queste parole sono state scritte dalla vedova di Isaac Asimov (1920-1992) nella terza autobiografia dello scrittore, Io, Asimov. Questa autobiografia – nella bella e accurata traduzione italiana di Chiara Beltrami per i tipi de il Saggiatore – fu compilata poco tempo prima della morte da un Asimov ancora in buona salute; delle due autobiografie precedenti solo la prima era stata pubblicata in Italia da Armenia. Il titolo del volume fa l’occhiolino alla celebre antologia Io, Robot dove si sviluppano le Tre Leggi della Robotica che ancora oggi influenzano la vera ricerca sull’intelligenza artificiale. Anche agli occhi dell’appassionato di fantascienza e di chi – come l’autore di queste note – ricorda con piacere le interminabili letture giovanili dei saggi e degli articoli di divulgazione scientifica di Asimov, il libro ha il pregio di illuminare un aspetto poco noto della personalità dello scrittore: la coerenza.
Dire che Asimov “è uno scrittore di fantascienza e un divulgatore scientifico” è poco. La sua produzione è sterminata: fra opere originali di fantascienza, prefazioni ad antologie, articoli pubblicati su riviste di fantascienza e non, abbozzi di sceneggiature, volumi di divulgazione scientifica, libri di testo scolastici, una trama di un musical di fantascienza coi Beatles mai realizzato e – appunto – tre autobiografie, non si va troppo lontano dal vero se si parla di cinquecento titoli. Tenuto conto anche che fino al raggiungimento della fama editoriale la percentuale dei manoscritti rinviati al mittente dagli editori è di solito considerevole, i ventisette milioni di parole pubblicate in sessant’anni sono una sottostima dell’effettiva produzione. Asimov si vanta di non avere mai patito il “crampo dello scrittore”: gli dai una macchina da scrivere e una risma di carta e lui comincia a battere sui tasti di getto, con pochissime correzioni. C’e da credergli. Racconta di aver passato un’intera vacanza con la prima moglie in un campeggio in cui non ha trovato nulla di meglio da fare che mettersi a scrivere il copione della filodrammatica di dilettanti compagni di villeggiatura.
Come Woody Allen, spiega di odiare l’allontanarsi dalla metropoli i cui grattacieli oscurano il cielo e lo proteggono dalle distrazioni. Accompagnando l’adorata figlia piccola ai giardinetti, scalpita in cuor suo pensando ai minuti in cui non sta battendo macchina. Si vanta di seguire una routine di ferro: otto ore al giorno a battere a macchina o a catalogare vecchi testi – secondo un suo personalissimo sistema di archiviazione, in un mondo senza personal computer e telefonini. A questo ritmo, anche immaginando di fare solo quello, ventisette milioni di parole in sessant’anni corrispondono a una media di centocinquanta quattro parole all’ora: due pagine al giorno, per tutta la vita. Giusto Mozart componeva così in fretta.
Viene da chiedersi: che razza di individuo è uno che sul letto di morte pensa a scrivere un biglietto in cui si congratula con se stesso per aver scritto e venduto così tante cose? Il biglietto lo ha scritto rivolto a se stesso, la moglie non dice di averne saputo qualcosa prima di trovarlo. Non si tratta di una civetteria superflua: la mole della bibliografia sta lì a dimostrarlo. Chi legge l’autobiografia sa che non si tratta di avidità. Asimov rifiuta tutte le lucrose offerte di collaborazione da Hollywood. L’unico film indiscutibilmente asimoviano, Viaggio allucinante, è anche uno dei pochissimi casi in cui Asimov scrive un racconto esplicitamente ispirato a una sceneggiatura preesistente, e non farina del suo sacco. È oggi che una serie di lavori al cinema e alla televisione saccheggiano la vasta opera asimoviana, dall’improbabile I, Robot di Willy Smith al ciclo della Foundation prodotto da Netflix; c’è da sperare che l’annunciato film diretto da John Ridley tratto da Caves of Steel (Abissi d’acciaio) sortisca effetti migliori. Non si tratta di amore della letteratura: Asimov è avido lettore dell’opera omnia di Shakespeare, ammira lo stile dei colleghi scrittori di fantascienza Ray Bradbury e Theodore Sturgeon, legge e rilegge J.R.R. Tolkien cinque volte; ma rimane grato agli amici che lo sconsigliano di provare a scrivere in modo “letterario”.
C’entrano sicuramente la bibliofilia e la claustrofilia. La prima rimanda all’adolescenza dello scrittore, ne parleremo più tardi: è singolare che un libro – anche nella forma di una registrazione nanotecnologica – spunti sempre qua e là nel ciclo della Fondazione, per esempio nella scena madre che avviene nella biblioteca della capitale in rovina dell’Impero Galattico, su Trantor. La claustrofilia – la diffidenza per gli spazi aperti – ritorna continuamente in tutti i racconti col detective Elijah Bailey. In Asimov raggiunge il livello di una vera e propria acrofobia – il terrore delle altezze. Ma un claustrofilo può avere una vita sociale attiva, invitare amici; l’unica volta che Asimov ammette di avere invitato amici a cena sottolinea di avere raccomandato a tutti di astenersi dal fumo – l’intolleranza verso il quale era stata una delle cause del divorzio dalla prima moglie. Questo non significa che Asimov fosse un solitario. Al contrario: la sua capacità di intrattenere le persone, di creare un ambiente favorevole, di raccontare barzellette e aneddoti divertenti, e soprattutto di improvvisare spiegazioni chiare e comprensibili su quasi ogni argomento è leggendaria. È quella che lo ha reso un divulgatore scientifico altrettanto se non addirittura più prolifico dello scrittore di fantascienza, un conferenziere conteso a peso d’oro, un affabulatore nato, un allegrone di genio, un mattatore con un istrionico senso dell’umorismo. L’autobiografia è ricca di esempi, come quando Asimov dice di essere stato sfidato a tirare in pubblico un acuto da cantante lirico a una conferenza tenuta da un suo amico, cosa che – con sollazzo universale – lui si guarda bene dal rifiutarsi di fare.
Si è detto che la dote nascosta di Asimov fosse una ferrea coerenza. Tale coerenza lo rende sincero fino all’autoanalisi. Il fatto di coltivare l’autoironia gli facilita l’ammettere esplicitamente di essere un narcisista egocentrico, uno mosso in ogni cosa che intraprende dal perseguimento dell’autosoddisfazione. Ammette di trovare se stesso estremamente interessante: tre autobiografie lo dimostrano. Adora essere al centro dell’attenzione; ha un’altissima stima di sé, e non solo come affermato oratore (il deus ex machina della Seconda Fondazione è, appunto, un Primo Oratore). Alla consueta fila per gli autografi sui libri venduti una lettrice chioccia gli dice “Che emozione! Qui c’è lei, e nell’altra stanza c’è Lawrence Olivier!” Al che lui, subito: “Come sarebbe onorato Olivier se lo sapesse!”. Cita compiaciuto un giudizio altrui sul se stesso da giovane: “è molto immodesto, ma ha parecchio per cui essere immodesto”. Come l’altro autore egocentrico di una autobiografia rimasta celebre, Benvenuto Cellini, Asimov proietta continuamente l’immagine di sé come centro della fantascienza mondiale insieme a Arthur C. Clarke e a Robert A. Heinlein (cui peraltro non risparmia qualche frecciatina ogni tanto). Io, Asimov è fondamentalmente non una lunghissima carrellata di personaggi grandi e piccoli della scena fantascientifica statunitense dagli anni Quaranta ai Settanta, ma una carrellata dei loro rapporti (di solito soddisfacenti) con l’autore.
Asimov si rende conto già da giovane di essere diverso. Ha una memoria eccellente, se non fotografica; a scuola non è bravissimo in matematica ma si entusiasma alle scienze naturali e alla storia; rifugge dalla ginnastica. Soprattutto, l’essere figlio di poveri immigrati provenienti dalla Russia, che lo salvano dalla miseria durante la Grande Depressione solo grazie al negozio di dolciumi paterno, lo costringe a trascorrere in negozio tutto il suo tempo libero dalla scuola. Non ha letteralmente né il tempo né i soldi per andare a giocare a baseball coi coetanei né per andare a ballare e fare il filo alle ragazze. In tempi difficili pochi acquistano dolci; nel negozio, spesso vuoto di clienti, il giovane Asimov ha solo due cose da fare dopo i compiti: leggere e fantasticare. E Asimov legge, legge di tutto: da Shakespeare alla monumentale Ascesa e caduta dell’impero romano di Edward Gibbon. Legge anche la Bibbia, anche se non condivide la fede dei padri e resterà ateo tutta la vita. Legge libri di divulgazione scientifica e legge le rivistine da un soldo piene di mostri mirabolanti, avventure incredibili, sesso suggerito e violenza esplicita. (Negli stessi anni, un inglese più anziano di quasi vent’anni uscito da Eton, e che Asimov non capirà quando l’avrà letto, come George Orwell, denunciava la sotterranea pornografia di quelle riviste. Ma senza di esse non avremmo le Tre Leggi). Non potendo costruire una vita sociale nella realtà, Asimov se la costruisce nella mente. Dice di se stesso “sono ancora e sempre nel negozio di dolciumi”. Quello che per Marcel Proust è la madeleine, per Asimov è Asimov… Consapevole delle proprie doti, costruisce mondi di cui – narcisisticamente – è il dio creatore e legislatore; la memoria gli consente di formarsi una cultura vasta e interdisciplinare, che riversa nelle sue creazioni; la facondia gli facilita l’esposizione dei punti di vista dei veri personaggi. Asimov si vede fin da ragazzo come creatore di storie, sia per iscritto sia a voce, e questo determinerà le sue scelte future. Scrive fantascienza perché si diverte; si diverte così perché costruisce mondi di cui detta le regole (come nella robotica) usando le sue interminabili letture di argomento scientifico. Per tutta la vita, il resto – raccontare barzellette, cantare – serve a mantenere buoni rapporti sociali che gli consentono di scrivere. Questa consapevolezza in Asimov si unisce a un rigore, un amore per la coerenza attribuito all’educazione al dovere ricevuta in famiglia. (Una volta confessò all’austero genitore di aver perso al gioco ben quindici centesimi. Il padre ringraziò il cielo: 2Meno male! Pensa se li avessi vinti!”). Le sue letture gli insegnano che in una storia anche i cattivi, dal proprio punto di vista, sono buoni, e che ciascuno dei personaggi, anche il più sciocco, è convinto di comportarsi nel modo più sensato. L’intreccio delle storie di Asimov è sempre il contrapporsi di ragioni individuali plausibili per i personaggi che le dichiarano. Prima di lui i robot sono tutti come il mostro di Frankenstein, l’orribile creatura intelligente che si ribella al suo creatore. Lui ne fa esseri razionali, servizievoli ma mai schiavi; anzi, chi li schiavizza viene punito (come nel romanzo The Nacked Sun, Il sole nudo). Prima di lui le donne nella fantascienza sono tutte “cerve che brucavano pigramente l’erba mentre aspettavano che i cervi smettessero di combattere in modo da sapere a quale harem sarebbero appartenute.” Asimov crea donne magari vittime dell’amor materno ma più attive e più intelligenti degli uomini; una di esse dichiara non a caso “i robot sono fondamentalmente persone per bene”.
La grandezza di Asimov è che la sua coerenza è onnipervasiva. Partiamo dalla poetica. Asimov non sarebbe se stesso se non la definisse esplicitamente. Scrive che ogni racconto è un problema con una soluzione. Le storie devono essere tutte dotate di una coerenza interna. Ogni storia è uno schema, come una partita a scacchi o di baseball. Cesellate a puntino, come le opere di Benvenuto Cellini. Lo stile è invariabilmente colloquiale, a costo di essere monotono; e questa costanza è frutto di un continuo e deliberato esercizio, come nel contemporaneo Ernst Hemingway.
Asimov condivide il giudizio del poeta Robert Frost secondo cui “il verso libero è come giocare a tennis senza rete”. Nessuno è più antimarinettiano e antisperimentale di Asimov. Come nei gialli di Agatha Christie – che Asimov divora e ammira profondamente – ogni storia ha uno schema che aspetta di essere rivelato. Asimov conosce la New Wave della fantascienza, ma la detesta, così come detesta i racconti alla Star Wars che considera “western su Marte”. (Solo l’amata figlia, da piccola, lo convinse a seguire gli episodi di Star Trek). Lui stesso, quando si mette alla macchina da scrivere, ha in mente uno schema, non i protagonisti della storia, che sono a volte poco più che i punti in un diagramma immaginati nelle partite a dama di certi testi di Edgar Allan Poe. L’autore ha il dovere dell’imparzialità nei confronti dei suoi personaggi nel presentarli al lettore. Questa imparzialità Asimov la estende a tutto. Nell’autobiografia non esita da ammettere di essere stato un padre troppo distante dal figlio avuto nel primo matrimonio, di rifuggire dalle grandi feste in famiglia, di non avere riconosciuto molte doti della prima moglie. Il principale vizio nel quale si vergogna di indulgere di quando in quando – di rado – è l’autocommiserazione, legata più che altro alla sua triste adolescenza; è grato al padre da una parte e alla seconda moglie dall’altra per averlo aiutato a guardarsene. In politica Asimov è un liberal, e se ne vanta, anche negli ultimi anni quando sotto Ronald Reagan la cosa non era più di moda. Diventa liberal da ragazzo perché vede che i conservatori del periodo bellico (quando lui comincia a pubblicare) sono tendenzialmente antisemiti, e lui è ebreo. I primi scrittori di fantascienza che contatta sono quelli di tendenze più chiaramente antifasciste. Nel Dopoguerra vede i conservatori diventare fondamentalmente degli egoisti; osserva che gli operai si imborghesiscono, si indigna di fronte ai tagli reaganiani alla sanità pubblica, di cui viene a sapere dalla figlia psichiatra. Scrive “mi fa pensare ai versi di Oliver Goldsmith: Mal sopporta la terra, preda di mali incalzanti / dove la ricchezza si accumula e gli uomini decadono. Da americano fedele, mi sentivo scoraggiato.” Ma proprio perché rifiuta l’autocommiserazione, Asimov mantiene fermo un punto: ogni essere umano ha il dovere verso se stesso e il mondo di comportarsi nel modo che ritiene più costruttivo possibile. È di sinistra come lo era Bertrand Russell: non per una qualche coscienza di classe, ma perché guidato da un rigido razionalismo materialista e antireligioso. Di economia ammette di non avere mai capito nulla, nemmeno nelle sue letture divulgative da ragazzo.
Quando recensisce 1984 di Orwell lo stronca giudicando (correttamente) che non si tratta di fantascienza: ma è tipico di Asimov il modo che ha di criticare, ad esempio, il segno distintivo dell’opera orwelliana, il teleschermo che in ogni casa spia l’operato dei telespettatori. Asimov giudica l’idea balzana e improponibile perché inefficiente, dato che richiede un numero spropositato di controllori: gli sfugge completamente che proprio il fatto che col teleschermo metà della popolazione è spiata dall’altra metà fa sì che – come nell’ex Germania Est – tutta la società diventa uno strumento di delazione. Ancora meglio, Asimov condanna in Orwell il fatto che “tutti i suoi personaggi sono, in un modo o nell’altro, deboli o sadici, o squallidi, o stupidi o repellenti”. La commovente ingenuità di Asimov intende smentire il pessimismo orwelliano affermando che “i decenni trascorsi dal 1945 sono stati notevolmente pacifici rispetto ai decenni precedenti”. E qui si vede in pieno lo stesso modo di pensare sotteso proprio a Io, Asimov: l’ottimismo radicale stile film di Frank Capra, l’idea che l’essere umano sia fondamentalmente buono e che, a patto che si sia doverosamente da fare, non si autocommiseri e non indulga a stravizi, la tecnologia farà sì che il mondo sia suo. Ogni problema va affrontato in modo costruttivo e ottimista. Anche se la conoscenza è pericolosa, l’ignoranza non è mai una soluzione, è solo una fuga. La religione, deviando l’uomo dal retto uso della ragione per comprendere il mondo, si riduce a fondamentalismo. E fondamentalisti sono coloro che si oppongono all’intelligenza artificiale dei robot, proprio come “quelli che in passato si opponevano all’energia nucleare”. Da Caves of Steel al racconto Winds of Change (Il vento è cambiato) i fondamentalisti sono la bestia nera di Asimov, che dedica tutto il suo vasto commento interlineare del libro della Genesi a confutarli. Asimov è lo Spencer Tracy del film Indovina chi viene a cena, l’antirazzista orgoglioso di accettare in famiglia il genero nero (laureato in medicina e impiegato all’ONU). Tranne la sovrappopolazione (Asimov è contemporaneo di quel Paul Ehrlich che terrorizzò gli USA coi suoi allarmi sulla bomba demografica negli anni Settanta) non esiste problema ambientale che la tecnologia non possa superare. Questo purché usata a fin di bene, e quindi non per la guerra.
E qui salta fuori l’altro aspetto di Asimov in politica: l’opposizione al nazionalismo. Ogni nazionalismo è male, perché porta alla guerra. La guerra è male perché è violenza, e “la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci”. Coerenza vuole che l’ebreo Asimov si opponga allo Stato di Israele, perché la sua esistenza porta sempre i Palestinesi scacciati dalle loro case ad attaccarlo e questo sarà sempre foriero di guerra. Lo ha detto in pubblico davanti a dei sopravvissuti alla Shoah. Oggi Asimov sarebbe censurato come antisemita. Asimov non fa sit-in come Russell, ma aderisce all’Internazionale Umanista con la seconda moglie.
L’idea di Hannah Arendt (e di Orwell) che la tecnologia di per sé porti sia prospettive di maggiore liberazione sia di maggiore oppressione appare del tutto incomprensibile ad Asimov, che la ignora completamente – e che chiamerebbe “catastrofista’”se non la ignorasse. Lui appare tutto preso a costruire complessi ma comprensibili mondi sulla base degli assiomi di logica e di ragionevolezza buttati giù decenni prima nella solitudine del negozio di dolciumi. È come un Frank Sinatra che continua a cantare My Way all’epoca dell’hard rock. Non digerisce mai del tutto l’invadenza della televisione; meno male che non conosce i social. Forse però ha ragione lui quando dice che “l’aspetto più triste della vita in questo momento è che la scienza raccoglie conoscenza più velocemente di quanto la società raccolga saggezza”. Come per la canzone di Sinatra, allora, il biglietto di Asimov sul letto di morte è una versione tutta personale della frase dell’autore della lettera a Timoteo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede.”
Per finire questa carrellata su questo grande del secolo scorso, le parole migliori sono le sue, perché descrivono non solo l’autobiografia ma la sua intera produzione: “C’è una scrittura che somiglia ai mosaici di vetro che si vedono nelle vetrate decorate. Tali finestre sono meravigliose in sé e lasciano entrare la luce in frammenti colorati, ma non ci si può aspettare di vedervi attraverso. Allo stesso modo, esiste una scrittura poetica che è splendida in sé, e può facilmente influenzare le emozioni, ma tale scrittura può essere astrusa e rendere difficile la lettura se si cerca di comprendere cosa stia accadendo. Un piatto di vetro, d’altro canto, non ha alcuna bellezza intrinseca. Idealmente, non si dovrebbe riuscire a vederlo, ma attraverso il piatto è possibile vedere tutto ciò che accade all’esterno. Quello è l’equivalente della scrittura che è semplice e disadorna. Idealmente, nel leggere una scrittura simile, non ci si rende nemmeno conto di leggere. Le idee e gli eventi paiono puramente fluire dalla mente dello scrittore a quella del lettore senza alcuna barriera nel mezzo. Spero che sia ciò che accadrà quando leggerete questo libro.”