di Walter Catalano
Normalmente mi occupo di serie tratte da testi letterari, comics o videogiochi ma per Severance/Scissione farò un’eccezione. Lo show distribuito da Apple TV + è infatti opera originale dello sceneggiatore e showrunner Dan Erickson. Diretta da Ben Stiller e Aoife McArdle e avvalendosi di un cast fuori dell’ordinario che comprende John Turturro, Christopher Walken e Patricia Arquette, la serie affronta un tema complesso come il rapporto tra memoria e identità sferrando una serrata critica alle derive del capitalismo. Potremmo includerla in quella categoria di storie in cui l’attività nelle grandi aziende multinazionali, riflessa come in uno specchio deformante che ne rivela la natura reale, viene denunciata come un incubo assoluto. Thomas Ligotti qualche anno fa definì corporate horror alcuni suoi racconti collocabili in questo ambito, My Work Is Not Yet Done: Three Tales of Corporate Horror (2002) oltre ai successivi La torre rossa, A favore dell’azione punitiva, Il nostro supervisore temporaneo, inclusi in Teatro Grottesco (2006, ristampato nel 2008) – volumi entrambi pubblicati in italiano da Il Saggiatore rispettivamente nel 2020 e nel 2015. Con una deriva visionaria molto meno afferente al gotico rispetto ai testi di Ligotti e più orientata verso certa fantascienza sociologica che dalla verve caustica di autori come Frederik Pohl e Cyril Kornbluth, Alfred Bester o Harlan Ellison scivola verso l’iperrealismo postmoderno di James G. Ballard, anche Severance sembra rientrare perfettamente nei canoni ligottiani del corporate horror, la descrizione allucinata e destabilizzante di un paradigma aziendale che stritola l’individuo e la comunità in nome del profitto cristallizzando gli impiegati in una gerarchia soverchiante e in un meccanismo di azioni indotte volte non più alla semplice produzione, come per gli spilli di Adam Smith, ma divenute fantasmatiche, imperscrutabili e oscure. L’azienda, che già nei paradossi caricaturali e parodistici del nostro Fantozzi, si era metafisicizzata in Megaditta gestita da Duca-Conti e Mega-Direttori Galattici, qui si equipara all’Heimarmene concentrazionaria degli Gnostici – forse la Black Iron Prison dell’Exegesis di Philip K. Dick – se non a un vero e proprio Inferno dantesco.
L’idea di Dan Erickson, ispirata a certe sue deprimenti esperienze lavorative giovanili maturate in ambito impiegatizio, è che una grande azienda multinazionale, la Lumon Industries, induca alcuni dei suoi dipendenti a farsi impiantare chirurgicamente nel cervello un microchip che separi l’individuo in due entità separate, una – gli innies, gli interni – che cartesianamente pensa e quindi è solo sul luogo del lavoro e l’altra – gli outies, gli esterni – che segue la sua vita personale e privata. Ognuna delle due parti è ovviamente esclusa dalla memoria e quindi dall’esperienza dell’altra: avviene quindi una sorta di clonazione che in realtà riguarda solamente lo sdoppiamento di un medesimo essere vivente. Si annulla una parte di sé per trasformarla in una sorta di ape operaia – priva di una vita propria e quindi di ogni ideale e giudizio – al servizio di un’azienda miliardaria. I dipendenti della Lumon, così, sono letteralmente il loro lavoro, non avendo alcuna coscienza della vita esterna. L’individuo lavoratore, l’innie, può dedicarsi a tempo pieno al suo impiego e l’altro, l’outie, può godersi una giornata libera da impegni. Ma il primo subisce la rottura del ciclo circadiano (il lavoratore tecnicamente non ha mai esperienza del sonno) e si priva di una qualsiasi vita di relazione, ha la percezione di non andare mai via dal lavoro, imprigionato nel loop infinito dell’esecuzione automatica di routine lavorative di cui ignora il senso, nella spersonalizzazione dell’impiego d’ufficio, preda della necessità da parte dell’industria di avere al proprio servizio mere macchine senza identità, pedine totalmente devote al mansionario, arrendevoli e mai solidali, perse nella disumanità di un compito di cui ignorano la vera natura e dall’esecuzione del quale dunque non possono trarre alcuna soddisfazione; in cambio l’outie dall’altra parte, cancella definitivamente lo stress del lavoro una volta abbandonato l’ufficio. Lo switch tra ricordi privati e lavorativi avviene entrando nell’ascensore della ditta, dotato di sensori che attivano il chip impiantato nel cervello dei dipendenti sottoposti alla procedura. Gli innies non sanno chi sono nella vita privata e non conoscono gli scopi dell’azienda: lavorano a tali condizioni spesso solo per dimenticare chi sono fuori. Ad esempio il protagonista Mark Scout (interpretato da Adam Scott), che ha accettato la procedura imposta dalla Lumon allo scopo di ridurre le ore atroci di lutto per la recente morte della moglie. Una dissociazione quindi dal duplice scopo: un palliativo per le sofferenze emotive dell’individuo nel mondo di fuori e un utile incremento dell’efficienza produttiva per l’azienda nel mondo di dentro. Il controllo sull’equilibrio tra lavoro e vita privata è l’aspirazione di ogni imprenditore: gestire un dipendente ideale che al lavoro lasci fuori tutto, che non abbia più distrazioni né passioni. La scissione chirurgica di Severance non è che l’applicazione estrema, fantascientifica di scissioni già attuali: di chi, per esempio, abbia due cellulari, uno per le chiamate private e uno per quelle di lavoro e alternativamente tenga acceso l’uno o l’altro, o di chi non possa liberamente rispondere al proprio telefono personale o avere accesso a internet sul posto di lavoro. È l’evoluzione estrema e avveniristica dei principi del fordismo e del taylorisimo: la razionalizzazione del lavoro, l’ottimizzazione delle risorse e il compimento ultimo dell’alienazione. In un’epoca in cui il principio di separazione tra la vita lavorativa e la vita professionale è divenuto prassi, Severance non fa che mostrarci la versione più estrema e mostruosa di una metodologia già in atto.
Gli impiegati della Lumon non conoscono altro al di fuori delle attività svolte all’interno dell’azienda, schiavi asserviti al raggiungimento di uno scopo il cui significato è loro precluso. La cancellazione da parte dell’innie della vita dell’outie, si estende a tutto il passato antecedente l’impiego; al lavoratore non resta memoria alcuna della propria famiglia, del proprio nome, dei propri interessi. Lungi dal limitarsi alla procedura chirurgica sui dipendenti, la divisione è il principio fondante della Lumon: divide et impera. La precisa ripartizione dei compiti, l’inesistente interazione tra i differenti reparti, ignoti e ostili l’uno all’altro, tutto concorre a creare un contesto in cui il lavoratore, apparentemente blandito e tutelato, non possa schivare la scure inquisitrice dell’industria. E in assenza di memoria storica (e di memoria in generale), alla Lumon si è venuta col tempo a creare fra gli innies una vera e propria mitologia e deificazione dei padri fondatori dell’azienda (la versione seria del Mega-Direttore Galattico di Fantozzi): secondo Erickson, le grandi aziende sono come sette o culti e gli interni della Lumon ne idolatrano il fondatore Kier Eagan come un profeta, autore di un manuale aziendale che è l’equivalente di un testo sacro e viene citato, preso a modello, commentato e glossato. La distopia del post-taylorismo determina un contesto così efficiente e ieratico da risultare inerte, smaterializzato: i capi della corporation sono ridotti a pura voce, l’aziendalismo è la nuova religione e il lavoro è icona e feticcio idolatrato in un museo dedicato ai Fondatori dell’azienda che occupa un’immensa sala della Lumon.
Fin nell’architettura e nel design minimalista degli uffici, nell’estetica retrofuturista, nella gestione degli spazi simmetrica e opprimente della Lumon si sottintende un sistema di controllo individuale, prima ancora che sociale. Prevale l’estetica perturbante delle backroom – le aree riservate di un ambiente pubblico, tendenzialmente lavorativo, con esplicito riferimento al fenomeno di creepypasta nato sul sito internet imageboard 4chan e incentrato su immagini di corridoi senza fine, uffici, svolte su luoghi che ripetono ossessivamente la stessa configurazione architettonica. Un labirinto inquietante e interminabile. La versione postmoderna dell’Inferno. Se qualcosa va fuori posto, se si rompe l’ordine delle backroom, il sistema si sconvolge e la catena produttiva collassa. Un pericolo che giustifica la necessità della scissione: tenere fuori l’elemento emotivo, circoscrivere il lavoro ad un io controllabile. Eppure nell’asettico dedalo della Lumon, percorso surrealisticamente da misteriose caprette bianche, può nascere e crescere persino l’amore, pur castrato dall’occhio e dall’artiglio corporativo: ogni sentimento all’interno del severed floor (il nome del piano riservato agli impiegati scissi) passa attraverso il filtro dell’incertezza: nessuno degli innies sa, infatti, quali legami abbia intessuto al di fuori dell’ufficio. Eppure Irving Bailiff (John Turturro), si innamorerà di Burt Goodman (Christopher Walken), e Mark Scout (Adam Scott) di Helly Eagan (Britt Lower).
Proprio per ovviare alle insicurezze emotive degli innies, l’azienda ha istituito, come premio di produzione e come tecnica di rilassamento, simile allo yoga, l’intervento di un’operatore specializzato che racconti ai dipendenti qualcosa del loro outie, ma solo cose molto generiche, che potrebbero valere per tutti (al tuo outie piace la musica, gli piacciono i film, è gentile, aiuta gli altri ed è benvoluto, ecc.), premurandosi però che chi ascolta non si fissi su un aspetto particolare di quanto gli viene raccontato: l’esperienza deve restare plastica, duttile, non indirizzarsi mai ad una visione concreta.
E la stessa sigla dello show, piccola opera d’arte e chiave di accesso al tema base di Scissione, rimanda a questa plasticità vischiosa, mostrando, come in un balletto inquietante, la tensione fra le due esistenze del protagonista in equilibrio tra lavoro e vita privata. L’ideazione e la realizzazione dei titoli di testa è opera del 3D artist berlinese Extraweg, al secolo Oliver Latta; specializzato nella modellazione di corpi ‘gommosi’ in CGI e la cui opera Human Paste divenne virale sui social non molto tempo fa. Fin dalla sigla, dunque, la malleabilità è indicata come la caratteristica principale di Severance. Una plasticità in negativo però, la forza occulta che modella l’identità degli individui secondo i voleri dell’azienda.
Dopo i nove episodi della prima stagione, rilasciati nel 2022, sono da poco stati emessi i primi tre episodi dei dieci della seconda, realizzata alla fine del 2024, qui gli Innies protagonisti riescono a risvegliarsi temporaneamente nel mondo dei loro outies, nella speranza di denunciare all’opinione pubblica il trattamento spietato inflitto loro dalla Lumon: Helly (Britt Lower) ha così scoperto di essere l’impietosa figlia dell’amministratore delegato dell’azienda – una nemica di classe sdoppiata nella stessa persona – Irving (John Turturro) si è reso conto che l’inconscio del suo outie ha reminescenze dei luoghi opprimenti del lavoro e li dipinge ossessivamente in quadri perturbanti, ma anche che l’amore della sua vita Burt (Christopher Walken) è sposato con qualcun altro. Le loro personalità si declinano in modi fin troppo discrepanti e sovvertitori tanto che la ribelle Helly innie non può riconoscersi parte della rigida e spietata Helly outie. Intanto Mark outie e innie scoprono che la moglie del primo forse non è davvero morta ma ha svolto il ruolo di superiore del secondo alla Lumon; la perfida Harmony Cobel (Patricia Arquette), dirigente Lumon licenziata dall’azienda (severance oltre a scissione significa anche licenziamento) ha molte cose da raccontare ma non vuole farlo; lo scopo del lavoro sui numeri al computer diligentemente svolto dal team aziendale resta un insondabile mistero; la trama si complica con le nuove attività clandestine dei ribelli che descindono le vittime rimuovendo il loro microchip cerebrale, mentre le sconcertanti caprette bianche continuano a percorrere i corridoi anodini della Lumon in un’alternanza di ironia nonsense, humor nero e dramma dell’assurdo. Ne verremo a capo in qualche modo?